BIOGRAFIA E PRIMI SGUARDI AI SUOI VERSI
Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio del 1912, da Attilio Caproni e Anna Picchi. La città di nascita resterà sempre nelle memorie personali e letterarie dell’autore: evocandosi dal ricordo degli affetti primigeni e trasfigurandosi nei suoi versi allegorici, ben radicati in immagini quotidiane, nitide e al contempo evocative.
Anna Picchi è una sarta e sa suonare la chitarra e il
mandolino. La musica sarà un’eredità importante per il giovane Caproni; infatti
anche il padre è dedito alla musica: Attilio Caproni suona il violino… ed è
anche un appassionato di Dante, in particolare della Divina Commedia, che
acquista in edicola in dispense. Questi piccoli particolari diventeranno le
radici culturali ispiratrici di Giorgio Caproni.
Le difficili condizioni economiche della famiglia,
causate dall’arruolamento di Attilio nella Prima Guerra Mondiale e dai tumulti
sociali che prepareranno il terreno per l’ideologia fascista, costringono la
famiglia a trasferirsi presso i quartieri più popolari. Per un periodo
coabitano con una coppia di lontani parenti, fatto assai normale in un’Italia
sofferente.
Nasce la terzogenita Marcella, successiva a Giorgio.
La famiglia si trasferisce prima a La Spezia e poi a Genova, una città che si
imprime nell’animo dell’autore che dichiarerà: “Sono io che sono fatto di
Genova”.
Giorgio aveva iniziato gli studi elementari a Livorno
e li completa a Genova. Si iscrive, poi, alla Scuola Tecnica Antoniotto
Usodimare. Il padre incoraggia il figlio a studiare violino. A tredici anni,
Giorgio si diploma in composizione all’Istituto Musicale Giuseppe Verdi. Di
notte… suona nell’orchestrina di un dopolavoro. A causa della propria
indigenza, Giorgio deve interrompere la formazione musicale e inizia a
lavorare: farà anche il fattorino per uno studio legale.
La musica resta una base importante dove nasceranno le
armonie e le suggestioni sonore e strutturali caratterizzanti le poesie di
Caproni.
Giorgio viene contagiato dall’amore paterno per la
musica ma anche per la Divina Commedia; inizia ad avvicinarsi alla
poesia moderna, letture che definirà “infatuate”.
Nel 1932 invia i primi versi al direttore della
rivista genovese I Circoli, i componimenti vengono, però, rifiutati.
Lo stesso anno vede Giorgio arruolarsi nel 42°
Reggimento Fanteria di Sanremo. Porta con sé le memorie letteraria abitate da
Ungaretti, Montale, Saba. Durante le guardie notturne scrive componimenti, che
confluiranno in Come un’allegoria (1936).
Due anni dopo, dopo la fine dell’impegno militare, si
prepara da privatista agli esami per la scuola magistrale; un professore
antifascista di nome Alfredo Poggi lo affianca e gli permette di approfondire
Dante, ma anche Catullo, Virgilio e Lucrezio.
Giorgio riesce a diplomarsi e successivamente prende servizio come maestro elementare a Rovegno, nell’alta Val Trebbia. La
carriera di insegnante è molto importante per lo scrittore, e la porterà
avanti il più possibile, fino al 1973.
Il giovane maestro, nel suo trasferimento, porta con
sé la fidanzata genovese Olga Franzoni, ragazza molto cagionevole di salute. La
giovane, purtroppo, muore di setticemia poco dopo. La dipartita della sua
amata, occorsa poco prima delle nozze, piega profondamente Giorgio… che la
ricorderà per tutta la vita, come fosse un fantasma, il ricordo di una mancanza
incolmabile.
“[…]
E intanto lenta scaturiva,
dal
silenzio infinito, un’altra corte
infinita
di brividi sul viso
scolorato
toccandoti: ma fu
storia
anch’essa conclusa – né ora più
m’è
soccorso a quel tempo ormai diviso.”
(Biciclette
da Il passaggio d’Enea)
Però, la vita continua e il giovane si
trasferisce a Pavia, sempre per motivi di lavoro. Nella nuova residenza
incontra Rosa Rettagliata, che sposa nel 1938. La donna, apostrofata nelle
poesie come “Rina”, è l’altro polo amoroso dei versi del poeta: colei che porta
con sé una speranza di continuità, di vita che si rinnova e non torna indietro.
Rina è l’esistenza quotidiana che va avanti, anche se tra le angustie del
vissuto, anche matrimoniale.
Rina è ciò che salva il poeta dal baratro:
“Senza
di te un albero
non
sarebbe più un albero.
Nulla
senza di te
sarebbe
quello che è.”
(A Rina, in Galanterie)
Nel 1938, il maestro Giorgio Caproni approda a Roma,
alla Scuola Giovanni Pascoli di Trastevere. L’Italia entra in guerra e Caproni
viene richiamato alle armi. Partecipa alla Campagna di Francia e
successivamente compie diversi spostamenti e peregrinazioni.
Particolarmente importante è l’incontro con il
giornalista e scrittore Libero Bigiaretti, il quale lo presenta all’editore
Luigi De Luca: Finzioni viene, così, pubblicato.
Lo scrittore Pietro Bargellini, invece, lo presenta
all’editore Vallecchi che pubblica a Caproni Cronistoria.
Arriva l’armistizio dell’8 settembre 1943, lo
scrittore si trova in congedo dai familiari della moglie. Rifiutandosi di
unirsi alla Repubblica di Salò, entra nella resistenza partigiana della Val
Trebbia; viene impiegato principalmente in mansioni di approvvigionamento. Lo
scrittore dedicherà versi cupi a questo periodo della sua esistenza, come nella
raccolta I Lamenti.
Nel 1945 torna a Roma. Cambia più volte casa e alla
fine si stabilisce nel quartiere di Monteverde in un’abitazione senza
riscaldamenti. Molto vicino a Caproni… vive, in una residenza ben più
dignitosa, Attilio Bertolucci.
Lo stipendio da insegnante è troppo basso, e lo
scrittore cerca di arrotondare come correttore di bozze di una tipografia.
Però, iniziano ad aprirsi le porte dell’ambiente letterario. Inizia a frequentare
Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini. Il poeta Carlo Betocchi, a cui era
stata affidata la trasmissione radiofonica L’Approdo, invita Caproni in radio
diverse volte.
Bertolucci diventa il lasciapassare per la casa
editrice Garzanti. Cerca anche di far ottenere a Caproni un congedo dal lavoro,
ma Giorgio si rifiuta… come farà anche per la possibilità di un posto fisso in
RAI.
Tra il 1966 e il 1972, la Rizzoli impiega il Nostro
come consulente editoriale. Nel frattempo, si moltiplicano le letture
radiofoniche delle sue opere. Caproni lavora alacremente anche come traduttore.
Si impegna altresì nell’attività giornalista: collaborerà con importanti
testate schierate come l’Unità, L’Italia Socialista… ma lo scrittore non
manifestò mai un forte interessamento politico in senso stretto.
Negli anni Sessanta, attraversa un momento di
difficoltà a causa di un intervento chirurgico allo stomaco. In seguito, la
morta della sorella e del fratello creano un senso di solitudine intorno al
poeta. A consolarlo i numerosi inviti all’estero, e i viaggi nei quali viene
spesso accompagnato dalla figlia Silvana. A Parigi parteciperà a una lettura di
versi con il poeta Mario Luzi. Diverse prestigiose università vogliono
guadagnarsi un intervento di Giorgio Caproni: lo scrittore si reca, infatti,
all’Istituto Italiano della Columbia University, a Berkeley e a Stanford.
Durante un viaggio in Germania, sempre in compagnia
della figlia Silvana, inizia a concepire la raccolta che uscirà poi postuma, Res
Amissa.
Il primo gennaio del 1984, il rettore dell’Università
di Urbino, Carlo Bo, consegna a Caproni la Laurea Honoris Causa in lettere e
filosofia.
Del 1985, è la Cittadinanza Onoraria conferita dalla
città di Genova.
Giorgio Caproni muore a Roma il 21 gennaio del 1990,
nella casa in via Pio Foà dove abitava dal 1968. È sepolto nel cimitero di Loco
di Rovegno, accanto alla moglie Rina.
LA POETICA DI CAPRONI… e intensifichiamo i precedenti sguardi già indirizzati
Ph Francesca Lucidi
Versi che si vestono da aforismi, continui enjambement
che fanno procedere la lettura scalino dopo scalino. Un orecchio musicale che
tramuta la scrittura poetica in partitura. Se guardiamo alla storia creativa
della raccolta postuma Res Amissa, possiamo scorgere un poeta che scrive
appunti sui righi di uno spartito musicale; se torniamo indietro al Conte di
Kevenhüller, dobbiamo avere a che fare con una divisione in “Libretto”, “La
Musica” e “Altre Cadenze”. La formazione musicale ereditata dai genitori
intesse strutture apparentemente semplici che, però, costruiscono allegorie
altissime: stazioni che diventano purgatori, strade che ospitano osterie (come
in Borgoratti) circondate da sospensioni in cui i significati restano negli
interrogativi che spesso assillano i versi di Caproni. Tutto, però, è reso con
parole semplici, motivo per il quale si è parlato impropriamente di “realismo”.
Il passato del
poeta ritorna sempre: la poesia diventa un regno tra la vita e la morte, tra il
presente e il continuo tentare di andare avanti guardando all’indietro. Si è
parlato di stazioni, sì, un luogo caro al poeta, dove, tra treni e tram, lo sguardo
di Caproni vede ciò che esiste infestato da ciò che non c’è più. La morte
cammina tra le strade del quotidiano come si fosse in una Commedia Dantesca al
contrario. L’eredità del violino, l’eredità di quelle dispense di Dante
acquistate dal padre, umile lavoratore. Il movimento del ritorno è sempre
presente, nello spettro del primo amore e soprattutto negli incontri con la
parvenza della madre Anna, “Annina”.
Chi viaggia spesso in treno ha occasione di vivere
spesso l’alba, e molte albe sono scure.
Prendendo ad esempio due componimenti, entrambi illuminati
da una nebbiosa alba, si può ben assistere a due forme vocative e di attesa “dichiarate”, diverse ma molto simili.
Il primo, contenuto in Il passaggio d’Enea, e
dal titolo Alba, ha intorno diverse supposizioni e contestualizzazioni. È ambientato nella
latteria di una stazione, vi è una delle consuete attese del poeta e semplici
oggetti e rumori infestano l’aria. In una intervista rilasciata al settimanale
Gente, Caproni racconta che si trovava nella latteria per attendere la moglie
in arrivo da Genova, dato che a Roma ancora non era pronta un’abitazione consona.
Ma dei versi sembrano raccontare un’altra storia. Partiamo dalla metà:
[…]
io quale tram
odo,
che apre e richiude in eterno
le
deserte sue porte? … Amore io ho fermo il
polso:
e se il bicchiere entro il fragore
sottile
ha un tremitìo di denti, è forse
di tali ruote un’eco.
Nell’ultimo capitolo dell’unico romanzo del Caproni,
rimasto incompiuto, intitolato La dimissione, il poeta racconta dei
momenti precedenti alla morte di Olga… il suo primo amore. La giovane, presa da
un momento di rabbia sommessa, rimprovera l’amato per il modo in cui gli porge
il bicchiere d’acqua da lei richiesto. Olga è un tema ricorrente, una presenza
che viene inserita cercando di celarne l’identità.
Se si giunge all’ultimo verso del componimento non si
può non vedere una delle più ingombranti compagnie dei versi di Caproni, la
quale ha tra le braccia sia Olga che Anna:
[…]
non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.
Sì, vi è il gesto semplice di una attesa in un luogo reale, ma i luoghi di Caproni sono descritti come tangibili ma sono luoghi psichici, onirici… varchi oltre la realtà.
L’oltretomba che si
mescola agli odori e ai materiali di un posto senza importanza… è evocato, anzi
visto, in Ad portam inferi, componimento parte dei Versi Livornesi,
dedicati alla defunta madre, contenuti in Il Seme del piangere.
Una donna, apparentemente confusa, siede e, davanti a un cappuccino, cerca di scrivere al proprio figlio… che non riesce a rimembrare chiaramente. Tenta anche di scrivere al marito,e nel frattempo si accorge di non avere le chiavi di casa. Nelle righe per il marito parole di congedo non auliche, ma allegoriche alla maniera di Caproni. La donna ricorda al marito del caffè sul gas, del burro nella credenza; invita il coniuge a fumare meno (forse per lungimiranza data da una nuova condizione ancora non cosciente ma definitiva). Le righe vanno verso il congedo parlando del contatore del gas. Ad un tratto un fremito: la fede al dito non c’è. Il cappuccino è freddo e i ricordi diventano immagini confuse. Il figlio diventa il marito, e questa è una tipica mutazione che si ritrova in molte poesie di Caproni:
Nemmeno
sa distinguere bene,
ormai,
tra marito e figliolo.
Vorrebbe
piangere, cerca sul marmo il tovagliolo
già tolto […]
Alla fine, la potenza dei viaggi di Caproni che sfaldano le lamiere di un tram e di un treno apparenti… e mostrano eternità inquiete, narrano la morte tramite la semplicità dei gesti di una persona che fu viva e che ora è persa, forse non meno dei vivi che lascia.
«Signore
cosa devo fare,»
quasi
vorrebbe urlare,
come
il giorno che il letto
pieno
di lei, stretto
sentì
il core svanire
in un così lungo morire.
*
Guarda
l’orologio: è fermo.
Vorrebbe
domandare
al
capotreno. Vorrebbe
sapere
se deve aspettare
ancora
molto. Ma come,
come
può, lei. Sentire,
mentre
le resta in gola
(c’è
un fumo) la parola,
ch’è
proprio negli occhi dei cani
la nebbia del suo domani?
Il critico Pier Vincenzo Mengaldi fa notare come l’inattualità della poesia di Caproni, nel contento letterario del suo tempo, rende quei versi “attualissimi”.
Caproni resta in disparte per lungo tempo, e l’attenzione dei critici inizia ad avvicinarsi dopo un articolo di Pier Paolo Pasolini del 1952; possiamo oggi darci la possibilità di esplorare questo sé radicato nella realtà ma assolutamente assente perché trapassa i misteri attraverso gestualità frammentate da un ritmo poetico che incalza tra nebbie, cose isolate e messe lì a contornare una lettura a scalini che scendono o salgono verso il mistero primo, e ultimo della vita.
Un figlio può mutare in un marito, e viceversa, perché le contraddizioni di Caproni permettono rigenerazioni di forme fisiche attraverso la narrazione del ciclo delle cose, anche se siamo piuttosto distratti dal pensiero del gas aperto…
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BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA DELLE FONTI
https://www.ilsommopoeta.it/giorgio-caproni
https://www.academia.edu/31243574/_Alba_di_Giorgio_Caproni_?auto=download
https://giugenna.com/tag/res-amissa/