Occhi Gialli
Ill
Editing del testo Francesca Lucidi
Din
don, din don.
Per
undici volte suona il rintocco della campana.
Mi
hanno detto che a mezzogiorno morirò e, come è pietoso, ridicolo riguardo al
mio rango, mi hanno chiesto quale fosse il mio ultimo desiderio prima di essere
cancellata definitivamente da questa terra.
E
così ho chiesto un foglio per poter scrivere la mia storia: non è una
confessione, nemmeno una giustificazione a ciò che è accaduto.
Lo
faccio per aggrapparmi a quel lume di lucidità che ancora mi rimane, e comprendere
se la colpa è della mia anima perduta o della mia mente malata, perché è
nebuloso e sottile il confine che separa le due dimensioni.
Nell’ora
suprema, in cui si riceve l’estremo dono dell’imparzialità e dell’oggettività,
ripercorro i fatti che mi hanno condotta qui, a scrivere il mio racconto sul
tavolo sgangherato, e logorato dalle tarme, di una povera e umida cella di una
tetra e opprimente prigione.
Ero
la figlia di un ricco nobile proprietario di una vasta contea. Ho vissuto una
vita di lusso e agiatezza. Crescevo in grazia e splendore, avvolta dal manto
della mia chioma corvina che strideva magnificamente con l’avorio della mia
pelle.
Le
mie giornate scorrevano tranquille e spensierate, nel cerchio celeste della
fanciullezza. Finché il mio corpo non cambiò, finché le mie forme non divennero
appetibili; finché la mia persona non divenne barattabile per il bene della
famiglia.
Mio
padre, il mio adorato padre, decise di darmi in sposa; ed io, da sempre abituata
all’obbedienza e alla sottomissione imposta alla subordinazione del mio
sciagurato genere sessuale, accettai di buon grado.
Così,
il giorno stabilito per le mie nozze, venne nel mio palazzo un uomo facoltoso, e
dal titolo altisonante, a reclamare pubblicamente la mia mano; e segretamente il
mio corpo inviolato.
A
ripensarci, appena lo vidi, ebbi un moto di disgusto indicibile. Era obeso,
calvo, viscido e molto più vecchio di me; ma lo seguii ugualmente nel suo
castello muta e sottomessa, così come mi era stato insegnato.
Arrivando
notai subito all’ingresso un gatto nero dai grandi occhi gialli, che mi fissò
attentamente. Io mi avvicinai a lui e lo accarezzai. Sentii in me una strana
sensazione di pericolo e conforto... ma non ebbi il tempo di esaminare a fondo il
mio stato d’animo che subito il felino se ne andò.
Intanto,
inesorabile, venne la sera. La prima notte di nozze il mio legittimo consorte
reclamò la sua piccola preda e mi prese con violenza, con cupidigia e furore
selvaggio.
Piangevo
e singhiozzavo, non avrei mai immaginavo che il matrimonio che io immaginavo, l’amore
di cui avevo ascoltato le delizie dalle ballate dei menestrelli, l’unione
sublime di due anime… potesse trasformarsi in un sordido e animalesco amplesso.
Mi
guardavo intorno, per cercare un qualche aiuto nella stanza oscura e tenebrosa,
quando incrociai un penetrante sguardo giallo.
Il
gatto nero era lì, mi guardava, mi osservava con un cipiglio di cui non avrei
mai ritenuto capace un animale: mi penetrava l’anima con i suoi grandi occhi
zafferano.
Tutto
finì, il mio stomachevole consorte sollevò la sua pingue e disgustosa carcassa
dal mio esile corpo e, soddisfatto della sua squallida pantomima, si
addormentò.
Ero
sconvolta, ero sola, ero disperata.
Quando
ripresi possesso del mio corpo, e della mia mente, mi alzai dal letto e mi
rifugiai nella piccola stanza adiacente alla camera da letto. Mi appoggiai su
un piccolo tavolo e sollevando la testa incontrai il mio volto in uno specchio.
Quale fu la mia disperazione nel vedere i miei tratti gentili abbrutiti dallo
sfregio che deturpava la mia anima...
Portavo
i segni di quella profanazione sul mio volto.
Stavo
per impazzire di dolore quando improvvisamente udii cigolare la porta, mi girai
verso di essa e non vidi nulla se non tenebre rischiarate appena dalla fioca
luce di una candela quasi consumata.
Stavo
per volgere di nuovo la mia attenzione alla mia disperazione quando inciampai
in due grandi occhi gialli. Il gatto si avvicinò al flebile chiarore del lume
morente e, che Dio mi perdoni, lo vidi chiaramente ergersi in tutta la sua
figura sulle zampe posteriori.
Con
un disinvolto gesto della zampa attirò la mia attenzione e disse:
«
Non piangere piccina, sono qui per aiutarti!»
A
quel punto, allontanando inorridita l’ipotesi di aver perso il senno, mi persuasi
che stessi dormendo e che avessi a che fare con un demone del sonno. Gli risposi
quindi con naturalezza: « Come puoi tu, un gatto nero, aiutarmi?», «Ascolta
bambina, voglio fare un patto con te… io sono il gatto che esaudisce i tuoi
desideri: OGNI tuo desiderio. Sta attenta però perché una volta pronunciato, il
tuo desiderio sarà esaudito e non si torna più indietro. Il gatto vince, il
gatto perde. A te la mano...»
«Se
vinco io cosa ottengo?», chiesi ingenuamente.
«
Tutto ciò che avrai il coraggio di sopportare…»
«E
se vinci tu?»
«Vinco
l’anima che non ha avuto il coraggio di ricevere»
«Come
posso non accettare un dono che bramo e che mi viene offerto?»
I
grandi occhi gialli perentori mi risposero: «Attenta bambina, io non ti
costringo a fare niente, ma se chiedi, sappi che ti sarà dato».
Non
risposi, ma lui sembrava leggermi l’anima e accolse il mio silenzio come un
consenso.
«Cosa
desideri?» mi sussurrò suadente.
«Voglio
tutto ciò che desidera il mio cuore!»
«Il
tuo desiderio ha un prezzo bambina, sei disposta a pagarlo?»
Ero
sconvolta, ero sola, ero disperata. Ero disposta a tutto.
«Accetto»
mi sentii mormorare.
«Miao!»
esultò il gatto mentre mi saltava in grembo e mi alitava sul viso.
Mi
svegliai nel mio letto accanto al mio terribile consorte che russava
oscenamente. Avevo memoria dei fatti della notte precedente ma ero convinta fosse
solo un sogno.
Guardavo
quel cumulo di carne e sangue che mi giaceva rumorosamente accanto, e desiderai
con tutta me stessa che l’incontro con il sinistro felino fosse accaduto
realmente.
Passai
la giornata come in uno stato catatonico. Finché non arrivò il momento del
penoso rito notturno.
Udii
i passi ormai tristemente noti del mio grasso e lascivo sposo e nello stesso
istante in cui lui tentò di possedermi... incontrai l’ormai familiare sguardo
giallo.
E
in quell’istante io, così fragile e debole, mi sentii penetrata da una forza
sovrumana, demoniaca oserei dire. Mi prese un furore, un’esaltazione che mi
fece “risolvere”… e fare ciò che ho fatto.
Lo
bloccai. Dapprima lui mi guardò contrariato, ma io, con un sorriso seducente e
carico di maliziose promesse, lo invitai a stendersi supino. Lui dovette
credere che fossi ormai pronta a donargli piacere consensuale e mi lasciò fare.
Mi
misi cavalcioni su di lui e cominciai a muovere le mie candide mani sul suo flaccido
corpo già madido di libidinoso sudore. Poi, non sapendo bene cosa stessi facendo,
presi un cuscino e glielo poggiai sull’abominevole faccione. Premevo con tutta
la forza delle mie esili, e anemiche, braccia.
Mentre
compivo il terribile gesto, guardai i merletti di quel guanciale: pensai che
fosse davvero un peccato usare un tessuto tanto bello e prezioso per soffocare
un essere così brutto e laido.
Non
so come riuscii a farlo: io, un esserino così gracile, a sopraffare quella
disgustosa massa disomogenea di grasso e turpitudine.
Quando
smise di dimenarsi, e lo sentii completamente inerme, tolsi il cuscino e mi
scostai dal suo corpo.
Lo
osservai, osservai il suo grugno segnato dalla sofferenza, tirato in un ghigno
di terrore.
Ebbi
ribrezzo e piacere allo stesso tempo. Aveva la stessa espressione del mio viso
riflesso allo specchio nella sera precedente.
Forse
è così che appaiono i volti delle persone quando perdono l’anima o la vita.
Io
avevo ucciso il suo corpo, lui aveva ucciso la mia mente; e ne portavamo i segni
sulla pelle.
Nei
giorni seguenti tutti credettero che il mio amorevole coniuge fosse soffocato
nel sonno, e tutti confortavano e compativano la giovane vedova affranta dal
dolore.
Era
tutto mio: titoli, ricchezze e possedimenti. Finalmente ero libera, ma, mentre
mi compiacevo della ritrovata serenità, continuavo a sentirmi addosso lo
sguardo malevolo di quel gatto nero che mi trapassava l’anima… e ne
scandagliava le colpe.
All’inizio
cercai di convincermi che era stato tutto frutto della mia immaginazione sovreccitata
dalle infelici e rovinose circostanze. Un gatto non poteva spingermi a uccidere
mio marito. I gatti non parlano. I gatti non promettono. I gatti non
esaudiscono.
Più
passava il tempo più trovavo insopportabile la presenza di quel felino
silenzioso e osservatore.
Come
se quell’episodio non fosse mai accaduto, si comportava come un normalissimo
gatto che mangiava, dormiva e faceva le fusa. Ma io non riuscivo più a
sopportarlo. La semplice vista della sua figura instillava in me desideri
sinistri, una rabbia feroce e irrefrenabile mi attanagliava non appena
intravedevo la sua ombra.
Un
giorno che lo vidi mangiare un topo persi completamente il controllo. Lo presi,
lo gettai in mezzo alla strada e lo colpii ripetutamente con un sasso. Gli
strappai con ferocia trionfante le interiora, e gli spezzai le ossa in preda ad
un avido delirio.
Non
ho immagini nitide di quell’episodio: mi ricordo soltanto che dopo essermi
accanita su di lui, presi tra le mani i suoi poveri resti e confessai urlando
il mio delitto, dando la colpa al deturpato e irriconoscibile gatto nero che
tenevo sollevato come un trofeo sopra la testa.
Il
gatto aveva avvertito.
Il
gatto aveva esaudito.
Il
gatto aveva vinto.
Din
don din don
Per
dodici volte suona il rintocco della campana. È mezzogiorno ed ecco che vedo
dalle sbarre della mia cella lo sguardo funesto del felino fatale. Lo stavo
aspettando, sapevo che sarebbe venuto.
Ora
so.
Ora
capisco.
Un
carnefice è arrivato, l’altro sta per venire a prendermi.
E
quindi adesso il boia non ucciderà che un involucro innocente, l’anima
colpevole che un gatto nero dagli occhi gialli ha già portato via.