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martedì 6 agosto 2019

Di Sara Marcaurelio STRALCIO 1#




Occhi Gialli




 Ill
Editing del testo Francesca Lucidi


Din don, din don.

Per undici volte suona il rintocco della campana.

Mi hanno detto che a mezzogiorno morirò e, come è pietoso, ridicolo riguardo al mio rango, mi hanno chiesto quale fosse il mio ultimo desiderio prima di essere cancellata definitivamente da questa terra.

E così ho chiesto un foglio per poter scrivere la mia storia: non è una confessione, nemmeno una giustificazione a ciò che è accaduto.

Lo faccio per aggrapparmi a quel lume di lucidità che ancora mi rimane, e comprendere se la colpa è della mia anima perduta o della mia mente malata, perché è nebuloso e sottile il confine che separa le due dimensioni.

Nell’ora suprema, in cui si riceve l’estremo dono dell’imparzialità e dell’oggettività, ripercorro i fatti che mi hanno condotta qui, a scrivere il mio racconto sul tavolo sgangherato, e logorato dalle tarme, di una povera e umida cella di una tetra e opprimente prigione.

Ero la figlia di un ricco nobile proprietario di una vasta contea. Ho vissuto una vita di lusso e agiatezza. Crescevo in grazia e splendore, avvolta dal manto della mia chioma corvina che strideva magnificamente con l’avorio della mia pelle.

Le mie giornate scorrevano tranquille e spensierate, nel cerchio celeste della fanciullezza. Finché il mio corpo non cambiò, finché le mie forme non divennero appetibili; finché la mia persona non divenne barattabile per il bene della famiglia.

Mio padre, il mio adorato padre, decise di darmi in sposa; ed io, da sempre abituata all’obbedienza e alla sottomissione imposta alla subordinazione del mio sciagurato genere sessuale, accettai di buon grado.

Così, il giorno stabilito per le mie nozze, venne nel mio palazzo un uomo facoltoso, e dal titolo altisonante, a reclamare pubblicamente la mia mano; e segretamente il mio corpo inviolato.

A ripensarci, appena lo vidi, ebbi un moto di disgusto indicibile. Era obeso, calvo, viscido e molto più vecchio di me; ma lo seguii ugualmente nel suo castello muta e sottomessa, così come mi era stato insegnato.

Arrivando notai subito all’ingresso un gatto nero dai grandi occhi gialli, che mi fissò attentamente. Io mi avvicinai a lui e lo accarezzai. Sentii in me una strana sensazione di pericolo e conforto... ma non ebbi il tempo di esaminare a fondo il mio stato d’animo che subito il felino se ne andò.

Intanto, inesorabile, venne la sera. La prima notte di nozze il mio legittimo consorte reclamò la sua piccola preda e mi prese con violenza, con cupidigia e furore selvaggio.

Piangevo e singhiozzavo, non avrei mai immaginavo che il matrimonio che io immaginavo, l’amore di cui avevo ascoltato le delizie dalle ballate dei menestrelli, l’unione sublime di due anime… potesse trasformarsi in un sordido e animalesco amplesso.

Mi guardavo intorno, per cercare un qualche aiuto nella stanza oscura e tenebrosa, quando incrociai un penetrante sguardo giallo.

Il gatto nero era lì, mi guardava, mi osservava con un cipiglio di cui non avrei mai ritenuto capace un animale: mi penetrava l’anima con i suoi grandi occhi zafferano.

Tutto finì, il mio stomachevole consorte sollevò la sua pingue e disgustosa carcassa dal mio esile corpo e, soddisfatto della sua squallida pantomima, si addormentò.

Ero sconvolta, ero sola, ero disperata.

Quando ripresi possesso del mio corpo, e della mia mente, mi alzai dal letto e mi rifugiai nella piccola stanza adiacente alla camera da letto. Mi appoggiai su un piccolo tavolo e sollevando la testa incontrai il mio volto in uno specchio. Quale fu la mia disperazione nel vedere i miei tratti gentili abbrutiti dallo sfregio che deturpava la mia anima...

Portavo i segni di quella profanazione sul mio volto.

Stavo per impazzire di dolore quando improvvisamente udii cigolare la porta, mi girai verso di essa e non vidi nulla se non tenebre rischiarate appena dalla fioca luce di una candela quasi consumata.

Stavo per volgere di nuovo la mia attenzione alla mia disperazione quando inciampai in due grandi occhi gialli. Il gatto si avvicinò al flebile chiarore del lume morente e, che Dio mi perdoni, lo vidi chiaramente ergersi in tutta la sua figura sulle zampe posteriori.

Con un disinvolto gesto della zampa attirò la mia attenzione e disse:

« Non piangere piccina, sono qui per aiutarti!»

A quel punto, allontanando inorridita l’ipotesi di aver perso il senno, mi persuasi che stessi dormendo e che avessi a che fare con un demone del sonno. Gli risposi quindi con naturalezza: « Come puoi tu, un gatto nero, aiutarmi?», «Ascolta bambina, voglio fare un patto con te… io sono il gatto che esaudisce i tuoi desideri: OGNI tuo desiderio. Sta attenta però perché una volta pronunciato, il tuo desiderio sarà esaudito e non si torna più indietro. Il gatto vince, il gatto perde. A te la mano...»

«Se vinco io cosa ottengo?», chiesi ingenuamente.

« Tutto ciò che avrai il coraggio di sopportare…»

«E se vinci tu?»

«Vinco l’anima che non ha avuto il coraggio di ricevere»

«Come posso non accettare un dono che bramo e che mi viene offerto?»

I grandi occhi gialli perentori mi risposero: «Attenta bambina, io non ti costringo a fare niente, ma se chiedi, sappi che ti sarà dato».

Non risposi, ma lui sembrava leggermi l’anima e accolse il mio silenzio come un consenso.

«Cosa desideri?» mi sussurrò suadente.

«Voglio tutto ciò che desidera il mio cuore!»

«Il tuo desiderio ha un prezzo bambina, sei disposta a pagarlo?»

Ero sconvolta, ero sola, ero disperata. Ero disposta a tutto.

«Accetto» mi sentii mormorare.

«Miao!» esultò il gatto mentre mi saltava in grembo e mi alitava sul viso.

Mi svegliai nel mio letto accanto al mio terribile consorte che russava oscenamente. Avevo memoria dei fatti della notte precedente ma ero convinta fosse solo un sogno.

Guardavo quel cumulo di carne e sangue che mi giaceva rumorosamente accanto, e desiderai con tutta me stessa che l’incontro con il sinistro felino fosse accaduto realmente.

Passai la giornata come in uno stato catatonico. Finché non arrivò il momento del penoso rito notturno.

Udii i passi ormai tristemente noti del mio grasso e lascivo sposo e nello stesso istante in cui lui tentò di possedermi... incontrai l’ormai familiare sguardo giallo.

E in quell’istante io, così fragile e debole, mi sentii penetrata da una forza sovrumana, demoniaca oserei dire. Mi prese un furore, un’esaltazione che mi fece “risolvere”… e fare ciò che ho fatto.

Lo bloccai. Dapprima lui mi guardò contrariato, ma io, con un sorriso seducente e carico di maliziose promesse, lo invitai a stendersi supino. Lui dovette credere che fossi ormai pronta a donargli piacere consensuale e mi lasciò fare.

Mi misi cavalcioni su di lui e cominciai a muovere le mie candide mani sul suo flaccido corpo già madido di libidinoso sudore. Poi, non sapendo bene cosa stessi facendo, presi un cuscino e glielo poggiai sull’abominevole faccione. Premevo con tutta la forza delle mie esili, e anemiche, braccia.

Mentre compivo il terribile gesto, guardai i merletti di quel guanciale: pensai che fosse davvero un peccato usare un tessuto tanto bello e prezioso per soffocare un essere così brutto e laido.

Non so come riuscii a farlo: io, un esserino così gracile, a sopraffare quella disgustosa massa disomogenea di grasso e turpitudine.

Quando smise di dimenarsi, e lo sentii completamente inerme, tolsi il cuscino e mi scostai dal suo corpo.

Lo osservai, osservai il suo grugno segnato dalla sofferenza, tirato in un ghigno di terrore.

Ebbi ribrezzo e piacere allo stesso tempo. Aveva la stessa espressione del mio viso riflesso allo specchio nella sera precedente.

Forse è così che appaiono i volti delle persone quando perdono l’anima o la vita.

Io avevo ucciso il suo corpo, lui aveva ucciso la mia mente; e ne portavamo i segni sulla pelle.

Nei giorni seguenti tutti credettero che il mio amorevole coniuge fosse soffocato nel sonno, e tutti confortavano e compativano la giovane vedova affranta dal dolore.

Era tutto mio: titoli, ricchezze e possedimenti. Finalmente ero libera, ma, mentre mi compiacevo della ritrovata serenità, continuavo a sentirmi addosso lo sguardo malevolo di quel gatto nero che mi trapassava l’anima… e ne scandagliava le colpe.

All’inizio cercai di convincermi che era stato tutto frutto della mia immaginazione sovreccitata dalle infelici e rovinose circostanze. Un gatto non poteva spingermi a uccidere mio marito. I gatti non parlano. I gatti non promettono. I gatti non esaudiscono.

Più passava il tempo più trovavo insopportabile la presenza di quel felino silenzioso e osservatore.

Come se quell’episodio non fosse mai accaduto, si comportava come un normalissimo gatto che mangiava, dormiva e faceva le fusa. Ma io non riuscivo più a sopportarlo. La semplice vista della sua figura instillava in me desideri sinistri, una rabbia feroce e irrefrenabile mi attanagliava non appena intravedevo la sua ombra.

Un giorno che lo vidi mangiare un topo persi completamente il controllo. Lo presi, lo gettai in mezzo alla strada e lo colpii ripetutamente con un sasso. Gli strappai con ferocia trionfante le interiora, e gli spezzai le ossa in preda ad un avido delirio.

Non ho immagini nitide di quell’episodio: mi ricordo soltanto che dopo essermi accanita su di lui, presi tra le mani i suoi poveri resti e confessai urlando il mio delitto, dando la colpa al deturpato e irriconoscibile gatto nero che tenevo sollevato come un trofeo sopra la testa.

Il gatto aveva avvertito.

Il gatto aveva esaudito.

Il gatto aveva vinto.

Din don din don

Per dodici volte suona il rintocco della campana. È mezzogiorno ed ecco che vedo dalle sbarre della mia cella lo sguardo funesto del felino fatale. Lo stavo aspettando, sapevo che sarebbe venuto.

Ora so.

Ora capisco.

Un carnefice è arrivato, l’altro sta per venire a prendermi.

E quindi adesso il boia non ucciderà che un involucro innocente, l’anima colpevole che un gatto nero dagli occhi gialli ha già portato via.