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venerdì 24 luglio 2020

GIOVANNI VERGA: LA VITA, LO STILE E LA NARRAZIONE REALISTICA DI UN'ITALIA SOFFERENTE

IL VERISMO E LE SUE MANIFESTAZIONI

NOVELLE SCELTE: ROSSO MALPELO, LA LUPA, LA ROBA, LA LIBERTÀ
E JELI IL PASTORE

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

CENNI BIOGRAFICI

Giovanni Verga nasce il 2 settembre del 1840 e viene registrato all’anagrafe di Catania. Vi è una curiosa congettura che ipotizza come data di nascita reale il 31 agosto. Secondo questa idea lo scrittore sarebbe, in realtà, nato a Vizzini, cittadina al confine meridionale della Provincia di Catania. Non vi sono documenti ufficiali ma solo piccoli indizi.

I Verga sono proprietari terrieri e a Vizzini hanno molti possedimenti. Le origini del cognome sono molto antiche e sarebbero riconducibili a lontane radici spagnole. I Verga appartengono a un ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca. La madre dello scrittore è Caterina di Mauro e fa parte di una famiglia borghese di Catania. Le ipotesi sulla fittizia nascita di Giovanni a Catania sarebbero, quindi, riconducibili a motivazioni legate alle origini della madre… e anche all’eventuale maggior pregio di una nascita cittadina piuttosto che provinciale. Vizzini è comunque impressa nel sangue dei Verga: il nonno fu addirittura deputato presso il parlamento siciliano, proprio per la cittadina.

Verga compie gli studi primari presso la scuola Francesco Carrara; gli studi secondari vengono portati a termine presso la scuola di Don Antonio Abate, fervente patriota.

La figura di Don Antonio diventa molto importante: Verga viene coinvolto dal suo sincero e ardente patriottismo… mentre le letture di Dante, Petrarca, Manzoni e Ariosto foraggiano un interesse letterario sempre più vivo.

Nel 1854, Verga deve rifugiarsi in campagna per sfuggire a un’epidemia di colera. Vi resta per quasi due anni. Questa esperienza va ad aggiungersi alle altre maturate durante i suoi studi: il tutto va nutrire il terreno da cui si caratterizzerà tutta la futura opera dello scrittore.

Giovanni Verga scrive il suo primo romanzo all’età di quindici anni. Don Antonio sembra apprezzare il lavoro del giovane e brillante allievo; il professore di latino è molto più scettico e l’opera, alla fine, viene lasciata in fondo a un cassetto.

Nel 1858 l’iscrizione all’Università di Catania, alla facoltà di legge. Il richiamo delle lettere è per Verga troppo forte: lascia gli studi e inizia a dedicarsi completamente alla scrittura, partendo dal lavoro di giornalista. In realtà, nel 1861 spende tutti i soldi della retta universitaria per la sua prima pubblicazione: I carbonari della montagna.

All’amore per la scrittura è sempre legato il patriottismo e il vincolo con la Sicilia; lo scrittore, infatti, finisce anche per arruolarsi nella Guardia Nazionale di Catania.

Verga tenta più volte di far sopravvivere un suo giornale, senza successo.

La scrittura giornalistica resta, però, un punto fondamentale da cui partire per osservare e comprendere la tecnica narrativa che impiegherà Verga.

Nel 1865 muore Giovan Battista Catalano, il padre dello scrittore.

Dopo la morte del genitore, Verga si trasferisce nella capitale del Regno d’Italia: Firenze. Lì conosce Luigi Capuana. Nel 1871 esce il romanzo Storia di una capinera.

Nel 1872, Verga pubblica il racconto Nedda, che narra degli stenti di una raccoglitrice di olive siciliana: la conversione all’impostazione e ai temi veristi, a quel punto, è completata.

Dopo l’unità, l’Italia appare estremamente frammentata sia culturalmente sia economicamente. Il sud della penisola è particolarmente attanagliato dalla piaga del lavoro minorile… e proprio riguardo alla realtà lavorativa in Sicilia il Parlamento decide di avviare un’inchiesta. A quel punto, è chiaro a Verga come il tema principe delle sue opere debba essere la terra natia, con i suoi dolori e i suoi paesaggi così selvaggi e meravigliosi.

Dal germe delle origini siciliane dello scrittore nascono i capolavori che segneranno la storia della letteratura. Del 1880 è la raccolta di novelle Vita dei campi, incentrata sul tema della lotta per la sopravvivenza; un anno dopo esce il primo romanzo intimamente verista dello scrittore: I Malavoglia, opera incardinata sulla rovina di una piccola famiglia di pescatori che tenta di intraprendere un’attività commerciale. Nel 1882 esce una seconda raccolta di novelle intitolata Novelle Rusticane, basata sul tema della “roba”.

Durante il 1889 viene pubblicato il secondo romanzo dello scrittore: Mastro Don Gesualdo.

Verga decide di tornare in Sicilia. Nel 1893 è a Catania.

Lo scrittore inizia la redazione de La duchessa di Leyra, ma non riesce a proseguire nel progetto. I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo e La duchessa di Leyra, insieme ad altri due romanzi, dovevano entrare a far parte di un unico progetto: Il “Ciclo dei Vinti”; l’idea iniziale, purtroppo, non verrà mai portata a termine dallo scrittore. L’ispirazione artistica di Verga si esaurisce… e lascia spazio alla depressione e alla solitudine.

Giovanni Verga è un individuo che preferisce vivere da solo, non si sposa e non ha figli. Ha una visione molto particolare del matrimonio: lo considera una gabbia per topi dalla quale quelli che son dentro vogliono uscire, mentre tutti gli altri vi girano intorno per entrarvi. Lo scrittore intraprende una relazione importante: Verga si lega con Giselda Fojanesi, moglie del poeta catanese Mario Rapisardi. La relazione viene scoperta dal marito tradito che ripudia la moglie.

Un’altra donna riesce a entrare, in tutt’altra veste, nella vita dello scrittore: Dina Castellazzi. La Castellazzi resta un’amica fedele, per tutta la vita di Verga.

Verga sceglie per sé una vita ritirata; non manca, però, di occuparsi dei tre figli del fratello morto giovane.

Nel 1920 arriva la nomina di Senatore del Regno, che lascia il Nostro piuttosto perplesso e non particolarmente entusiasta. Verga, però, apprezza sinceramente il discorso di intitolazione tenuto da Luigi Pirandello.

Giovanni Verga muore a Catania nel 1922.

 

L’ACCOGLIENZA DEL PUBBLICO

La prima uscita de I Malavoglia non raccolse molti consensi. Verga incontrò diversi problemi finanziari e un po' di ossigeno venne dalla trasposizione teatrale della novella Cavalleria Rusticana, testo facente parte della raccolta Vita dei Campi. La prima rappresentazione della versione per il teatro si tenne a Torino il 14 gennaio del 1884. Per ottenere i compensi dovuti lo scrittore dovette rivolgersi a dei legali che curassero i suoi interessi. Sulla scia del successo della mia trasposizione, Pietro Mascagni decise di creare dalla novella un melodramma, rappresentato per la prima volta a Roma il 17 maggio del 1890.

Nel frattempo, nel 1889, venne pubblicato il romanzo Mastro Don Gesualdo, presso l’editore Treves. Intorno alla casa editrice milanese si andava delineando il gusto letterario di fine Ottocento; infatti, sempre nel 1889 fu pubblicato anche il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio: Il piacere. Ecco che due poli diversissimi si trovano a contendersi l’attenzione del pubblico: da una parte la narrazione della realtà italiana attraverso uno sguardo oggettivo in cui l’autore e il narratore scompaiono a favore dei fatti raccontati, dall’altra la rivendicazione dell’eccezionalità del singolo all’interno della società massificata. Il lavoro di D’Annunzio attira l’attenzione della borghesia e vince la battaglia delle vendite. Mastro Don Gesualdo, comunque, riesce a vendere millecinquecento copie in pochi giorni. Evidentemente, le classi che leggono si indentificano meglio negli slanci d’dannunziani piuttosto che nelle dure denunce proposte da Verga.

Luigi Capuana e Giovanni Verga fanno una scelta non facile: raccontare la realtà, il mondo e l’Italia alla maniera dei naturalisti francesi.

 

LA NARRAZIONE REALISTICA

Voler raccontare il mondo in maniera fedele implica la scelta di rappresentare i fatti in modo verosimile.

Gli eventi realmente accaduti o che potrebbero accadere realmente sono il materiale per la costruzione di una narrazione realistica. I luoghi sono reali e non figurati; la collocazione temporale è ben definita e spesso si racconta usato i tempi verbali del passato. Il narratore non interviene nei fatti e non propone alcuna interpretazione. A fare da collante ai contenuti e ai modi vi è la forma: il linguaggio scelto deve essere coerente con il contesto rappresentato; ciò va tenuto bene in considerazione nell’uso del discorso diretto e indiretto, i modi dell’autore per riportare le parole dei personaggi.

Il narratore è nascosto ed esterno; anche la focalizzazione è esterna e gli eventi sembrano raccontarsi da sé. Tutto ciò è l’estremo opposto del narratore onnisciente che va a produrre un testo con focalizzazione zero, riuscendo a vedere ogni cosa e a imporre la sua presenza nell’interpretazione di personaggi e situazioni che vengono filtrati attraverso l’occhio di chi racconta, e che tutto sa.

Nella narrazione realistica si osserva e non si interpreta.

La rappresentazione del mondo tenendo conto della storicità e delle manifestazioni sociali ha radici profonde. Lo stesso Decamerone del Boccaccio ci fornisce un quadro della società mercantile e delle dinamiche relazionali ed economiche del tempo. Ma è nell’Ottocento che il realismo si afferma attraverso un fedele affresco della realtà, con metodologie peculiari. Da questa impostazione prende corpo la corrente letteraria del Naturalismo.

 

IL NATURALISMO

La corrente letteraria del Naturalismo cresce in seno al clima Positivista.

Il Positivismo era una tendenza di pensiero e azione che promuoveva una visione della conoscenza strettamente legata alla scienza e ai suoi progressi, con piena fiducia.

In ambito letterario, l’approccio che privilegia una visione sperimentale e oggettiva mostra le sue forme dall’opera di Gustave Flaubert, che parla di questo nuovo tipo di narratore il quale “Deve essere nella sua opera come Dio nella creazione”. Flaubert pubblica nel 1857 il romanzo Madame Bovary, ritraendo efficacemente la piccola borghesia francese attraverso lo sfacelo a cui vanno in contro le cieche e ridicole ambizioni della protagonista.

Il romanzo diventa il mezzo di una rappresentazione oggettiva, “fotografica” della realtà. L’arte si prefigge di essere lo specchio fedele del mondo, senza alcuna contaminazione da parte dell’autore. In tutto questo processo c’è la convinzione che si possa, in questo modo, dare un contributo al progresso dell’umanità.

I risultati della letteratura mirano a valori pratici, non prettamente etici o morali.

Il caposcuola fu Émile Zola (1840-1902). Il comportamento dei personaggi di Zola è determinato dal contesto: fisiologia e psicologia sono il prodotto dell’ambiente, del momento storico e dell’eredità sociale di un individuo.

Nel 1880, Zola pubblica il saggio Il romanzo sperimentale: il manifesto del Naturalismo. Secondo la visione espressa da Zola lo scrittore è un osservatore e uno sperimentatore. Chi redige un testo letterario non è più un interprete ma una sorta di scienziato che prende dei personaggi e li mette in un contesto a reagire con tutte le componenti sociali e ambientali. L’osservazione si completa con la sperimentazione che è l’applicazione di un “metodo” vero e proprio che possa permettere, poi, la registrazione dei fenomeni in modo impassibile. Le cause del comportamento sono viste come determinate in modo univoco. L’autore lascia “reagire” i suoi materiali umani e redige ciò che è riscontrabile in maniera oggettiva. Le riflessioni morali che possiamo trarre da questi testi non vengono accese dal lirismo, o dalla pietà di una scrittura che sia mossa dalla volontà di colpire i sentimenti o gli animi. Ciò che avviene nel lettore è un altro prodotto determinato dal contesto: dal nostro approccio a un testo e ad elementi con cui siamo messi a reagire. Spesso si parla dei testi del Naturalismo come di accuse morali; non vi sono accuse ma solo le fotografie di situazioni reali che hanno una loro voce autonoma, che riesce a ingenerare in noi riflessioni. Non siamo portati a pensare o ad avere pena o considerazioni perché l’autore ci propone un insegnamento (come ad esempio accade in Manzoni). Ciò che è reale è ciò che viene raccontato; ciò che viene raccontato è solo la realtà, di un esperimento fatto di cavie umane.

Il termine Naturalismo potrebbe trarre in inganno facendoci pensare che le trame raccontino la natura in senso stretto… in realtà, l’attenzione è in primis sulla società, che determina la natura umana.

La natura umana non è il soggetto primario e puro, in senso romantico, ma è un oggetto preso in esame attraverso un’analisi sperimentale.

 

IL VERISMO

Il rinnovamento dei meccanismi narrativi proposto dal Naturalismo viene ripreso in Italia da Luigi Capuana e Giovanni Verga. Sia nell’approccio francese che in quello italiano è riscontrabile il rifiuto del precedente romanzo storico, il quale celava un intellettuale di ceto agiato che mostrava un certo pietismo verso personaggi ed eventi; il tutto con il tocco evidente di un narratore che conosce ogni cosa… ma non la mostra in modo diretto scegliendo di filtrarla attraverso la propria onnisciente presenza.

In Italia vengono ripresi i mezzi dell’impersonalità e dell’oggettività. Verga, nella prefazione de L’amante di Gramigna, scrive che l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. È quindi evidente l’adesione ai temi della realtà, scegliendo di mettere il narratore al di fuori degli eventi raccontati. Mentre si diffondeva lo sguardo naturalista, l’Italia si avviava verso l’unificazione. L’unità della Penisola chiamava a una presunta accelerazione del progresso: in realtà le classi più umili vivevano ad una velocità assai lenta, come lenta appariva la crescita del loro benessere. Il contesto storico non può non giocare un ruolo nella traduzione italiana del Naturalismo, e ciò è coerente anche con i principi di quest’ultimo.

Come nel modello francese le opere letterarie vengono portate avanti con la volontà di non mostrare il processo di creazione. Ma cosa traspare se si confrontano le due modalità di narrare la realtà? Se si legge Verga è innegabile la presenza di un impegno morale, anche se non dichiarato. Lo scopo di una denuncia sociale traspare, in modo evidente. Rispetto ai romanzi francesi, che raccontavano di personaggi appartenenti alla borghesia su vari livelli, e di ambienti cittadini, il racconto realistico verista è lo specchio della realtà contemporanea ad autori e personaggi. Nel Verismo si prediligono gli ambienti regionali, piccoli e di campagna; anche perché era quella l’Italia di fine Ottocento.

Verga racconta la sua Sicilia con un forte pessimismo sociale fatto di riscatti mancati, di una condizione miserabile agghiacciante. Questo tipo di approccio stride con la fiducia positivista che permeava il Naturalismo. Se osserviamo i personaggi di Verga pare mancare totalmente la possibilità di un reale progresso individuale e sociale. Lo scrittore verista non fa lo scienziato perché non c’è effettivo distacco. Verga condivide lo stesso DNA e la stessa specie dei suoi soggetti… gli ambienti sono gli stessi, anche se le classi sociali di appartenenza sono differenti. L’autore mostra partecipazione… perché è, appunto, della stessa specie delle cavie messe ad agire nel loro ambiente per essere osservate.

 

IL VERISMO IN VERGA

L’attività giornalistica di Giovanni Verga lascia una profonda impronta nella sua scrittura: la parola tende all’oggettività e i pensieri e le parole dei personaggi vengono riportati fedelmente, senza epurazione. Le espressioni dialettali infestano testi che parlano da soli; però, la presenza dell’autore, come si è già osservato, non resta totalmente in disparte. La durezza dell’inchiesta sociale di Verga ha nel cuore i valori patriottici che si sentono feriti guardando a una popolazione che dopo l’unità non appare coesa, libera o migliore. Lo sguardo borghese dell’autore vede sfumati gli ideali di uguaglianza e progresso, e ne diventa il portavoce scegliendo di non abbellire o “romanzare” ma di riportare, descrivere, mostrare. Con un occhio puntato alla biografia di Verga, e l’altro sulla critica verso l’immobilità delle classi sociali e verso l’istituzione matrimoniale riscontrabile nelle sue opere, siamo obbligati a riunire i due punti focali. Molti elementi delle narrazioni dello scrittore sono gli stessi che hanno caratterizzato la sua esistenza, compreso il perenne senso di solitudine. A partire dalla geografia reale ed emozionale percorsa attraversando luoghi fisici e sociali che Verga ha realmente vissuto, e che hanno indubbiamente ingenerato in lui una compassione che non resta pietas pura e semplice… ma diventa denuncia. La visione di Verga è amara e non prospetta alcuna speranza. La sua ricerca non è asettica osservazione di contesti e “reazioni” ma è una fusione: lo scrittore entra nel parlato e nel mondo dei personaggi, nelle loro debolezze… e lo fa profondamente. Negli scritti di Verga, i ricordi dell’infanzia vengono passati attraverso il setaccio dei nuovi modi del narrare appresi negli ambienti letterari milanesi, diventando una cronaca che ha nel sangue versato anche il sangue dello stesso autore.

 

ROSSO MALPELO E ALTRE NOVELLE di Edizioni LA SPIGA

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

L’edizione presa in esame è datata 2013 ed è a cura di Moreno Giannattasio. Le illustrazioni sono di Marco Lorenzetti.

La nota introduttiva è una sorta di avvertimento su ciò che saremo portati a vivere: le novelle di Verga saranno le mani attraverso le quali vestire determinati panni e provare sentimenti segnati dalla fame, la rabbia e la paura. Vengono citati i demoni che siamo destinati a incontrare: la gelosia, la superstizione, la vendetta e l’avidità. Questa pagina di “benvenuto” non manca di far notare come saremo costretti ad ascoltare e imparare una nuova lingua, che è quella dei personaggi. Il libro promette, però, di portarci per mano… e questo si può avvertire nell’estrema cura di ogni dettaglio. Il pensiero finale, prima della lettura del materiale vero e proprio, è una riflessione sul grande valore della buona scrittura, quella che nutre la conoscenza.

Il volume prende Rosso Malpelo, La lupa e Jeli il Pastore dalla raccolta Vita dei Campi; La Roba e La libertà dalla raccolta Novelle Rusticane.

Rosso Malpelo è il duro racconto della terrificante realtà del lavoro minorile. I temi della condizione sociale italiana post-unitaria e della bestialità umana, tanto cari a Verga, sono i cardini dove si regge lo scricchiolante portone di una storia che non conosce il senso della casa e del conforto. Malpelo è una creatura nata con un destino segnato: è rosso di capelli e quello determina il suo nome e la sua natura. Il narratore non riflette sulla veridicità della pessima considerazione che la gente ha del protagonista, Verga riporta i fatti come vengono visti dai personaggi. L’incipit è noto ed esemplificativo:

“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che promettere di riuscire un fior di birbone.”

 Il ragazzo non ha mai conosciuto amore e delicatezza, è nato tra la polvere della miniera… e il tocco del padre è il solo, breve, gesto gentile mai sentito dalle sporche carni di Malpelo. Il genitore è Mastro Misciu Bestia: sì, una “bestia”. Nelle storie raccontate da Verga gli umili sono cani rabbiosi e muli da soma e asini da prendere a calci. Gli animali sono gli unici interlocutori che sembrano dialogare sinceramente con i protagonisti umani, ma sono anche l’oggetto della violenza di quell’umanità schiacciata dalla vita. La sorte del padre di Malpelo segna la vita e il carattere del ragazzo ancora di più… da quel momento non ci sarà che violenza, una violenza che è anche il solo mezzo attraverso il quale Malpelo riesce a mostrare tutti i suoi sentimenti, anche quelli migliori. Il ragazzo ha una costituzione forte e una prestanza fisica che paiono più simili all’animale da lavoro che all’uomo; tutta questa forza trae origine da una rabbia che è un urlo di rifiuto verso la vita stessa, e questo si capirà alla fine di questa triste vicenda. Gli unici esseri viventi che sembrano meritare un minimo di tenerezza da parte di Malpelo sono un povero asino grigio e un ragazzo gracile e zoppo chiamato Ranocchio; entrambi assaggeranno la cura del protagonista… fatta di calci e botte e male parole. Malpelo conosce solo la violenza e pensa che soffrire sia una sorta di vaccino alla vita: lo ripete a Ranocchio e lo pensa mentre fa stramazzare a terra gli asini della miniera a forza di angherie.

Malpelo riesce a guadagnarsi il nostro sgomento e il nostro odio… e qui sta la magnificenza della scrittura di Verga. Leggendo questa novella ci si trova davanti a un disprezzo della vita che forse ci fa riuscire a guardare le stelle con uno spirito diverso. Una creatura della miniera guarda al cielo come a un estraneo… la luce non è contemplata nella vita di Malpelo e degli operai del sottosuolo. I cani rosicchiano le carni putrescenti di un asino morto, una madre piangerà un povero figlio vinto dalla malattia… Malpelo osserva e non avverte speranza alcuna. La rabbia è il veleno più insidioso dell’esistenza.

La Lupa è una storia di donne, ma non è la vicenda di femmine ispiratrici e combattive o pure. La novella è contesa da una donna che è una bestia selvatica avvinta dal fuoco degli istinti incontrollati, e da una giovane che si piega all’unico altro destino che sembra toccare a un personaggio femminile. Una è una poco di buono e l’altra sarà solo una moglie che sforna figli e inghiotte rospi amari.

Le due donne sono madre e figlia… e nel mezzo? Nel mezzo il pezzo di carne che la Lupa vuole spolpare: Nanni.

Nanni è un giovane che pare riunire in sé le virtù dell’uomo ligio, e grande lavoratore. Il giovanotto vuole prender moglie e la vuole graziosa, pacata… e ne avrà una, e avrà tanti figli; come è deciso che sia, sempre.

Nanni cerca di resistere alla tentazione proveniente da neri capelli e seni brucianti, da una bestia che schiuma di voglie sommesse, su un pagliericcio messo a terra. Nanni cederà? Cosa può diventare l’uomo che cede agli istinti e si scontra contro il sottile vetro che separa onore e dovere e desideri e istinti bestiali?

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Lupa, Edizioni La Spiga, 2013

La roba è una storia che non è fatta di azione ma di elenchi. Veniamo accompagnati attraverso territori bellissimi e fecondi… ma non riusciamo a godere di bellezze e profumi, iniziamo solo a sentire il peso del lavoro, dell’avarizia, della vita senza godimento… e ancora di lavoro e di sacchi di grano infiniti. Questa novella è la storia di Mazzarò, e Mazzarò non ha una storia vera e propria o una vita: quest’uomo è la sua roba. Gli elenchi delle terre e dei beni sono la pelle, le braccia e il sangue di Mazzarò. Potremmo pensare che un onorevole lavoro ben ripagato sia un ottimo esempio da raccontare: niente di più sbagliato. La storia di Mazzarò è fatta sì di lavoro ma anche di furberie, di prevaricazione e mania. Se la vita di un uomo diventa soppesabile non nello spirito e nelle gioie ma solo nei numeri e nei pesi stilati in un elenco… cosa succede quando quell’uomo muore? Se Mazzarò è la sua roba e la roba pare essere solo di Mazzarò… cosa resta? La roba che valore ha per voi? Questa novella è un modo per riflettere su cosa sia il benessere, il progresso e il riscatto.

La libertà è la versione romanzata di fatti realmente accaduti. Nell’agosto del 1860 ci furono delle lotte sanguinose presso Bronte; il problema dello sfruttamento delle terre demaniali avevano fatto “imbestialire” il popolo che si scagliò ferocemente sui galantuomini, ma anche su donne e bambini. Chiunque non fosse della stessa umile razza dei rivoltosi veniva ucciso a colpi di ascia, per schiacciamento… veniva massacrato come nel giorno in cui si uccidevano i maiali.

Il Comitato di guerra creato da Garibaldi inviò a Bronte un battaglione di Garibaldini guidati dal generale Nino Bixio. 150 persone furono giudicate nel giro di poche ore e cinque persone furono condannate a morte. Tra i giustiziati anche due innocenti: il pazzo del paese e un uomo che aveva avuto la colpa di essere stato nominato dai rivoltosi come possibile sindaco; quest’ultimo era un avvocato (un altro galantuomo ucciso, però, dalla giustizia). Bixio si piegò al suo dovere provando fastidio, fatica e disprezzo; in una lettera inviata alla moglie scrisse:

“Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili!”

In questa novella la libertà non solo non appare possibile, dato che quando si calmarono le acque tutti gli umili si sentirono persi senza i galantuomini, ma non è nemmeno adatta a quegli ignoranti che conoscono solo soprusi, privazioni e odio, subiti e gentilmente restituiti. L’ignoranza è ciò che rende l’uomo della terra incapace di comprendere e riscattarsi.

Proprio l’ignoranza è una delle “virtù” del protagonista dell’ultima novella Jeli il pastore. La scelta di inserire per ultima questa storia è davvero intelligente. Jeli racchiude nella sua vicenda personale tutte le miserie e le sferzate della vita come la racconta Verga. L’incapacità di emanciparsi davvero dalla propria, e miserabile, condizione… le falsità e i dolori che caratterizzano l’istituzione matrimoniale; neanche l’amicizia, che inizialmente sembra rischiarare questa novella, riesce in alcuna missione, anzi. L’ignoranza di Jeli e il suo animo fondamentalmente buono si riassumono in un foglietto che il pastorello porta con sé: quel foglio ha sopra il nome “Marta”; la scrittura non è, ovviamente, di Jeli. Il protagonista comprende più le sue bestie che gli altri suoi simili, anche perché i suoi simili sono diversi da ciò che la loro natura li chiamerebbe a essere. Ma dopotutto cos’è l’uomo? Forse la vera umanità non sta nel non cedere alle tentazioni e nel non incontrare i “cattivi” sentimenti; forse l’umanità sta nell’accettare il lato bestiale: comprenderlo e saperlo gestire. In fine, l’umanità animale di Verga si consuma nello sfacelo perché non sa chi è, non conosce altro che il lavoro e la fatica… le braccia e la testa e il cuore non hanno un qualcosa che li possa conciliare e armonizzare.

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Libertà, Edizioni La Spiga, 2013

Alla fine del volume ci sono degli apparati molto interessanti, rari da trovare in un’edizione per adulti. Ciò che è estremamente apprezzabile delle versioni didattiche è la missione di informare su autore e contesto storico in modo semplice, diretto e pertinente. Forse un giorno si smetterà di pensare che gli adulti non hanno bisogno di essere formati ma solo imboccati di nozioni.

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