venerdì 31 luglio 2020

JEROME KLAPKA JEROME

BRIVIDI E SORRISI (COMPOSTI)
 IN
RACCONTATI DOPO CENA


CENNI BIOGRAFICI[1]


Jerome Klapka Jerome nasce il 2 maggio del 1859 a Wasall, antica cittadina della contea industriale dello Stafforshire. Pare che il nome sia stata una scelta del padre, un predicatore evangelico.

A dieci anni viene ammesso alla Philological School di Lisson Grove. Nel 1873 muore improvvisamente il padre di Jerome. A causa del grave lutto, il giovane Jerome è costretto a lasciare gli studi… ma le disgrazie non finiscono qui: a soli quindici anni resta anche orfano di madre.

Le vicissitudini della vita portano Jerome a fare i lavori più disparati: impiegato delle ferrovie, segretario di un imprenditore edile, tuttofare nello studio di un avvocato. Tenta anche l’insegnamento, che abbandona per dedicarsi al giornalismo e all’attività teatrale.

È proprio il mondo del teatro a prospettare una soluzione alla solitudine e all’indigenza di Jerome.

L’autore scrive numerosi articoli e racconti umoristici ispirati all’ambiente teatrale, i quali saranno poi riuniti nel 1885 nel volume intitolato On the Stage and Off: The Brief Career of a Would-be Actor. La sua commedia Barbara viene rappresentata, nello stesso periodo, nel famoso Globe Theatre di Londra.  Seguono le pubblicazioni di The Idle Thoughts of an Idle Fellow, e il lavoro più noto dell’autore Three Men in a Boat. To Say Nothing to Dog (Tre uomini in barca. Per tacer del cane). Il seguito di Tre uomini in barca verrà pubblicato nel 1900 con il titolo Three Men on the Bummel (Tre uomini a zonzo): questa volta, i protagonisti della spedizione fluviale umoristica si recano in Germania. L’autore trae ispirazione proprio da un suo viaggio nel paese scelto per la nuova ambientazione.

Tra il 1892 e il 1897, Jerome collabora con la rivista «The Idler» e fonda il settimanale «To-Day».

Del 1902 è il romanzo Paul Kelver.

Jerome, nel 1908, mette in scena al St. Jame’s Theatre di Londra la commedia in tre atti The Passing of the Third Floor Back, che ottiene un buon successo. In seguito, pubblica il divertente romanzo They and I, che racconta uno spaccato della vita di campagna; in tale contesto viene mostrato, alla maniera di Jerome, il rapporto tra un padre e i suoi figli.

Purtroppo, la vena umoristica dell’autore si esaurisce e viene profondamente colpita dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Jerome prova a partecipare come volontario ma per colpa della sua età non viene arruolato; non rinunciando alla sua idea si unisce alla Croce Rossa, in Francia.

Nel 1919, dopo la Guerra, pubblica l’oscuro All Road Lead To Calvary (Tutte le strade portano al Calvario). L’opera mostra quanto Jerome esca amareggiato dall’esperienza bellica; infatti, il contenuto tratta della corruzione degli ideali e dell'animo umano.

Un anno prima della morte, nel 1926, esce l’autobiografia My Life and Times.

La vita di Jerome viene interrotta da un ictus il 14 giugno del 1927.

L’autore, però, ha trattato nei suoi scritti anche temi molto in voga nell’Inghilterra dell’Ottocento… l’orrore e gli spettri sono ciò di cui andiamo a parlare in questa infestazione fugace che subiamo con piacere dallo spirito letterario di Jerome.

 

TERRORI E FANTASMI 

JEROME E IL GUSTO DI UN’INGHILTERRA INNAMORATA DEL “BRIVIDO”

Già a metà dell’Ottocento la moda dello spiritismo si era diffusa negli ambienti alto-borghesi attraversando i cieli, dagli Stati Uniti all’Europa[2]. Questa tendenza non poteva non influenzare anche la letteratura… quando quest’ultima era ancora ad appannaggio delle classi più abbienti. In Inghilterra la letteratura d’intrattenimento mirata al divertimento dei lettori aveva una certa fama e un pubblico molto nutrito: i temi non erano impegnati e la paura era il sentimento prediletto, emozione che andava ricercata attraverso storielle sensazionali corredate di illustrazioni accattivanti. Questo gusto e questo tipo di letture ebbero una spinta maggiore a partire dal Forster’s Act del 1870, che pose la base per l’istruzione di tutti i bambini dai cinque agli undici anni… il pubblico non dotto si estese e i prodotti destinati anche.

Jerome non manca di criticare questa letteratura di consumo: basta leggere il suo racconto Una storia commovente[3], che riflette sulla funzione auspicabile quando si parla di arte. Jerome ci racconta come uno scrittore possa vendere facilmente l’anima per ottenere il successo… e ci propone, di contro, un’idea di letteratura come “compito divino, che viene dato a pochi, il compito di aiutare i figli di Dio al mondo per renderli più forti, nobili e sinceri”. Potremmo pensare, a questo punto, che l’autore non cede alla tentazione di scrivere di fantasmi… beh, non è così.

Nel 1891 pubblica la raccolta natalizia Told after supper (Raccontati dopo cena), per la Leadenhall Press.

Questo racconto di racconti parte da un “normale” dopocena inglese, ambientato durante la Vigilia di Natale, in cui gli astanti si raccontano storie di fantasmi tra sigari e tanto alcool. I temi così tanto famosi all’epoca vengono ripresi alla maniera di Jerome: l’umorismo sostituisce i particolari brutali, la violenza e le storie lacrimevoli… e il tutto diventa un’assurda didattica che intrattiene e al contempo riesce comunque a regalare qualche brivido, ovviamente se riusciamo a uscire dalla fame contemporanea per il sensazionalismo molto più acuta di quella ottocentesca.

Da questo racconto riusciamo a conoscere la particolare società inglese ridendo; possiamo anche commuoverci ma ciò che resta è un senso di straniamento che ci lascia nel dubbio sulla veridicità dei fantasmi… come se delle prove possano essere così importanti quando si parla di queste cose. La lezione di vita è dietro l’angolo, e possiamo goderne sorridendo tra uno spettro petulante e una famiglia inglese che ha lo scopo primario del buon nome e del decoro. Ovviamente ne parleremo più diffusamente tra un po'…

Jerome pubblica, poi, una vera raccolta di racconti del terrore intitolata Novel notes, nel 1893. Tra questi ho letto Lo scheletro, inutile dire che ve lo consiglio. Il tema viene ripreso, parzialmente, in John Ingerfield, datato 1894.

Enrico De Luca ci fa sapere che Jerome conosce Charles Dickens[4] nel 1870: questo incontro credo abbia avuto un impatto decisivo. Guardiamo a ciò che scrive Dickens nel 1850:

«Non scompariranno mai le vecchie case con le gallerie risonanti di echi, le tristi camere da letto di rappresentanza, le ali infestate dai fantasmi, chiuse da tanti anni, nelle quali eravamo liberi di scorrazzare, con piacevoli brividi lungo la schiena, e di incontrare tutti gli spettri[5] che volevamo; i quali, però (forse è il caso di precisarlo) si riducevano a pochissimi tipi o classi fondamentali: poiché i fantasmi mancano di originalità e “passeggiano” per sentieri battuti.»

Queste parole sono il perfetto entrée per prepararsi a Raccontati Dopo Cena; ed ora è giunto il momento che vi avevo promesso qualche riga fa.

 

RACCONTATI DOPO CENA di Jerome K. Jerome
ATTRAVERSO L’EDIZIONE CURATA DA ENRICO DE LUCA PER CARAVAGGIO EDITORE

 

Ph. Francesca Lucidi. Immagine dell'edizione presa in esame: Caravaggio Editore 2019

L’EDIZIONE 

RACCONTATI DOPO CENA è stato pubblicato nel 2019 dalla Caravaggio Editore, nella Collana I CLASSICI RITROVATI diretta da Enrico De Luca.

Il volume è piccolo e leggerissimo. La copertina flessibile e setosa lo rendono piacevole da maneggiare. Non c’è una sovraccoperta ma sono presenti delle alette interne con inserite le specifiche sulla storia, l’autore e il curatore dell’edizione.

La carta è scura, ruvida in modo delicato. Già dal frontespizio ci rendiamo conto di cosa ci aspetterà a livello grafico. 

Ph. Francesca Lucidi. Immagine dell'edizione presa in esame: Caravaggio Editore 2019

L’edizione presenta le illustrazioni originali di Kenneth M. Skeaping: scelta assai azzeccata e godibile in ogni angolo di questo libricino, che sembra il perfetto corpo per quella letteratura d’intrattenimento per cui tanto si sdilinquiva l’Inghilterra dell’Ottocento.

L’introduzione di Ernico De Luca riporta rapide informazioni riguardo all’opera e cenni biografici su Jerome, inseriti in nota. Per la biografia avrei preferito un paragrafo a parte… ma forse questa scelta sarebbe stata più pesante rispetto all’agile movimento di questa edizione adatta per essere portata con sé con l’intento di sollazzarsi in mondi improbabili, in un mondo contemporaneo tra il troppo prevedile e lo scioccante.

Le illustrazioni sono molteplici e multiformi: ne troviamo della tipologia “a pagina singola”; godiamo, poi, dell’eleganza dei capilettera finemente decorati, presenti all’inizio di ogni capitolo; siamo avvinti dai vezzosi spot che spuntano da ogni parte della storia. Gli spot possono essere sia diegetici sia puramente evocativi di un sentimento, di un gusto e magari di un simbolo. Ogni illustrazione è in bianco e nero e questa scelta non sa di povertà ma di raffinatezza. Molto particolari sono i disegni che precedono l’inizio di ogni capitolo: sulla pagina di destra troviamo un’illustrazione ampia e scura che riporta il titolo della sezione (ovviamente in inglese), insieme a cornici, oggetti e figure inquietanti e allo stesso tempo buffe, scherzose; nella pagina di sinistra, spesso, scoviamo un piccolo spot centrale che sbeffeggia ma inquieta grazie ai significati sospesi e ai personaggi dai tratti spettrali, brutti… è anche vero che spesso ci vediamo circondati da cherubini e separatori dal sapore classico, e così tiriamo un sospiro di sollievo. In realtà, le presenti illustrazioni guidano e confondono, dicono e smentiscono: questo è quello che dobbiamo aspettarci di trovare in tutto questo libro.


LA STORIA (CON LE SUE STORIE)

La narrazione parte dall’interno, il narratore fa parte della storia ed è il protagonista; è anche vero che questo ruolo primario viene conteso da altri soggetti, dato che il racconto del narratore contiene altri racconti con altri interpreti.

Tutto si svolge durante il dopo cena di una Vigilia di Natale svoltasi a casa degli zii del narratore.

La scelta di quella notte non è da imputare all’autore o ai personaggi “vivi”, coloro che decidono il come è il quando sono i morti, i fantasmi.

Sì, questa è una storia di spettri e apparizioni… e il narratore introduce la faccenda con una disanima sulle regole vigenti Ghostland, la terra dei fantasmi. Queste entità sono abitudinarie e molto “a modo” quando si tratta di comportarsi come spettri rispettabili che fanno ciò che ci si aspetta.

Ph. Francesca Lucidi. Immagine dell'edizione presa in esame: Caravaggio Editore 2019

La società Inglese è uno degli oggetti dell’umorismo che pervade il libro: la "genetica" determina il gusto perverso nel raccontarsi storie tutte uguali dopo cene annebbianti, grazie a fiumi di alcool; nonostante queste consuetudini risultino monotone a chi vi partecipi… ma nessuno può farci niente perché se si riunisce un nugolo di inglesi scatta sempre il racconto da brivido. Anche i fantasmi chiamati in causa sono, lo ripetiamo, inglesi: si preparano per la grande parata della Viglia di Natale con attenzione ai dettagli del “vestiario” e degli “accessori”… e anche loro si quasi annoiano del loro compito, si sbronzano, e maledicono quella notte. Tutti, però, cedono a questa endemica tendenza e tornano a fare le stesse cose con la precisione, l’umorismo nero, il gusto per le disgrazie tipico di un inglese.

A questo punto non posso non rimandarvi alle parole di Charles Dickens che vi ho citato nei paragrafi precedenti.

La società inglese è ben stratificata e anche i fantasmi hanno le loro “classi”. I nobili spettri scelgono una sola notte per apparire in tutto il loro splendore, quelli più borghesi possono farsi vedere in momenti meno onorevoli come la Vigilia di Ognissanti o la ricorrenza di San Giovanni. È anche vero che dove c’è una disgrazia appare un fantasma inglese, con il sadico piacere di predire sfortune. I motivi per cui ci si può imbattere in uno spettro sono molteplici: questo lo detta l’inglesità, il ceto, e le giuste lamentele che un fantasma può avanzare. Sicuramente tutto ciò è un velato invito a esami di coscienza per i vivi, lo avvertiamo ma non ce ne rendiamo conto.

Questa storia è sì una vicenda di fantasmi ma il tutto è mitigato dall’umorismo dell’autore che si distacca dal piacere truculento della letteratura d’intrattenimento di moda in quel periodo. Jerome accarezza il tema senza forzare troppo la mano. Il mondo tremendamente ordinario si scontra con lo straordinario, attraverso lo sguardo pacato e dissacrante di un inglese beneducato. Il narratore di primo grado tiene ferma una prima persona singola, che ci domandiamo se sia in realtà una prima persona inattendibile; però, la presa non tiene e la storia esplode nei multipli punti di vista degli invitati alla cena che raccontano, ognuno, una storia di fantasmi che li vede coinvolti in prima persona.

I personaggi della cornice esterna sono il narratore, che si presume essere giovane, lo zio (la zia non interviene nei fatti ma solo nella preparazione dei piatti di una rispettabile cena della Vigilia, inglese), il curato del posto, il vecchio dottor Scrubbles, il signor Coombes e Teddy Biffles. In realtà non tutti loro vedranno la propria storia riportata dalla principale prima persona “quasi” attendibile: una narrazione ellittica sorpassa due di loro tra tovaglie lanciate, intermezzi e interludi.

Tutte le storie sono presentate come vere… anche se tutti sembrano scettici.

Lo scetticismo è una delle qualità dell’inglese medio di ceto alto. La fase del dopocena che precede le storie di fantasmi vede il curato che mostra ai suoi amici il gioco delle tre carte e i suoi malefici intenti ed effetti. Le carte si spostano velocemente e l’illusione crea l’inganno; il curato non azzeccherà l’intento… ma forse questa digressione ha una certa importanza. Sono proprio le digressioni a caratterizzare lo stile peculiare di Jerome: qualcosa scompare per poi riapparire in qualità di assenza. E in questo caso dobbiamo stare bene attenti a non finir per strada solo con le braghe… e questo lo capirete entrando, e completando questo dopocena.

I fantasmi di cui si parla sembrano non far paura perché sono malinconici, smemorati, quasi sciocchi. Qualcosa però ci fa salire un brivido…

La consuetudine normalizza qualcosa che dovrebbe essere raccontato con termini forti ed esclamazioni accese. No, tutto sembra perfettamente normale. Probabilmente è proprio questa sorta di quotidianità a farci avvertire il mondo del soprannaturale incredibilmente vicino, possibile.

Per scoprire tutto sulle abitudini dei fantasmi e per cercare di capire se un mulino possa contenere o meno una grande fortuna nascosta… dovete solo aprire le pagine e sedervi magari con qualche amico che abbia voglia di intrattenersi con voi, possibilmente a pancia piena. La colonna sonora è data dalle catene ben lucidate per l’occasione e dal silenzio: qualcuno non ama la musica, gli estranei e gli scocciatori… pena la MORTE!

E adesso scompaio per poi riapparire al prossimo contenuto.

Buona Lettura!

Se volete acquistare questo libro basta cliccare QUI: grazie alla mia affiliazione Amazon si aprirà direttamente la pagina del prodotto all’interno dello shop. Se deciderai di acquistarlo tramite il mio link potrò avere l’occasione di ottenere un piccolissimo contributo, da reinvestire in tanti libri su cui discutere insieme.

 

Bibliografia e sitografia delle fonti (esclusa l’edizione presa in esame):

Jerome K. Jerome, Storie di fantasmi per il dopocena, Milano, La Spiga, 2007;

Massimo Scotti, Storia degli spettri, Milano, Feltrinelli, 2013;

Mario Praz in Enciclopedia Italiana, dal sito della Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/jerome-klapka-jerome_%28Enciclopedia-Italiana%29/#:~:text=JEROME%2C%20Jerome%20Klapka,Northampton%20il%2014%20giugno%201927.&text=Entrato%20cos%C3%AC%20trionfalmerite%20nella%20carriera,Idler%20(1892%2D97).;

https://www.liberliber.it/online/autori/autori-j/jerome-k-jerome/.

 

 

 

 



[1] Per le fonti sulla biografia dell’autore si rimanda alla bibliografia a fine contenuto.

[2] Per saperne di più si consiglia il contenuto del Penny Blood Blog sulle famigerate Sorelle Fox. Trovate l’etichetta nella parte destra del blog.

[3] Nonostante i miei numerosi sforzi non sono riuscita a reperire il luogo e la data di pubblicazione.

[4] Voglio ben pensare che abbiate letto o conosciate Un Canto di Natale, il celebre racconto dell’autore che ci racconta di fantasmi, peccati e redenzione. Teniamo ben presente la scelta della notte della Viglia di Natale.

[5] Per comprendere la differenza tra spettro e fantasma vi rimando sempre al contenuto sulle Sorelle Fox presente qui sul blog.


martedì 28 luglio 2020

SUSANNA TAMARO: LIBRI "CATTIVISSIMI" PER RECUPERARE IL DIRITTO A SOGNARE

IL ROMANZO PER RAGAZZI IL CERCHIO MAGICO

Ph. Francesca Lucidi. In foto la recente edizione GIUNTI JUNIOR illustrata da Adriano Gon; affiancata dalla prima edizione di Mondadori del 1995, illustrata da Tony Ross.

CENNI BIOGRAFICI

Susanna Tamaro nasce il 12 dicembre del 1957 a Trieste. La famiglia appartiene all’ambiente borghese. Lontana parente di Italo Svevo, Susanna ha due fratelli: Stefano, il maggiore, e Lorenzo, il minore.

Dopo il diploma magistrale, grazie a una borsa di studio, inizia la sua formazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma; si diploma in regia e inizia a collaborare saltuariamente con la RAI. Susanna ha difficoltà a trovare una collocazione stabile perché il suo titolo di studio non è riconosciuto come laurea. Il suo carattere poliedrico e particolare si nutre di stimoli di ogni genere… tra i quali vi è anche il Karate.

Esordisce nel mondo della letteratura nel 1989, grazie a un’iniziativa dell’editore Marsilio, rivolta agli emergenti. Il suo romanzo d’esordio La Testa fra le nuvole (titolo iniziale La Dormeuse electronique) viene rifiutato ventotto volte prima di essere letto direttamente dal direttore della Marsilio. Il libro viene pubblicato e l’editoria si accorge di questa autrice totalmente nuova, strana, coraggiosa… irriverente e malinconica. La Testa fra le nuvole vince il Premio Elsa Morante. Il protagonista della storia, Ruben, viene costretto a vivere mille rocambolesche avventure e a cambiare identità; l’autrice dichiara di avere molte analogie con quel personaggio: lei che sbaglia sempre l’entrata dal bagno e si rivolge alla cameriera dell’albergo pensando sia la proprietaria. Susanna è una scrittrice sbagliata e diversa, e proprio per questo è assolutamente giusta e pertinente, e abile ad attirare il lettore che si riconosce nelle vicende assurde e nefaste raccontate alla scrittrice: dopotutto sono davvero simili alla vita, soprattutto a quella che corre e muta di continuo all’affacciarsi degli anni Novanta.

Due anni dopo viene pubblicata la raccolta di racconti Per voce sola. Il nuovo lavoro della scrittrice è un nido di storie dure e crudeli: bambini abbandonati fisicamente ed emotivamente, infanzia violata e mancati riscatti di donne… di anziani. Il tragico dramma degli ebrei, ladri di bambini e genitori violenti: pagine che racchiudono solitudini marce, e tumori che crescono da dolori mai affrontati, da esperienze mai compiute, come accade per una delle protagoniste.

Per voce sola attira l’attenzione di un fan molto speciale: Federico Fellini. Il famoso regista si imbatte nel libro della Tamaro quasi per caso, in libreria, in un piccolo spazio a parte… quasi fosse un volume negletto.

Fellini non riesce a staccare gli occhi da quelle pagine piene di dolore e decide che vuole assolutamente conoscerne la creatrice. La scrittrice resta colpita da questo importante ammiratore, ma non si fa certo intimorire. Susanna si reca all’incontro in bicicletta, tanto che Fellini la apostrofa “Lucignolo in bicicletta”. Lei è una donna schiva, libera e poco incline alla mondanità; racconta del fastidio che ha provato verso l’insistenza dello scrittore nel volerle mandare una macchina, descrive il regista come narcisista e lei come solitaria e, quindi, poco attratta da quelle circostanze. La Tamaro ha goduto dell’onore, ma a suo modo[1].

L’autrice sceglie di scrivere ancora di bambini ma in un modo totalmente diverso (o forse simile): tra il 1992 e il 1994 pubblica con Mondadori Cuore di Ciccia, Papirofobia e Il Cerchio Magico. Le tre storie parlano di bambini soli e disconosciuti da una società opprimente e ossessionata dall’ordine e dalla forma. Chi inneggia all’aspetto fisico, chi vuole obbligare il proprio figlio a leggere… e chi desidera un mondo “pulito” senza fiori, alberi e animali. La sterilità del presuntuoso e cieco universo degli adulti si scontra con bambini fragili, umani e allo stesso tempo assurdi. Queste storie sono confortanti solo alla fine: durante la narrazione esce fuori il peggio dell’umanità con la sua violenza verbale e gli abusi perpetrati contro la bellezza autentica del mondo, e quindi anche contro i bambini. In Cuore di Ciccia un bimbo che vive ignorato dai propri genitori trova conforto nel frigorifero, fino a chiamarlo per nome e a proiettare su di esso un sentimento confuso. La madre del protagonista si accorge del figlio solo quando è il caso di rimembrargli quanto sia schifoso il suo corpo grasso. In Papirofobia due genitori vogliono costringere, a tutti i costi, il loro figlio a leggere. Il protagonista ha altre necessità e viene solo additato e persino considerato “malato”; in realtà nessuno aveva centrato il vero problema del bambino: ancora la stoltezza dei grandi che si credono perfetti e proiettano un perfezionismo malato verso dei piccoli uomini visti solo come cuccioli da educare. Proprio di un cucciolo parla Il Cerchio Magico: Rick ha una mamma adottiva che ama tantissimo, un cane lupo. Guendy, che è metà cane e metà lupo, ha salvato il bimbo da un cassonetto e lo alleva con l’amore incondizionato e la saggezza che solo un animale può avere, in un mondo dove le persone stanno iniziando a odiare ogni gatto, ogni uccello canterino e ogni filo d’erba. Rick e Guendy vivono in un posto molto speciale… che sarà, però, l’oggetto dell’odio della città ormai preda di una malattia della mente e soprattutto del cuore. L’amore contrasta l’odio attraverso mille peripezie: morte, prigionia, lavaggio del cervello. La Tamaro racconta storie per bambini parlando a tutti; narra della vita esasperandone i lati negativi, non esagerandoli ma dipingendoli di assurdo… ma solo per mostrare la vera immagine di un mondo ossessionato dagli schermi televisivi e la pubblicità, dalla perfezione e dall’automatismo confortante di chi smette di pensare e amare. Anche leggere diventa un obbligo, e dire questo a una “Lucignolo”, con il dono della parola e della narrazione, può solo avere effetti prorompenti.

Nel 1994 la scrittrice affida alla Baldini Castoldi il suo nuovo romanzo Va’ dove ti porta il cuore, e il libro ottiene un successo e una risonanza enormi. La storia, attraverso diverse forme di narrazione che vanno dal diaristico, all’epistolare, al “testamento” parla della fine di una vita rivista a ritroso dalla sua protagonista. Un’anziana si avvia verso la morte e sente la necessità di raccontare alla nipote, tramite una lettera, molti rimpianti e soprattutto molte verità non facili da sgranare su una collana fatta di morti, sentimenti mancati, costrizioni e parole non dette. Il titolo del libro è l’eredità che l’anziana lascia alla nipote, l’invito più importante e difficile da seguire in una vita. L’attenzione guadagnata dalla Tamaro non si risolve solo in esperienze positive: innanzitutto si accende una feroce lotta tra la Baldini Castoldi e la Marsilio che si esprime in accuse non troppo velate verso l’autrice, da parte del direttore della Marsilio… così dice la Baldini Castoldi; il tutto alza un polverone che finisce per colpire l’innocente Susanna che si vede accusata di messe in scena organizzate a tavolino per attrarre l’opinione pubblica. I critici non sono tutti gentili ed entusiasti e molti si esprimono in maniere poco lusinghiere fino a definire la scrittura della Tamaro prevedibile e buonista. La nostra “Lucignolo” non manca di rispondere nella sua maniera tagliente e pacata: 

“Io avrei un grande talento linguistico, ma in questo momento non mi interessa, voglio la semplicità.”

Il modo non lusinghiero in cui l’autrice tratta la rivoluzione sessantottina nella trama la fa etichettare come “berlusconiana”, quando lei dice di aver solo mostrato uno dei lati di quella realtà, che non si è risolta totalmente in progetti portati a termine e in slanci totalmente positivi. Alle accuse, che si protrarranno per anni, piene di parole usate con accezione negativa come “gay”, “sentimentalismo”… la Tamaro risponde sempre con il suo piglio sincero. L’atteggiamento della scrittrice ha molto a che fare con una sindrome neurologica manifestatasi da tempo, e di cui parleremo. Il lavoro successivo, intitolato Anima Mundi, viene criticato per il titolo troppo ambizioso; la sua collaborazione con Famiglia Cristiana la fa chiamare “Cattolica”. Diciamo che tutti, ad un certo punto, si sono sentiti in diritto di etichettare una persona che rifiuta ogni sorta di collocazione umana e letteraria. Susanna è uno spirito libero, incastrato in una mente brillante e sofferente. Il clamore mediatico e una bronchite cronica la spingono a trasferirsi in una residenza più ritirata a Orvieto. Lì vive con i suoi cani e la compagna che la affianca dal 1988, Roberta Mazzoni[2]. Anche questo rapporto è un altro degli appigli da cui indicare e giudicare la scrittrice, che non si dichiarerà apertamente omosessuale ma rivendica la libertà della sua scelta: vivere con una persona che è amica e confidente e il che non significa rientrare in un orientamento sessuale definibile. Per i ben pensati la Tamaro è un’omosessuale, per la comunità LGBT è un’ipocrita che non vuole rivelarsi al mondo.

Riguardo alle accuse di “sentimentalismo” Susanna scherza, molto seriamente, definendo i suoi libri “CATTIVISSIMI”, e dice che chi la accusa dovrebbe innanzitutto leggerli quei libri. Beh, questo è vero: le sue storie non sono buone e sono pervase da tutte le crudeltà che un uomo possa infliggere; la Tamaro ci racconta il mondo come lo stiamo "costruendo" e non lo fa usando mezzi termini. Lei è chiara, dura e veritiera. La Tamaro non ha mai avuto paura di dire la sua… solo che non lo fa con i modi imposti dalla società che vuole per forza etichettare qualunque cosa.

In lei si alternano profonda oscurità e bontà silenziosa e educata. Nelle sue narrazioni si parla spesso di morte, ed è lei stessa a evidenziare questo aspetto quando viene chiamata a parlare di sé in interviste, negli anni sempre meno frequenti. Lei ha un modo di fare le cose DIVERSO. Nel 2000 crea un’associazione: la Fondazione Tamaro, che si occupa dei più deboli, specialmente donne e bambini. Il lavoro della fondazione è sostenuto dai diritti dei libri dell’autrice e da donazioni esterne. Negli anni, Susanna Tamaro pubblica diversi lavori, ma la sua vita pubblica si riduce sempre di più. Tutti hanno cercato di prendere possesso della sua figura e delle sue posizioni, riguardo a svariate questioni. Lei non ama la “proprietà”. Anche la maternità viene trattata nelle sue storie in modo anticonvenzionale e assolutamente moderno. I genitori si comportano spesso da padroni e trattano la propria prole come oggetti, come beni; di contro, ci sono diversi personaggi che fanno i genitori in maniera magnifica, pur non essendolo biologicamente. La Tamaro non ha mai avuto figli ma racconta di come abbia quasi cresciuto i bambini di una famiglia peruviana che ha vissuto a lungo con lei. Il PEL DI CAROTA tanto ammirato da Fellini è un’entità sopra ogni classificazione che dice quello che pensa in modo brusco e fantasioso, come farebbe un bambino. Lei conosce profondamente l’amicizia e la fedeltà, l’altruismo e il coraggio.

Il suo coraggio viene evidenziato ancora di più alla fine del 2019 quando annuncia il suo ritiro dalla vita pubblica a causa anche dell’inasprirsi della sua malattia, che le impedisce di viaggiare e star troppo in mezzo alla gente: tra il mondo fuori dalla casa di Orvieto e la scrittura lei sceglie quest’ultima. Per continuare ad avere la lucidità e le energie per raccontare deve staccarsi dalla confusione e dalla velocità del “fuori”; noi che siamo lì fuori riusciamo forse ad orientarci meglio anche grazie ai suoi libri CATTIVISSIMI, ma così veri e pieni di sentimenti crudi, e lotte interiori vinte a suon di riflessioni e confessioni.

 

 LA SINDROME DI ASPERGER

La sindrome neurologica che affligge Susanna Tamaro è racchiusa tra i disturbi dello spettro autistico. Prende il nome dal medico austriaco Hans Asperger, e solo nel 1994 è stata inserita nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Chi è affetto dalla Sindrome di Asperger non sperimenta ritardi nel linguaggio e nelle capacità cognitive ma, oltre a mostrare segni clinici, vive la compromissione dell’esperienza delle interazioni sociali. Spesso chi è affetto da questa sindrome compie movimenti ripetuti, ha difficoltà a comprendere il “tono” delle parole altrui e, nonostante abbia un vocabolario ampio e forbito, spesso manifesta una certa pedanteria nel parlare. Questa condizione porta fissazioni particolari e straordinarie capacità, ad esempio mnemoniche. Apparentemente queste persone possono apparire fredde e permalose… ma in realtà non riescono a comprendere molti segnali comunicativi e prendono le parole sempre in modo letterale. Ogni paziente, però, è un caso a sé. Spesso si sperimentano delle difficoltà negli sport di gruppo per la difficoltà nell’approcciarsi a un gran numero di stimoli esterni che diventano una grande confusione. Susanna Tamaro con gli anni sente sempre di più il peso della sua condizione e viaggiare o frequentare troppi posti, e tante persone, è un sovraccarico assai pesante. Queste persone fanno una grande fatica a rapportarsi con l’esterno, nonostante siano spesso i portatori di un ricco mondo interiore e di una brillante genialità. Pensate cosa hanno comportato tutte quelle accuse per una persona che dice sempre la verità e sente tutto ciò che gli viene detto come vero. La scrittrice, negli anni, ha anche ricevuto diverse minacce di morte. Io mi stupisco di chi dice che non leggerebbe mai i libri della Tamaro a un bambino: beh, la vita è dura e credo che dire la verità sia una buona cosa se può essere accompagnato da amore, lotta per qualcosa che riteniamo giusto, e qualche cioccolata calda sorseggiata a tarda notte parlando delle proprie paure (e mi riferisco a molti punti de IL CERCHIO MAGICO). I bambini vivono spesso in un mondo peggiore del nostro: si sentono dire offese indicibili e spesso tacciono appunto perché i grandi vogliono vivere nella convinzione che sia tutto confetti e fiorellini. Io lessi i libri per ragazzi della Tamaro quando avevo undici anni: beh, mi hanno fatto alzare la testa contro il bullismo di chi vessa gli animi puri, liberi e diversi. Io parlavo con il mio gatto per colpa della Tamaro, e per merito suo io ancora riesco a udire le voci della natura e il coraggio che può sopravvivere in un cuore spezzato.

Non sono certa di non avere anche io la Sindrome di Asperger…


IL CERCHIO MAGICO

Ph.Francesca Lucidi. Edizione Giunti Junior 2010

SBIRCIAMO NELLA STORIA, MA NON TROPPO

Questa storia è il prodotto della società in cui nacque. Verso la metà degli anni Novanta i canali televisivi si moltiplicarono, con annesse pubblicità inneggianti al consumismo sfrenato; i personal computer iniziarono a entrare nelle case degli italiani e i giganteschi centri commerciali si affacciarono anche fuori dalle grandi città.

Il narratore si divide tra le stupide credenze della gente e la demolizione di quelle convinzioni che diventano il pretesto per una caccia alle streghe assai particolare. La storia è arricchita dai pensieri del protagonista e dai numerosi discorsi diretti legati che ci presentano dialoghi che vanno a mostrare ciò che accade, accadde e ciò che borbotta nell’animo dei personaggi. Il tutto inizia con un flashback che si dirige disperato verso i ricordi felici del protagonista: Rick.

Rick è un bambino, anzi è un lupo… anche se in realtà la mamma non era un lupo intero. Il piccolo è stato “salvato” da un cane lupo femmina di nome Guendy. Il rapporto tra i due è quello amorevole di una madre e il suo cucciolo: un “cucciolo nudo”, così la scimmia Ursula chiama Rick. La tana è il luogo dove questa famiglia, formata da una madre single adottiva e ibrida e un bambino che non si riconosce nella sua pelle, si manifesta attraverso i racconti della buona notte che ci permettono di conoscere la storia del piccolo e del bellissimo e fiero animale dal pelo argentato. 

Ph.Francesca Lucidi. Edizione Giunti Junior 2010

Ma cos’è il CERCHIO MAGICO? Questa espressione indica un oggetto reale e un luogo figurato. Quel cerchio si riesce a vedere realmente, a ogni notte di luna piena… anche se una volta si poteva vedere sospeso nel cielo ogni notte, e questo non è un buon segno. Il Cerchio Magico si crea dove cade una stella, e una stella cade dove viene formulato un desiderio. Quell’anello dorato è ciò che permette a un bosco di animali felici di vivere protetto. All’interno del parco cittadino vi è infatti un agglomerato misterioso di vegetazione e animali che inizia a spaventare gli abitanti umani. Nel Cerchio Magico non vi è nulla di spaventoso, anche se molti dicono che un giardiniere vi sparì inspiegabilmente. In quel bosco vivono tantissimi animali che parlano tra loro e raccontano storie; come Ursula, una scimmia astronauta che è riuscita a sfuggire all’uomo grazie alla sua “buona stella”… e, ragazzi, le stelle vibrano e Ursula ha avvertito la loro voce direttamente nello spazio.

Rick ama ascoltare le storie della sapiente scimmia anziana, e le fa moltissime domande; una sera, però, Ursula si lascia sfuggire la sua preoccupazione riguardo a una fine che pare palesarsi giorno dopo giorno. Rick non è mai stato triste, o almeno ha pianto solo quando si è fatto male cacciando qualche cavalletta… adesso però piange come un uomo e sente la tristezza. Guendy, come ogni brava mamma, riesce a consolare il suo cucciolo spiegandogli che il Cerchio Magico non è solo nel bosco ma nel cuore delle persone, e le persone che si vogliono bene sono legate da questo cerchio dorato che nulla può spezzare.

Purtroppo, il cuore del piccolo Rick viene spezzato in mille pezzi, la sua natura viene umiliata e il bosco subirà l’ira degli uomini che dichiarano apertamente guerra alla natura. Le persone sono sempre più inorridite dallo sporco che portano uccelli, cani, gatti (e bambini): la città decide di demolire il parco e il bosco. La superstizione è la giustificazione, un uomo ambizioso ne diventa il braccio armato che guida un popolo di teste vuote. Triponzo è il portavoce delle preoccupazioni dei cittadini; lui ha vocione in capitolo perché ha due doppimenti e tre pance. Ma, a monte, il vero dittatore del rinnovamento è un essere ancora più crudele, e piuttosto disgustoso. Un piano malvagio viene messo su mentre Rick è imprigionato nella villa del suo “PAPÀ” adottivo. Beh, i motti sono facili e gli intenti chiari:

“Bruciamo gli alberi, bruciamo l’erba,

bruciamo i fiori e i loro orridi odori!

Per il sonno dei nostri bambini

degli uccellini facciamo spiedini!”

Essì, i bambini… la loro educazione è cosa primaria: le loro menti sono così simili a quelle degli animali che sedare i loro slanci vitali e i loro ragionamenti liberi è un bel problema. A proposito… se vedete un bambino con gli occhi quadrati potete liberarlo in un solo modo, ma forse non posso ancora dirlo; lo suggerisco e dico “CLICK!”

L’allergia ai fiori è davvero un crudele affronto da parte della natura e la cattiveria va ripagata con la cattiveria. C’è addirittura una donna pericolosissima, di nome Amalia Cipolloni, che annaffia piantine colorate e puzzolenti e nutre gattacci randagi pieni di malattie. Saranno proprio Amalia e la regina dei cassonetti Dodò, un gatto, a incontrare il destino di Rick.

Rick dovrà essere un perfetto “triponzino”, un cane e un bambino… ma lui è un LUPO, e non smette di ripeterlo.

Il cucciolo nudo si chiede cosa significhi la fine della felicità; il CERCHIO sarà la risposta.

La lotta sarà davvero dura, e a tratti assai ripugnante.

L’amore e il coraggio possono salvare capre (o bambini) e cavoli (fiori)?

Il motto è uno solo:

“CODA ALTA E SGUARDO DRITTO E NON SARAI MAI SCONFITTO!”

 

ANALISI, ANZI, DIREI ESAME DI COSCIENZA

“Un mondo pulito e obbediente:

panza piena e in testa niente.”

Ok, prendetevi un minuto e rileggete queste due frasi.

Questo è l’inno della rivoluzione della “società civile” di questa storia.

Perché prendere un cane quando si può acquistare un televisore? Non saprei… rispondete voi.

Il Cerchio Magico è una storia coraggiosa di famiglie non tradizionali, di bestialità primigenia e di stelle che vibrano. “La vita è un soogno o un sogno è la vita?” Per gli uomini che vivono dentro questo libro il sogno è uno solo, il loro. La vita può essere meravigliosa se non ci si sforza più neanche a sognare.  

L’autrice mette molto di sé e tutto si ritrova tra l’amore per la natura, le vite segnate da solitudine coraggiosa, e da modi di fare considerati bislacchi. Rick è un bambino selvaggio ma può essere anche visto come un individuo che ha difficoltà relazionali e si pone tante domande sulle cose del mondo che non riesce a capire. Rick è intelligente ma si incastra sugli spigoli della società… e qui si torna agli effetti della Sindrome di Asperger.

Tutto è congeniato per parlare il linguaggio dei bambini tra mani sporche, musi impiastricciati e la voglia di stare con la mamma. Gli adulti, però, sono il bersaglio che può essere colpito per cambiare le cose. In una realtà dove le cose naturali ci fanno sempre più schifo, e ci danno mortalmente fastidio i petali dei gerani dell’inquilino del piano di sopra che ci cadono sul balcone, credo che Il Cerchio Magico sia un esame di coscienza necessario per riappropriarci dei nostri sogni. Una scampagnata al tramonto è la meta, non il comprare l’ultima cosa di tutto… giusto perché si è liberi quando non si dipende da troppe cose, non credete? Non voglio fare la paternale ma riflettere imparando dalla forza dei lupi, dalla scaltrezza dei gatti e dalla furbizia delle scimmie.

Anche la beneficenza fasulla viene messa in ridicolo aprendo uno spioncino verso intenti poco umanitari e molto utilitaristici.

A distanza di anni dalla sua venuta al mondo, questo ibrido di libro è una simulazione di un futuro assai probabile e poco auspicabile.

Di certo questo non è un cieco invito ad abbracciare tutti i bambini del mondo e a radere al suolo ogni cosa di cemento… ma quando si rade al suolo il mondo per ucciderci abbattendo alberi e non pensando più ai bambini, se non con un senso di “possesso”, penso che forse ci si dovrebbe fermare, come vi ho invitati a fare all’inizio di questo paragrafo.

La narrazione è facile ma spinosa, il linguaggio poetico e anche assurdo. I nomi dei potenti sono orrendi da pronunciare e all’inizio siamo chiamati a soffrire non poco.

Il “CERCHIO” è la risposta che ci attende alla fine del libro, anche a noi, oltre che a Rick.

Buona lettura!

Se volete adottare questa bellissima storia cliccate QUI  e si aprirà la pagina AMAZON del prodotto: essendo un'affiliata, se acquisterete tramite questo link potrò avere la possibilità di guadagnare un piccolissimo contributo da reinvestire in tanti altri libri su cui discorrere insieme. Scegli tu se sostenere il PENNY BLOOD BLOG.

GRAZIE MILLE! 

 

 

 Ph. Francesca Lucidi. Edizione Mondadori 1995



[1] Susanna Tamaro racconta la vicenda durante un’intervista a Repubblica del 21 novembre 1990.

[2] Sceneggiatrice e scrittrice.


venerdì 24 luglio 2020

GIOVANNI VERGA: LA VITA, LO STILE E LA NARRAZIONE REALISTICA DI UN'ITALIA SOFFERENTE

IL VERISMO E LE SUE MANIFESTAZIONI

NOVELLE SCELTE: ROSSO MALPELO, LA LUPA, LA ROBA, LA LIBERTÀ
E JELI IL PASTORE

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

CENNI BIOGRAFICI

Giovanni Verga nasce il 2 settembre del 1840 e viene registrato all’anagrafe di Catania. Vi è una curiosa congettura che ipotizza come data di nascita reale il 31 agosto. Secondo questa idea lo scrittore sarebbe, in realtà, nato a Vizzini, cittadina al confine meridionale della Provincia di Catania. Non vi sono documenti ufficiali ma solo piccoli indizi.

I Verga sono proprietari terrieri e a Vizzini hanno molti possedimenti. Le origini del cognome sono molto antiche e sarebbero riconducibili a lontane radici spagnole. I Verga appartengono a un ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca. La madre dello scrittore è Caterina di Mauro e fa parte di una famiglia borghese di Catania. Le ipotesi sulla fittizia nascita di Giovanni a Catania sarebbero, quindi, riconducibili a motivazioni legate alle origini della madre… e anche all’eventuale maggior pregio di una nascita cittadina piuttosto che provinciale. Vizzini è comunque impressa nel sangue dei Verga: il nonno fu addirittura deputato presso il parlamento siciliano, proprio per la cittadina.

Verga compie gli studi primari presso la scuola Francesco Carrara; gli studi secondari vengono portati a termine presso la scuola di Don Antonio Abate, fervente patriota.

La figura di Don Antonio diventa molto importante: Verga viene coinvolto dal suo sincero e ardente patriottismo… mentre le letture di Dante, Petrarca, Manzoni e Ariosto foraggiano un interesse letterario sempre più vivo.

Nel 1854, Verga deve rifugiarsi in campagna per sfuggire a un’epidemia di colera. Vi resta per quasi due anni. Questa esperienza va ad aggiungersi alle altre maturate durante i suoi studi: il tutto va nutrire il terreno da cui si caratterizzerà tutta la futura opera dello scrittore.

Giovanni Verga scrive il suo primo romanzo all’età di quindici anni. Don Antonio sembra apprezzare il lavoro del giovane e brillante allievo; il professore di latino è molto più scettico e l’opera, alla fine, viene lasciata in fondo a un cassetto.

Nel 1858 l’iscrizione all’Università di Catania, alla facoltà di legge. Il richiamo delle lettere è per Verga troppo forte: lascia gli studi e inizia a dedicarsi completamente alla scrittura, partendo dal lavoro di giornalista. In realtà, nel 1861 spende tutti i soldi della retta universitaria per la sua prima pubblicazione: I carbonari della montagna.

All’amore per la scrittura è sempre legato il patriottismo e il vincolo con la Sicilia; lo scrittore, infatti, finisce anche per arruolarsi nella Guardia Nazionale di Catania.

Verga tenta più volte di far sopravvivere un suo giornale, senza successo.

La scrittura giornalistica resta, però, un punto fondamentale da cui partire per osservare e comprendere la tecnica narrativa che impiegherà Verga.

Nel 1865 muore Giovan Battista Catalano, il padre dello scrittore.

Dopo la morte del genitore, Verga si trasferisce nella capitale del Regno d’Italia: Firenze. Lì conosce Luigi Capuana. Nel 1871 esce il romanzo Storia di una capinera.

Nel 1872, Verga pubblica il racconto Nedda, che narra degli stenti di una raccoglitrice di olive siciliana: la conversione all’impostazione e ai temi veristi, a quel punto, è completata.

Dopo l’unità, l’Italia appare estremamente frammentata sia culturalmente sia economicamente. Il sud della penisola è particolarmente attanagliato dalla piaga del lavoro minorile… e proprio riguardo alla realtà lavorativa in Sicilia il Parlamento decide di avviare un’inchiesta. A quel punto, è chiaro a Verga come il tema principe delle sue opere debba essere la terra natia, con i suoi dolori e i suoi paesaggi così selvaggi e meravigliosi.

Dal germe delle origini siciliane dello scrittore nascono i capolavori che segneranno la storia della letteratura. Del 1880 è la raccolta di novelle Vita dei campi, incentrata sul tema della lotta per la sopravvivenza; un anno dopo esce il primo romanzo intimamente verista dello scrittore: I Malavoglia, opera incardinata sulla rovina di una piccola famiglia di pescatori che tenta di intraprendere un’attività commerciale. Nel 1882 esce una seconda raccolta di novelle intitolata Novelle Rusticane, basata sul tema della “roba”.

Durante il 1889 viene pubblicato il secondo romanzo dello scrittore: Mastro Don Gesualdo.

Verga decide di tornare in Sicilia. Nel 1893 è a Catania.

Lo scrittore inizia la redazione de La duchessa di Leyra, ma non riesce a proseguire nel progetto. I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo e La duchessa di Leyra, insieme ad altri due romanzi, dovevano entrare a far parte di un unico progetto: Il “Ciclo dei Vinti”; l’idea iniziale, purtroppo, non verrà mai portata a termine dallo scrittore. L’ispirazione artistica di Verga si esaurisce… e lascia spazio alla depressione e alla solitudine.

Giovanni Verga è un individuo che preferisce vivere da solo, non si sposa e non ha figli. Ha una visione molto particolare del matrimonio: lo considera una gabbia per topi dalla quale quelli che son dentro vogliono uscire, mentre tutti gli altri vi girano intorno per entrarvi. Lo scrittore intraprende una relazione importante: Verga si lega con Giselda Fojanesi, moglie del poeta catanese Mario Rapisardi. La relazione viene scoperta dal marito tradito che ripudia la moglie.

Un’altra donna riesce a entrare, in tutt’altra veste, nella vita dello scrittore: Dina Castellazzi. La Castellazzi resta un’amica fedele, per tutta la vita di Verga.

Verga sceglie per sé una vita ritirata; non manca, però, di occuparsi dei tre figli del fratello morto giovane.

Nel 1920 arriva la nomina di Senatore del Regno, che lascia il Nostro piuttosto perplesso e non particolarmente entusiasta. Verga, però, apprezza sinceramente il discorso di intitolazione tenuto da Luigi Pirandello.

Giovanni Verga muore a Catania nel 1922.

 

L’ACCOGLIENZA DEL PUBBLICO

La prima uscita de I Malavoglia non raccolse molti consensi. Verga incontrò diversi problemi finanziari e un po' di ossigeno venne dalla trasposizione teatrale della novella Cavalleria Rusticana, testo facente parte della raccolta Vita dei Campi. La prima rappresentazione della versione per il teatro si tenne a Torino il 14 gennaio del 1884. Per ottenere i compensi dovuti lo scrittore dovette rivolgersi a dei legali che curassero i suoi interessi. Sulla scia del successo della mia trasposizione, Pietro Mascagni decise di creare dalla novella un melodramma, rappresentato per la prima volta a Roma il 17 maggio del 1890.

Nel frattempo, nel 1889, venne pubblicato il romanzo Mastro Don Gesualdo, presso l’editore Treves. Intorno alla casa editrice milanese si andava delineando il gusto letterario di fine Ottocento; infatti, sempre nel 1889 fu pubblicato anche il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio: Il piacere. Ecco che due poli diversissimi si trovano a contendersi l’attenzione del pubblico: da una parte la narrazione della realtà italiana attraverso uno sguardo oggettivo in cui l’autore e il narratore scompaiono a favore dei fatti raccontati, dall’altra la rivendicazione dell’eccezionalità del singolo all’interno della società massificata. Il lavoro di D’Annunzio attira l’attenzione della borghesia e vince la battaglia delle vendite. Mastro Don Gesualdo, comunque, riesce a vendere millecinquecento copie in pochi giorni. Evidentemente, le classi che leggono si indentificano meglio negli slanci d’dannunziani piuttosto che nelle dure denunce proposte da Verga.

Luigi Capuana e Giovanni Verga fanno una scelta non facile: raccontare la realtà, il mondo e l’Italia alla maniera dei naturalisti francesi.

 

LA NARRAZIONE REALISTICA

Voler raccontare il mondo in maniera fedele implica la scelta di rappresentare i fatti in modo verosimile.

Gli eventi realmente accaduti o che potrebbero accadere realmente sono il materiale per la costruzione di una narrazione realistica. I luoghi sono reali e non figurati; la collocazione temporale è ben definita e spesso si racconta usato i tempi verbali del passato. Il narratore non interviene nei fatti e non propone alcuna interpretazione. A fare da collante ai contenuti e ai modi vi è la forma: il linguaggio scelto deve essere coerente con il contesto rappresentato; ciò va tenuto bene in considerazione nell’uso del discorso diretto e indiretto, i modi dell’autore per riportare le parole dei personaggi.

Il narratore è nascosto ed esterno; anche la focalizzazione è esterna e gli eventi sembrano raccontarsi da sé. Tutto ciò è l’estremo opposto del narratore onnisciente che va a produrre un testo con focalizzazione zero, riuscendo a vedere ogni cosa e a imporre la sua presenza nell’interpretazione di personaggi e situazioni che vengono filtrati attraverso l’occhio di chi racconta, e che tutto sa.

Nella narrazione realistica si osserva e non si interpreta.

La rappresentazione del mondo tenendo conto della storicità e delle manifestazioni sociali ha radici profonde. Lo stesso Decamerone del Boccaccio ci fornisce un quadro della società mercantile e delle dinamiche relazionali ed economiche del tempo. Ma è nell’Ottocento che il realismo si afferma attraverso un fedele affresco della realtà, con metodologie peculiari. Da questa impostazione prende corpo la corrente letteraria del Naturalismo.

 

IL NATURALISMO

La corrente letteraria del Naturalismo cresce in seno al clima Positivista.

Il Positivismo era una tendenza di pensiero e azione che promuoveva una visione della conoscenza strettamente legata alla scienza e ai suoi progressi, con piena fiducia.

In ambito letterario, l’approccio che privilegia una visione sperimentale e oggettiva mostra le sue forme dall’opera di Gustave Flaubert, che parla di questo nuovo tipo di narratore il quale “Deve essere nella sua opera come Dio nella creazione”. Flaubert pubblica nel 1857 il romanzo Madame Bovary, ritraendo efficacemente la piccola borghesia francese attraverso lo sfacelo a cui vanno in contro le cieche e ridicole ambizioni della protagonista.

Il romanzo diventa il mezzo di una rappresentazione oggettiva, “fotografica” della realtà. L’arte si prefigge di essere lo specchio fedele del mondo, senza alcuna contaminazione da parte dell’autore. In tutto questo processo c’è la convinzione che si possa, in questo modo, dare un contributo al progresso dell’umanità.

I risultati della letteratura mirano a valori pratici, non prettamente etici o morali.

Il caposcuola fu Émile Zola (1840-1902). Il comportamento dei personaggi di Zola è determinato dal contesto: fisiologia e psicologia sono il prodotto dell’ambiente, del momento storico e dell’eredità sociale di un individuo.

Nel 1880, Zola pubblica il saggio Il romanzo sperimentale: il manifesto del Naturalismo. Secondo la visione espressa da Zola lo scrittore è un osservatore e uno sperimentatore. Chi redige un testo letterario non è più un interprete ma una sorta di scienziato che prende dei personaggi e li mette in un contesto a reagire con tutte le componenti sociali e ambientali. L’osservazione si completa con la sperimentazione che è l’applicazione di un “metodo” vero e proprio che possa permettere, poi, la registrazione dei fenomeni in modo impassibile. Le cause del comportamento sono viste come determinate in modo univoco. L’autore lascia “reagire” i suoi materiali umani e redige ciò che è riscontrabile in maniera oggettiva. Le riflessioni morali che possiamo trarre da questi testi non vengono accese dal lirismo, o dalla pietà di una scrittura che sia mossa dalla volontà di colpire i sentimenti o gli animi. Ciò che avviene nel lettore è un altro prodotto determinato dal contesto: dal nostro approccio a un testo e ad elementi con cui siamo messi a reagire. Spesso si parla dei testi del Naturalismo come di accuse morali; non vi sono accuse ma solo le fotografie di situazioni reali che hanno una loro voce autonoma, che riesce a ingenerare in noi riflessioni. Non siamo portati a pensare o ad avere pena o considerazioni perché l’autore ci propone un insegnamento (come ad esempio accade in Manzoni). Ciò che è reale è ciò che viene raccontato; ciò che viene raccontato è solo la realtà, di un esperimento fatto di cavie umane.

Il termine Naturalismo potrebbe trarre in inganno facendoci pensare che le trame raccontino la natura in senso stretto… in realtà, l’attenzione è in primis sulla società, che determina la natura umana.

La natura umana non è il soggetto primario e puro, in senso romantico, ma è un oggetto preso in esame attraverso un’analisi sperimentale.

 

IL VERISMO

Il rinnovamento dei meccanismi narrativi proposto dal Naturalismo viene ripreso in Italia da Luigi Capuana e Giovanni Verga. Sia nell’approccio francese che in quello italiano è riscontrabile il rifiuto del precedente romanzo storico, il quale celava un intellettuale di ceto agiato che mostrava un certo pietismo verso personaggi ed eventi; il tutto con il tocco evidente di un narratore che conosce ogni cosa… ma non la mostra in modo diretto scegliendo di filtrarla attraverso la propria onnisciente presenza.

In Italia vengono ripresi i mezzi dell’impersonalità e dell’oggettività. Verga, nella prefazione de L’amante di Gramigna, scrive che l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. È quindi evidente l’adesione ai temi della realtà, scegliendo di mettere il narratore al di fuori degli eventi raccontati. Mentre si diffondeva lo sguardo naturalista, l’Italia si avviava verso l’unificazione. L’unità della Penisola chiamava a una presunta accelerazione del progresso: in realtà le classi più umili vivevano ad una velocità assai lenta, come lenta appariva la crescita del loro benessere. Il contesto storico non può non giocare un ruolo nella traduzione italiana del Naturalismo, e ciò è coerente anche con i principi di quest’ultimo.

Come nel modello francese le opere letterarie vengono portate avanti con la volontà di non mostrare il processo di creazione. Ma cosa traspare se si confrontano le due modalità di narrare la realtà? Se si legge Verga è innegabile la presenza di un impegno morale, anche se non dichiarato. Lo scopo di una denuncia sociale traspare, in modo evidente. Rispetto ai romanzi francesi, che raccontavano di personaggi appartenenti alla borghesia su vari livelli, e di ambienti cittadini, il racconto realistico verista è lo specchio della realtà contemporanea ad autori e personaggi. Nel Verismo si prediligono gli ambienti regionali, piccoli e di campagna; anche perché era quella l’Italia di fine Ottocento.

Verga racconta la sua Sicilia con un forte pessimismo sociale fatto di riscatti mancati, di una condizione miserabile agghiacciante. Questo tipo di approccio stride con la fiducia positivista che permeava il Naturalismo. Se osserviamo i personaggi di Verga pare mancare totalmente la possibilità di un reale progresso individuale e sociale. Lo scrittore verista non fa lo scienziato perché non c’è effettivo distacco. Verga condivide lo stesso DNA e la stessa specie dei suoi soggetti… gli ambienti sono gli stessi, anche se le classi sociali di appartenenza sono differenti. L’autore mostra partecipazione… perché è, appunto, della stessa specie delle cavie messe ad agire nel loro ambiente per essere osservate.

 

IL VERISMO IN VERGA

L’attività giornalistica di Giovanni Verga lascia una profonda impronta nella sua scrittura: la parola tende all’oggettività e i pensieri e le parole dei personaggi vengono riportati fedelmente, senza epurazione. Le espressioni dialettali infestano testi che parlano da soli; però, la presenza dell’autore, come si è già osservato, non resta totalmente in disparte. La durezza dell’inchiesta sociale di Verga ha nel cuore i valori patriottici che si sentono feriti guardando a una popolazione che dopo l’unità non appare coesa, libera o migliore. Lo sguardo borghese dell’autore vede sfumati gli ideali di uguaglianza e progresso, e ne diventa il portavoce scegliendo di non abbellire o “romanzare” ma di riportare, descrivere, mostrare. Con un occhio puntato alla biografia di Verga, e l’altro sulla critica verso l’immobilità delle classi sociali e verso l’istituzione matrimoniale riscontrabile nelle sue opere, siamo obbligati a riunire i due punti focali. Molti elementi delle narrazioni dello scrittore sono gli stessi che hanno caratterizzato la sua esistenza, compreso il perenne senso di solitudine. A partire dalla geografia reale ed emozionale percorsa attraversando luoghi fisici e sociali che Verga ha realmente vissuto, e che hanno indubbiamente ingenerato in lui una compassione che non resta pietas pura e semplice… ma diventa denuncia. La visione di Verga è amara e non prospetta alcuna speranza. La sua ricerca non è asettica osservazione di contesti e “reazioni” ma è una fusione: lo scrittore entra nel parlato e nel mondo dei personaggi, nelle loro debolezze… e lo fa profondamente. Negli scritti di Verga, i ricordi dell’infanzia vengono passati attraverso il setaccio dei nuovi modi del narrare appresi negli ambienti letterari milanesi, diventando una cronaca che ha nel sangue versato anche il sangue dello stesso autore.

 

ROSSO MALPELO E ALTRE NOVELLE di Edizioni LA SPIGA

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

L’edizione presa in esame è datata 2013 ed è a cura di Moreno Giannattasio. Le illustrazioni sono di Marco Lorenzetti.

La nota introduttiva è una sorta di avvertimento su ciò che saremo portati a vivere: le novelle di Verga saranno le mani attraverso le quali vestire determinati panni e provare sentimenti segnati dalla fame, la rabbia e la paura. Vengono citati i demoni che siamo destinati a incontrare: la gelosia, la superstizione, la vendetta e l’avidità. Questa pagina di “benvenuto” non manca di far notare come saremo costretti ad ascoltare e imparare una nuova lingua, che è quella dei personaggi. Il libro promette, però, di portarci per mano… e questo si può avvertire nell’estrema cura di ogni dettaglio. Il pensiero finale, prima della lettura del materiale vero e proprio, è una riflessione sul grande valore della buona scrittura, quella che nutre la conoscenza.

Il volume prende Rosso Malpelo, La lupa e Jeli il Pastore dalla raccolta Vita dei Campi; La Roba e La libertà dalla raccolta Novelle Rusticane.

Rosso Malpelo è il duro racconto della terrificante realtà del lavoro minorile. I temi della condizione sociale italiana post-unitaria e della bestialità umana, tanto cari a Verga, sono i cardini dove si regge lo scricchiolante portone di una storia che non conosce il senso della casa e del conforto. Malpelo è una creatura nata con un destino segnato: è rosso di capelli e quello determina il suo nome e la sua natura. Il narratore non riflette sulla veridicità della pessima considerazione che la gente ha del protagonista, Verga riporta i fatti come vengono visti dai personaggi. L’incipit è noto ed esemplificativo:

“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che promettere di riuscire un fior di birbone.”

 Il ragazzo non ha mai conosciuto amore e delicatezza, è nato tra la polvere della miniera… e il tocco del padre è il solo, breve, gesto gentile mai sentito dalle sporche carni di Malpelo. Il genitore è Mastro Misciu Bestia: sì, una “bestia”. Nelle storie raccontate da Verga gli umili sono cani rabbiosi e muli da soma e asini da prendere a calci. Gli animali sono gli unici interlocutori che sembrano dialogare sinceramente con i protagonisti umani, ma sono anche l’oggetto della violenza di quell’umanità schiacciata dalla vita. La sorte del padre di Malpelo segna la vita e il carattere del ragazzo ancora di più… da quel momento non ci sarà che violenza, una violenza che è anche il solo mezzo attraverso il quale Malpelo riesce a mostrare tutti i suoi sentimenti, anche quelli migliori. Il ragazzo ha una costituzione forte e una prestanza fisica che paiono più simili all’animale da lavoro che all’uomo; tutta questa forza trae origine da una rabbia che è un urlo di rifiuto verso la vita stessa, e questo si capirà alla fine di questa triste vicenda. Gli unici esseri viventi che sembrano meritare un minimo di tenerezza da parte di Malpelo sono un povero asino grigio e un ragazzo gracile e zoppo chiamato Ranocchio; entrambi assaggeranno la cura del protagonista… fatta di calci e botte e male parole. Malpelo conosce solo la violenza e pensa che soffrire sia una sorta di vaccino alla vita: lo ripete a Ranocchio e lo pensa mentre fa stramazzare a terra gli asini della miniera a forza di angherie.

Malpelo riesce a guadagnarsi il nostro sgomento e il nostro odio… e qui sta la magnificenza della scrittura di Verga. Leggendo questa novella ci si trova davanti a un disprezzo della vita che forse ci fa riuscire a guardare le stelle con uno spirito diverso. Una creatura della miniera guarda al cielo come a un estraneo… la luce non è contemplata nella vita di Malpelo e degli operai del sottosuolo. I cani rosicchiano le carni putrescenti di un asino morto, una madre piangerà un povero figlio vinto dalla malattia… Malpelo osserva e non avverte speranza alcuna. La rabbia è il veleno più insidioso dell’esistenza.

La Lupa è una storia di donne, ma non è la vicenda di femmine ispiratrici e combattive o pure. La novella è contesa da una donna che è una bestia selvatica avvinta dal fuoco degli istinti incontrollati, e da una giovane che si piega all’unico altro destino che sembra toccare a un personaggio femminile. Una è una poco di buono e l’altra sarà solo una moglie che sforna figli e inghiotte rospi amari.

Le due donne sono madre e figlia… e nel mezzo? Nel mezzo il pezzo di carne che la Lupa vuole spolpare: Nanni.

Nanni è un giovane che pare riunire in sé le virtù dell’uomo ligio, e grande lavoratore. Il giovanotto vuole prender moglie e la vuole graziosa, pacata… e ne avrà una, e avrà tanti figli; come è deciso che sia, sempre.

Nanni cerca di resistere alla tentazione proveniente da neri capelli e seni brucianti, da una bestia che schiuma di voglie sommesse, su un pagliericcio messo a terra. Nanni cederà? Cosa può diventare l’uomo che cede agli istinti e si scontra contro il sottile vetro che separa onore e dovere e desideri e istinti bestiali?

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Lupa, Edizioni La Spiga, 2013

La roba è una storia che non è fatta di azione ma di elenchi. Veniamo accompagnati attraverso territori bellissimi e fecondi… ma non riusciamo a godere di bellezze e profumi, iniziamo solo a sentire il peso del lavoro, dell’avarizia, della vita senza godimento… e ancora di lavoro e di sacchi di grano infiniti. Questa novella è la storia di Mazzarò, e Mazzarò non ha una storia vera e propria o una vita: quest’uomo è la sua roba. Gli elenchi delle terre e dei beni sono la pelle, le braccia e il sangue di Mazzarò. Potremmo pensare che un onorevole lavoro ben ripagato sia un ottimo esempio da raccontare: niente di più sbagliato. La storia di Mazzarò è fatta sì di lavoro ma anche di furberie, di prevaricazione e mania. Se la vita di un uomo diventa soppesabile non nello spirito e nelle gioie ma solo nei numeri e nei pesi stilati in un elenco… cosa succede quando quell’uomo muore? Se Mazzarò è la sua roba e la roba pare essere solo di Mazzarò… cosa resta? La roba che valore ha per voi? Questa novella è un modo per riflettere su cosa sia il benessere, il progresso e il riscatto.

La libertà è la versione romanzata di fatti realmente accaduti. Nell’agosto del 1860 ci furono delle lotte sanguinose presso Bronte; il problema dello sfruttamento delle terre demaniali avevano fatto “imbestialire” il popolo che si scagliò ferocemente sui galantuomini, ma anche su donne e bambini. Chiunque non fosse della stessa umile razza dei rivoltosi veniva ucciso a colpi di ascia, per schiacciamento… veniva massacrato come nel giorno in cui si uccidevano i maiali.

Il Comitato di guerra creato da Garibaldi inviò a Bronte un battaglione di Garibaldini guidati dal generale Nino Bixio. 150 persone furono giudicate nel giro di poche ore e cinque persone furono condannate a morte. Tra i giustiziati anche due innocenti: il pazzo del paese e un uomo che aveva avuto la colpa di essere stato nominato dai rivoltosi come possibile sindaco; quest’ultimo era un avvocato (un altro galantuomo ucciso, però, dalla giustizia). Bixio si piegò al suo dovere provando fastidio, fatica e disprezzo; in una lettera inviata alla moglie scrisse:

“Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili!”

In questa novella la libertà non solo non appare possibile, dato che quando si calmarono le acque tutti gli umili si sentirono persi senza i galantuomini, ma non è nemmeno adatta a quegli ignoranti che conoscono solo soprusi, privazioni e odio, subiti e gentilmente restituiti. L’ignoranza è ciò che rende l’uomo della terra incapace di comprendere e riscattarsi.

Proprio l’ignoranza è una delle “virtù” del protagonista dell’ultima novella Jeli il pastore. La scelta di inserire per ultima questa storia è davvero intelligente. Jeli racchiude nella sua vicenda personale tutte le miserie e le sferzate della vita come la racconta Verga. L’incapacità di emanciparsi davvero dalla propria, e miserabile, condizione… le falsità e i dolori che caratterizzano l’istituzione matrimoniale; neanche l’amicizia, che inizialmente sembra rischiarare questa novella, riesce in alcuna missione, anzi. L’ignoranza di Jeli e il suo animo fondamentalmente buono si riassumono in un foglietto che il pastorello porta con sé: quel foglio ha sopra il nome “Marta”; la scrittura non è, ovviamente, di Jeli. Il protagonista comprende più le sue bestie che gli altri suoi simili, anche perché i suoi simili sono diversi da ciò che la loro natura li chiamerebbe a essere. Ma dopotutto cos’è l’uomo? Forse la vera umanità non sta nel non cedere alle tentazioni e nel non incontrare i “cattivi” sentimenti; forse l’umanità sta nell’accettare il lato bestiale: comprenderlo e saperlo gestire. In fine, l’umanità animale di Verga si consuma nello sfacelo perché non sa chi è, non conosce altro che il lavoro e la fatica… le braccia e la testa e il cuore non hanno un qualcosa che li possa conciliare e armonizzare.

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Libertà, Edizioni La Spiga, 2013

Alla fine del volume ci sono degli apparati molto interessanti, rari da trovare in un’edizione per adulti. Ciò che è estremamente apprezzabile delle versioni didattiche è la missione di informare su autore e contesto storico in modo semplice, diretto e pertinente. Forse un giorno si smetterà di pensare che gli adulti non hanno bisogno di essere formati ma solo imboccati di nozioni.

Devo dire che sono ben felice di aver acquistato questo libro. Se volete leggerlo anche voi potete approfittare della mia AFFILIAZIONE AMAZON, e acquistare cliccando QUI: si aprirà la pagina Amazon del prodotto, e se sceglierete di prenderlo con voi il blog potrà avere la possibilità di avere una piccola percentuale, da reinvestire in tanti altri libri sui quali discorrere insieme. Buona Lettura!