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mercoledì 16 settembre 2020

IL TRAGHETTATORE di William Peter Blatty

DAL CREATORE DE L'ESORCISTA 

UNA STORIA DI FANTASMI, UNA RIFLESSIONE SULL'ESSENZA DELLA MORTE

Ph. Francesca Lucidi
Ed. FAZI EDITORE 

CENNI BIOGRAFICI: VITA E CARRIERA DI WILLIAM PETER BLATTY

William Peter Blatty nasce il 7 gennaio del 1928 a New York City. È il quinto figlio di un’umile famiglia di immigrati libanesi. Sua madre Mary, fervente cattolica, si guadagna da vivere vendendo gelatine di frutta tra le strade di Manhattan.

A causa delle gravi condizioni economiche, la famiglia cambia spesso dimora, tra uno sfratto e l’altro.

William, grazie a una borsa di studio, frequenta la Scuola Preparatoria gesuita di Brooklyn. In seguito, inizia gli studi presso la Georgetown University; ottiene questa possibilità sempre tramite una borsa di studio. William si laurea in inglese nel 1950.

Gli studi continuano alla Georgetown, dove si iscrive a un Master in letteratura. Durante questo periodo si mantiene con i lavori più disparati; si ritrova anche a vendere aspirapolveri porta a porta.

Ottenuto il Master, William si arruola nell’Aeronautica Militare; in seguito si unisce all’USIA (United States Information Agency), un’agenzia di diplomazia pubblica.

Inizia a collaborare con diverse riveste, e a scrivere articoli umoristici.

Lavora come direttore delle pubbliche relazioni per la Loyola University di Los Angeles, e con mansione simile, in ambito comunicazione e pubblicità, per l’Università della California Meridionale.

Pubblica il primo libro nel 1960, Where way to Mecca, in cui parla del suo lavoro presso l’USIA anche in toni umoristici.

Nel 1961 vince diecimila dollari nello show di Groucho Marx You Bet Your Life. La vincita gli permette di dedicarsi completamente alla scrittura, non mantenendo altri lavori in modo stabile.

Inizia a scrivere fumetti che vengono apprezzati pur non raggiungendo un numero alto di vendite.

Cruciale è la collaborazione con il regista Blake Edwards: la prima sceneggiatura di successo è Uno sparo nel buio, il cui protagonista è Peter Sellers.

Negli anni Quaranta Blatty rimase particolarmente colpito da un oscuro fatto di cronaca inusuale: l’esorcismo di un quattordicenne del Maryland. La Chiesa impose il silenzio per paura di ripercussioni mediatiche e per evitare accuse di superstizione o arretratezza culturale. La storia permane nell’immaginario di Blatty e fornisce l’ispirazione per il suo grande successo letterario: L’esorcista. Siamo nel 1971, e il libro suscita un enorme scalpore. Il successo del romanzo porta alla versione cinematografica del 1973, con Blatty in veste di produttore e sceneggiatore, la regia è affidata a William Friedkin. La pellicola vince due Premi Oscar, su dieci candidature.

Il romanzo Legion, del 1983, è l’unico seguito ufficiale del romanzo del 1971; ne viene tratto un film dal titolo L’Esorcista III, nome scelto per riallacciarsi al precedente L’Esorcista II. La decisione viene presa dai produttori per creare una continuità. Blatty, dal canto suo, non ha però apprezzato il secondo capitolo della saga, che non ha ottenuto neanche un particolare successo.

Nel corso della sua vita, lo scrittore produce circa tredici romanzi; tra i quali troviamo Il Traghettatore, edito nel 2009.

William Peter Blatty muore il 12 gennaio del 2017 a 89 anni, nel Maryland.

 

IL TRAGHETTATORE

L’edizione presa in esame è edita dalla Fazi Editore e risale al 2012. La traduzione è di Cristiano Peddis.

Il romanzo è abbastanza breve, è forte, maschile e “americano”. La vita quotidiana raccontata è circondata di imprecazioni, arrivismo e appartamenti affacciati sul vuoto esistenziale e sul paesaggio brulicante o immobile, portatore di speranza o perdizione di Manhattan. La storia è horror, di un horror sovrannaturale ma anche tremendamente radicato nella vita reale. Una storia di fantasmi apparentemente nei canoni. La maggioranza dei personaggi ha tratti rudi e capricciosi; la restante umanità, meno insopportabile, è fatta da una manciata di presenze più pacate ma inquietanti.

Il tutto presenta diversi rimandi alla biografia dell’autore.

In questa storia si parla di morte e vita. Il terrore è mitigato da fiumi di alcol e da punti di vista cinici… a un certo punto si passa da una storia a tratti fastidiosa a una dimensione di tensione che non riesce ad affievolirsi neanche grazie all’umorismo martellante, sboccato e spregiudicato dell’autore.

TRAMA

New York, 1993 (circa). Joan Freeboard è un’agente immobiliare di successo.

Joan vive da sola, se non si contano due domestici che la donna tratta con rispetto e gentilezza, quasi con dolcezza; la cosa non è di poco conto contando che Joan è un’affarista senza scrupoli che vive secondo il motto “farcela o morire”.

Elsewhere è una vecchia e grande casa, situata su un’isola poco lontana da Manhattan. La magione è risalente agli anni Trenta, è bagnata dalle acque del fiume Hudson e, soprattutto, promette grossi guadagni… qualora Joan riuscisse a piazzarla. Il problema è che la casa ha una pessima fama, non per problemi strutturali.

La sfida di Elsewhere è la più grande prova della carriera di Joan. L’agente immobiliare è abituata a non lasciare nulla al caso, e di certo non è avvezza alla rinuncia, specie se si tratta di una grossa somma di denaro. Joan, ripetiamo, non lascia nulla al caso: una festa organizzata per venerdì, invitati importanti, specialmente uno. Lei è disposta a tutto pur di smascherare delle sciocche credenze che possano mettersi tra lei e una vendita.

Sono anni che non succede nulla in quella casa.

La casa fu costruita da un medico, uno psichiatra, il dottor Edward Quandt. L’erede Paul Quandt e la sua famiglia vagano in Europa in attesa di vendere la proprietà dalla fama sinistra. La storia di Elsewhere è macchiata da un omicidio e un suicidio, così dicono le voci. Il vecchio padrone era un uomo geloso: la moglie Riga, una zingara originaria della Romania pare alimentasse sospetti di adulterio.

La storia della casa viene raccontata a pezzi: prima un dossier tra le mani di Joan, poi due racconti sparsi nel corso della narrazione.

Joan. Sì Joan vuole andare a segno… nonostante uno strano sogno che ha la forma di una angelo di luce senza volto: vongole, piatto del giorno… parole sconnesse che la donna non vuole ricondurre a un avvertimento che sembra collegato all’affare di Elsewhere. L’agente immobiliare, però, ha un piano.

Ma “NON TUTTE LE EPIFANIE HANNO ORIGINE NELLA GRAZIA”.

Img Pixabay. Edited

Il piano sembra perfetto: un rapporto sessuale concesso di fretta, una bugia qua e una bugia là.

Alla fine, la donna riesce anche a vedere, da sola, con i suoi occhi Elsewhere. Quando si reca sull’isola il posto sembra bello e nessuno, fortunatamente, sembra fissarla dalla finestra. Il salone si mostra accogliente, una volta tolti i teli dai mobili.

Ecco che la squadra è decisa: Joan, la famosa sensitiva inglese Anna Trawley; lo psicologo esperto del paranormale Gabriel Case, dell’Università di New York; il migliore amico di Joan, il famoso scrittore Terry Dare. Tutti devono svolgere un ruolo, non totalmente consapevole, per permettere all’agente immobiliare di far “certificare” la totale normalità di Elsewhere.

Anna Trawley riflette nella sua adorabile casetta, mentre Joan fatica a convincere il capriccioso amico scrittore. Dare è un personaggio infantile, capriccioso, benestante. Un gay dai modi eccessivi che ama follemente i suoi due cagnolini. Dipinge e si fascia di abiti sportivi alla moda mentre si fregia del suo convinto motto “IO SONO TUTTO UN DUBBIO”. La reticenza di Dare è semplice pigrizia o un oscuro timore già affligge i protagonisti della storia? Dare è in un periodo in cui ha smesso di scrivere, anche se i suoi romanzi gotici sono assai famosi. Romanzi inquietanti scritti da un tipo tutto eccessi e capricci, e dubbio: bizzarro!

Tutti i componenti della spedizione vengono reclutati, salgono su un’imbarcazione denominata “Lungo Viaggio” e, nonostante una tempesta terrificante, raggiungono Elsewhere. In realtà il professor Case non si imbarca con loro perché li ha preceduti per montare le apparecchiature.

Tutto sembra presagire giorni di pizza, alcolici e conversazioni. In realtà, da subito le cose sembrano mostrare falle, déjà vu. Case li accoglie come ci si sarebbe aspettati, ed è seduto al pianoforte. Sul caminetto un dipinto che attira l’attenzione. Due visi a confronto e domande che soffocano dietro l’incredulità e il materialismo dell’americano di successo che pensa solo alle cose concrete, che si contano e possono comprare cose.

L’inizio della convivenza si consuma tra l’insofferenza di Joan, i dialoghi pacati tra la Trawley e Case. In tutto questo dovrebbe sentirsi lo sgambettare dei cagnolini che Dare non avrebbe mai lasciato. Dovremmo fare attenzione ai loro segnali canini.

Case diventa il fulcro della storia, un personaggio che si sposta da una parte all’altra quasi fluttuando: getta ammiccamenti, ascolta, dona spiegazioni e filosofia… tutto quello che ci si potrebbe aspettare da uno psicologo interessato ad altre “dimensioni”.

Joan e Dare litigano in continuazione, le parolacce fanno capolino tra una riga e l’altra e si prova una certa insofferenza tra i modi di fare inquieti e vuoti della coppia di amici. Strano modo di dimostrarsi affetto quello di promettersi morte e mutilazioni.

In ogni storia di infestazioni c’è sempre una persona che riesce per prima a captare qualcosa. Qui c’è una sensitiva, e una cripta misteriosa abitata da una scultura poco confortante. In realtà, le prove inizieranno a manifestarsi attraverso “il DUBBIO”, la personificazione del dubbio: Dare.

A metà del romanzo, il fastidio per una storia dell’orrore che sembra solo il documento della normalità vuota dell’essere umano medio lascia spazio a qualcosa che inizia davvero a far paura. Le storie intorno ad Elsewhere sono tante e le “vittime” della casa altrettante. Tra un bicchiere di scotch e un Martini si parla di suore, di pazzia.

Img Pixabay. Edited

Due preti gesuiti, una reminiscenza.

E… Dare ha portato i cagnolini? Che domanda sciocca!

Un guaito si sentirà forte e chiaro, ma crescente… poi rabbioso.

Qualcuno avrà la pelle che brucia in modo innaturale ma così “vero”; altri mostrano strane petecchie sul collo; altri ancora cicatrici.

Quando si iniziano a ricollegare tanti fili rossi, persi nel racconto di vite fastidiose e vuote, ci si accorge che il tempo e lo spazio nascondono molti più inquilini della spedizione organizzata da Joan.

Buon “Lungo viaggio”.

Il finale farà tirare un sospiro, di pace? Di sollievo? O forse di rassegnazione verso qualcosa di implacabile che non può che ripetersi. Forse tutte queste eventualità si sommeranno, sta al lettore scoprirlo.

ANALISI E CONSIDERAZIONI

La narrazione viene svolta da un narratore esterno, onnisciente, verrebbe da dire onnipotente se si volesse ricalcare l’umorismo ammiccante e tosto dell’autore.

Parlare di tempo della storia e tempo del racconto è, per questo romanzo, assolutamente fuori luogo.

Lo stile è freddo, i personaggi sono pressoché antipatici. Tutto potrebbe osteggiare un legame empatico e foraggiare un senso di fastidio nella lettura. In realtà, tutto ha un senso se si presta attenzione, molta attenzione. L'autore regala anche inaspettati momenti di dolcezza, umanità e profonda sensibilità: solo sprazzi, solo altre deviazioni; forse visioni sfuggenti della verità sottesa, del senso finale della storia. Sono ipotesi, le mie sono solo ipotesi. 

L’autore si diverte a distrarre il lettore rendendolo simile a quegli esseri umani presi dalle cose da fare, che non credono in nulla e sono frettolosi, pieni di pretese… il più delle volte insoddisfatte perché vacue.

È poco funzionale cercare di affezionarsi a qualcosa di corporeo in una storia di fantasmi. Le nostre emozioni vengono “traghettate” continuamente, quasi senza una meta. Le bussole? Innanzitutto, una piccola conoscenza della biografia dell’autore, per apprezzare i riferimenti alla dura infanzia di Joan e la scelta di far entrare nella storia dei preti gesuiti.

Anche l’ambientazione metropolitana rievoca ciò che l’autore deve aver visto per tutta una vita. La stessa professione di scrittore viene posta sotto la lente e criticata, quasi sminuita e ridicolizzata attraverso il personaggio di Dare. I personaggi sono persone che hanno perso la facoltà di essere felici, davvero in pace. I cuori sono spezzati e nascosti sotto strati di silenzi o battute sboccate.

La seconda via d’uscita dal vagare è posta in mezzo al romanzo, parrebbe solo per dare un tono al parlare del professor Case. Lo psicologo si trova a conversare con la sensitiva mentre prendono il tea e si confidano le rispettive disgrazie, anche se il modo di fare accondiscendente di Case pare sempre sospendere e sottintendere qualcosa. L’uomo parla di alcuni studi sui fantasmi: niente inferno e paradiso ma entità quasi perse, inquiete; capaci di mentire, a detta della Trawley. Dopo la morte ci si potrebbe trovare tutti in uno stesso posto, forse senza percepirsi a vicenda, passando questa esistenza eterna secondo parametri soggettivi, percettivi. Inferno e paradiso non sarebbero luoghi o mete ma quasi proiezioni dell’inconscio di un vivo che si trova morto e, dopo la morte, cerca ancora, disperatamente, di essere felice. Il libro OLTRE IL MURO: COMUNICAZIONI ELETTRONICHE CON I MORTI, riporta la risposta di un’entità alla domanda “Quale è lo scopo della vostra esistenza attuale?”. Il presunto fantasma risponde: “Imparare a essere felici”.


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Che senso ha, allora, scrivere un libro pieno di personaggi antipatici? La risposta non viene dalla scelta del genere horror ma dallo studio profondo della felicità personale, nella sua mancanza, nel suo attaccarsi a “giocattoli” disorientanti, annebbianti. L’autore parla di vuoti, di anime che vanno esorcizzate estirpando il demone dell’assenza di desiderio puro, di spessore, di reale percezione di sé stessi e della vita. Se non si riesce a cogliere l’essenza della vita… come si può…

Le parolacce abbonano, l’umorismo e il “colore” anche. La formazione fumettistica di Blatty fa capolino, ogni tanto. C’è anche un discorso complesso intorno alla fede, alla redenzione e alla presunzione delle etichette di bene e male, cattivo e buono. La morte viene presentata come una condizione assolutamente democratica, comunista. La vita, però, reclama il suo senso nel momento in cui la si abbandona. Non tutto ciò che non si vede è cattivo, spaventoso; non tutto ciò che è materiale e visibile è reale nel senso più nobile del termine.

Alcune minacce di morte si trasformeranno in un abbraccio disperato. Vivere è un lungo viaggio, la morte è una destinazione che dipende da un atto di volontà che, se fatto tardi, fa perdere.

Se si ricongiungono tutte le trame tessute da un esperto di pubbliche relazioni divenuto scrittore di demoni ed esorcismi… si può apprezzare un romanzo forte che si presenta, a una prima lettura, solo per qualcosa che sfugge, come il senso della vita e della morte; di inferno e paradiso.

 Il complesso è intrattenimento ma anche riflessione verso i più grandi significati e le più ingombranti incognite della nostra esistenza. 

 

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Grazie e buona lettura!

venerdì 4 settembre 2020

LUCERTOLA di BANANA YOSHIMOTO

 

CHI È BANANA YOSHIMOTO


Mahoko Yoshimoto nasce a Tokyo il 24 luglio del 1964. Suo padre, Takaaki Yoshimoto (noto con il nome Ryumei Yoshimoto), fu un importante critico e filosofo nipponico. La sorella di Mahoko è Haruno Yoiko, una famosa disegnatrice di manga.

Lo pseudonimo Banana viene alla mente della scrittrice durante l’università: “carino”, “androgino”… nomignolo assai adatto a una scrittrice delicata ma forte, buffa ma attenta e abile a diventare la voce di uomini e donne. Uno pseudonimo volutamente androgino è assolutamente perfetto per chi racconta le storie di tutti. E lo sa fare molto bene.

Banana studia arte all’Università di Nihon, e si specializza in letteratura.

Nel 1987 Inizia a lavorare per un golf club; intanto scrive, e dà alla luce il suo primo libro, Kitchen, l’anno successivo. Il libro riscuote grande successo e diventa anche materiale per piccolo e grande schermo, prima in Giappone e poi ad Hong Kong.

La produzione della scrittrice è viva e ricca. Banana si dedica ogni sera alla scrittura e vive questa sua professione con la naturalezza inquieta tipica dell’animo contemporaneo giapponese.

Si sposa con il musicista Hiroyoshi Tahata.  Nel 2003 dà alla luce suo figlio Manachinko.

Banana conosce bene l’Italia, ammira profondamente Dario Argento… e nei suoi romanzi si rivolge amorevolmente al Bel Paese nei piccoli spazi di conversazione dei POSTSCRIPTUM.

L’Italia viene definita come un luogo di bellezza, e fa strano leggere tanti ringraziamenti sinceri da parte di una scrittrice così famosa, e “lontana”. Banana è così: al livello di tutti, perché tutti siamo interdipendenti (sono parole sue, ed io concordo).

Una scrittrice riservata, essenzialeoriginale… bizzarra, coraggiosa, consapevole. Banana è una medicina per l’anima perché non fa finta che va tutto bene: con lei si guarda in faccia all’inferno… sapendo che dall’altra parte esiste un paradiso. Ci si tiene in equilibrio, imparando a camminare anche su terreni accidentati, con un peso sulle spalle.

Banana racconta Tokyo, ma anche la vita e la quotidianità che in tutti i posti del mondo si manifestano in esperienze contrastanti: gioie e dolori, separazioni e unioni profonde, cadute ripide e rinascite.


LUCERTOLA

INTRODUZIONE: CONTESTO, STILE E ANALISI

Ph. Francesca Lucidi

Uscito nel 1993 e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995, Lucertola è una raccolta contenente sei racconti: GIOVANI SPOSI, LUCERTOLA (da cui prende nome l’intero libro), SPIRALE, SOGNO CON KIMCHEE, SANGUE E ACQUA, STRANA STORIA SULLA SPONDA DEL FIUME.

I punti di vista sono interni: i personaggi novellano, ricordano. I dialoghi danno vivacità a spaccati di vita brevi ed efficaci, indipendenti ma parte dell’ampio discorso sulla vita che caratterizza questa come le altre opere della scrittrice. 

I racconti sono storie di uomini e donne, di coppie e relazioni… che trapassano la norma, i generi, e le etichette. Il tutto diviene ancor più forte perché vien fuori da una società giapponese ambivalente: così intrisa di tradizioni e convenzioni, credenze, ma anche così impregnata di piccole rivoluzioni, inquietudini e stranezze

Img Pixabay, edited

Tokyo fa da sfondo, insieme ad altre località che sanno di magico. La metropoli assume, però, il ruolo di personaggio a sé stante: è il luogo dove tante vite si intrecciano inconsapevolmente, un posto dove il caso rimescola carte ed energie in un tutto disarmonico che ha una tipicità che Banana Yoshimoto sa vedere e narrare. Il Giappone è presente in ogni gesto, anche nel lessico nel quale campeggiano una serie di tipici termini che raccontano storie e abitudini; un glossario finale è la guida ideale per questo viaggio nella cultura nipponica, che riesce però ad ampliarsi nell’opposto movimento dello stringersi negli animi e nei cuori dei protagonisti. Occhi che assumo una vita quasi indipendente dal viso che li ospita, capelli che cambiano a seconda delle età e delle personalità… sorrisi che parlano in una compostezza tipicamente giapponese. Anche il movimento di un cappotto riesce a determinare un carattere, una persona.

Attraverso questi racconti, Banana Yoshimoto parla di tutto ciò che l’universo umano ed energetico contiene: vita, morte, amore e corporalità, salute e malattia (anche e soprattutto interiore); incontro e scontro, disillusione e ferite, assenza di speranza e rinascita. Nel corso delle narrazioni si ritrova la caoticità di Tokyo, così occidentale, così presa dal fascino delle cose dell’altra parte del mondo. Una calma di gesti e abitudini che si rifugia troppo spesso nell’alcol, e negli eccessi, riesce a far emergere i pensieri dei personaggi in modo semplice. Banana è abilissima nel parlare delle cose più difficili, semplicemente dando voce alla gente, e alle esperienze di vita più disparate. Gli individui che guardiamo in questi racconti sembrano familiari: l’empatia risulta agevole perché, anche se una vena di magia attraversa ogni cosa, tutto è assolutamente quotidiano nella sua imperfezione, nelle paure e anche nei comportamenti fuori dalla norma che possono raccontare di tradimenti, di sesso, di rapporti carnali di gruppo o relazioni extraconiugali. Bisogna però sapere che Banana è una scrittrice educata, pacata, riflessiva: anche se si parla di eccessi non si arriva mai sulla sponda dello shock. Tutto è sempre accennato, dolce anche nell’amarezza; il modo di raccontare è intriso di profonda cura e rispetto.

L’epopea intima e metropolitana di Yoshimoto è moderna, ma anche filosofica e ancestrale. Ho citato l’energia: sì, le energie sono un elemento importante di molte delle credenze e dei modi di fare e pensare orientali. Ogni personaggio è il prodotto delle proprie radici, anche se spesso nasce discostato dall’albero principale per germogliare in un tronco esile che si affaccia al mondo cercando di capire come adattarsi all’habitat che lo accoglie. Le radici sono la famiglia, elemento presente in ogni racconto sotto forme diverse. Ogni personaggio si trova a ripercorrere la ferite passate, i segreti familiari, i vuoti disorientanti che hanno causato diverse corse nel nulla alla ricerca di quel senso di appartenenza che, però, a suo modo arriva. L’autrice ha un romanticismo tutto suo: si guarda ai rapporti con senso critico, con sincerità… non c’è la fiaba ma c’è la forza prorompente della liberazione, che può avvenire solo dopo lo scontro e nello scorrere. Le energie universali non sono mai immobili, e il nostro corpo fa parte di un flusso che potrebbe essere percepito se ogni cosa viene vista come “processo”.

«Non si tratta di scegliere quale è buona o cattiva, giusta o sbagliata, ma di riconoscere che le idee di inferno e paradiso prendono forma nel corso di un processo ininterrotto che chiamiamo “io”. È soprattutto questo processo ininterrotto che qui mi interessava descrivere.»

(Banana Yoshimoto dal POSTSCRIPTUM a Lucertola)

Ogni storia è intrisa di piccoli oggetti, di rituali, e di metafore che non sono aeree ma materializzate in cose semplici come una zuppa, un fiume, la voglia di un espresso da bere fuori casa.

La trasformazione è il vento che attraversa ogni pagina della raccolta. Nessuno, però, resta fermo. I personaggi sono persone fatte di segreti, cicatrici e insicurezze… ma riescono a passare all’azione perché ognuno di noi è parte del destino cosmico.

La via di un famoso tempio di notte è deserta e fa quasi paura… al mattino i colori si accendono e il profumo di cose buone avvolge l’aria. Ognuno di noi è solo: la solitudine è l’altra entità misteriosa che guarda i personaggi, come fa Tokyo. Ma l’oscurità si alterna alla luce, la morte è intesa come “vita futura”. Il nostro tempio personale non è una fotografia immobile ma un luogo vivo che si riposa o si adombra; può far paura… ma è popolato di tante cose oltre noi. Siamo abitati dal nostro passato, dalle nostre esperienze, dal nostro retaggio. Ma capendo che siamo soli non dobbiamo credere che tutto ruoti intorno a noi, siamo noi a ruotare e cambiare verso la nostra “naturale destinazione”, in “interdipendenza” con persone… palazzi, monti e forze invisibili e visibili.

Tra queste storie senti addosso i gesti preparatori al rituale del bagno, impari che i giapponesi non sono soliti urlare… che le donne imparano a ridere con la mano davanti alla bocca. Certo, però, molti personaggi escono dalle regole. C'è sorpresa e scoperta, ovunque.

Imgs Pixabay, edited

Un foroshiki[1] può contenere l’idea della casa e della famiglia, come anche delle verdure, e un segreto. Un involucro non è solo un oggetto… qui tutto parla e racconta in una sintesi piacevole che avvolge la solitudine del lettore per profumarla di speranza; sembra quasi di avvertire, qui con me, un sentore dolce di obanyaki[2].


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Grazie e buona lettura!

 



[1] Furoshiki: quadrato di tessuto, generalmente di seta dai colori vivaci, usato per avvolgere oggetti. I quattro capi sono annodati in modo da rendere agevole il trasporto. (Dal Glossario a fine volume).

[2] Obanyaki: focacce dolci farcite di marmellata di fagioli azuki, prima cotte al vapore e quindi arrostite su una piastra. (Dal Glossario a fine volume).

domenica 23 agosto 2020

IL GATTO NERO DI EDGAR ALLAN POE

ANALISI DEL RACCONTO ORIGINALE 
E
 PRESENTAZIONE DELLA VERSIONE GRAFICA 
DI 
NINO CAMMARATA 
PER 
NPE EDIZIONI 

Ph. Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Edgar Allan Poe pubblica il racconto Il gatto nero nel 1843.

Poche pagine, infinite sfaccettature della mente e dell'animo umano, follia o lucida malvagità, orrori interiori che esplodono in comportamenti violenti. Una coscienza deformata, un rimorso mutilato… demoni che non sono mitologia ma realtà. La prospettiva di Poe è quella di un analista dei lati oscuri: non vi è in questo perversione o sensazionalismo ma metodico scandagliare. I racconti dello scrittore appaiono così asfissianti perché mettono a nudo le inconfessate pericolosità insite in ognuno, le perversioni, il lato predatorio che la società cerca di reprimere senza comprendere; l’altra faccia di una mela che mostra una lucida superficie da davanti e dietro nasconde un piccolo buco nero, che può espandersi e far marcire ogni cosa…  quel buco è la putrescenza potenziale di ogni essere umano. Abbiamo più paura della morte, e dei racconti di morte, che delle infinite declinazioni che offrono il libero arbitrio e le scelte alle quali la vita invita in ogni singolo istante. La domanda importante è “come potremmo morire?” o “come potremmo vivere?”.

I racconti di Poe sembrano reclamare un diritto di cronaca sulle mostruosità messe “sotto chiave”, quelle che nelle profondità covano e si riproducono. Abbiamo paura del nostro simile e invece di cercare l’autocoscienza e la coscienza sociale ci si chiude in illusorie immagini immobili fatte di convenzioni, saluti cortesi o di forconi e forche: sì, quelle erette con molta facilità e scarsa comprensione e responsabilità.

 Il “vicino” ci fa paura… ma chi non ricorda la famosa frase “salutava sempre” che accompagna sempre le rocambolesche interviste post tragedia inaspettata?

Nel 1995, grazie allo psicologo e giornalista David Goleman prorompe l’espressione “intelligenza emotiva”. Questo concetto era già stato espresso in precedenza con diverse terminologie o riflessioni… ma il fatto che nel decennio della grande rivoluzione tecnologica e mediatica queste due parole diventino famose è assai importante. Spesso si parla di QI, quoziente intellettivo… ma è stato dimostrato che questo aspetto influenza la performance e lo status di un individuo o di una collettività in una percentuale intorno al trenta percento… il resto da cosa è influenzato? Dal QE, il quoziente di intelligenza emotiva. La funzionalità cerebrale fatta di processi di calcolo e immagazzinamento non basta. L’intelligenza emotiva è la capacità di connettersi e dirigersi verso sé stessi e gli altri, di comprendere le emozioni e gestirle; è anche il saper guardare alla paura potendola usare come mezzo di consapevolezza, addirittura di evoluzione.

 La frase “salutava sempre”, di cui abbiamo parlato, cosa mostra? Sicuramente la volontà di dare una definizione agli altri, il più possibile rassicurante; il rimarcare a sé stessi e all’interlocutore che un tale orrore è inspiegabile; il porre una realtà pensata come verità… anche se gli eventi suggerirebbero una presa di coscienza a ritroso. Se ragioniamo sul fatto che in comunicazione le parole occupano una percentuale di importanza intorno al sette percento, quante cose ci sfuggono? O meglio… di quante cose scegliamo di non farci carico? L’intelligenza emotiva spinge alla coscienza, in primis verso sé stessi e poi verso l’altro. Non possiamo essere obiettori di coscienza davanti alla coscienza stessa. La mission dovrebbe essere comprendersi e comprendere, entrare in empatia con il nostro Io (non con l’Ego iperstrutturato), per poi compiere il nostro ruolo condiviso di cucitura e rifinitura del tessuto sociale, COLLETTIVO. L’empatia non è una cosa da Hippie ma una seria responsabilità. Non è la compassione… o almeno non solo. Avere empatia significa entrare in connessione con l’altro (ma prima sempre con sé stessi).

L’Horror che ruolo ha in tutto questo? La paura è un fisiologico sentimento che ha immense potenzialità per la nostra conservazione e sopravvivenza; è anche vero che è, allo stesso tempo, uno dei blocchi più potenti nel percorso esistenziale. È sempre la consapevolezza e il movimento a fare la differenza. Posso comprendere e superare solo ciò con cui mi confronto. Se Carl Jung ci dice che ciò a cui opponi resistenza persiste… forse prima di opporre resistenza all’orrore dovremmo capire come funziona, CHI è, porre dei rimedi il più possibile realmente efficaci. Bisogna essere proattivi verso il problema, non sordi e ciechi. Da piccoli ci parlavano del diavoletto e dell’angioletto che dividendosi le nostre due orecchie ci sussurrano cose: mai metafora più azzeccata. La scelta… Poe ci pone davanti uomini che hanno scelto la voce del male. Non sono dei pazzi, sono dei lucidi scienziati della malvagità, della vendetta e dell’autodistruzione. Il prefisso auto è potente, sempre. La follia viene chiamata in causa dalle prevedibili considerazioni esterne. Nel caso de Il gatto nero il protagonista specifica di non essere pazzo; magari leggendo potremmo pensarlo perché così si archivia il problema e si dorme tranquilli (più o meno).

L’Horror simula il male in potenza che può proliferare dentro e fuori dalle mura. Certo, alcuni prodotti sono esagerati e quasi comici… ognuno ha il suo stile. Edgar Allan Poe è realismo psichico; a volte è troppo per essere sopportato. Basta però leggere i saggi dell’autore o le sue poesie per rendersi conto di quanto lui fosse dotato di intelligenza emotiva.

Poe è lo scrittore del QE, ci fa vedere la paura, ci fa accarezzare il ragno che ci terrorizza… ci fa buttare nell’acqua che temiamo e con cui non vogliamo bagnarci. Poe compie anche delle sottili opere di autocoscienza: inserisce qua e là demoni a lui familiari, cita malanni e dolori che conosce in prima persona e ha dovuto ben guardare per poterli narrare così bene e, soprattutto, in modo credibile. I fantasmi sono dubbi che insinuano i pensieri del doppio sé, la vendetta è spesso l’urlo della solitudine inascoltata per anni, l’amore è morboso e disfunzionale. Oggi si parla di femminicidio, e molti sono anche infastiditi da questa “nuova parola”: Il gatto nero è una storia vera, mettiamola così. Io voglio pensarla così perché i filosofi (come dice anche l’autore) chissà se possono spiegare il tutto; chissà se un prete può esorcizzare quel demone, aggiungo io. Siamo noi i portatori della nostra coscienza, e siamo anche i cittadini della coscienza sociale. La letteratura non è solo svago: leggere è un processo di immagini, le immagini influenzano il pensiero e poi l’azione.

Ovviamente se non vi piace il genere non significa che state facendo un peccato mortale… di certo posso invitare alla curiosità e alla riflessione, sempre. Soprattutto a considerare che le cose sono sempre molto di più di ciò che sembrano.

 

TRAMA e RIFLESSIONI

Il racconto è la narrazione di un uomo che sa di dover morire il giorno successivo. Non è esattamente una confessione perché non c’è volontà alcuna di assoluzione o discolpa; si parla sì di “liberazione dell’anima” ma andando avanti nella storia si capisce il significato di questa espressione. Il rimorso non è un motore di redenzione ma quasi uno dei demoni che tirano i fili del male, della violenza. Guardare un “occhio” attraverso il quale ci vediamo colpevoli quali reazioni può provocare? Non dobbiamo rispondere in modo soggettivo ma con quella intelligenza emotiva consapevole di cui vi ho parlato.

Il protagonista/narratore ci mette davanti al “racconto più straordinario, e al medesimo tempo più comune”: le primissime parole usate per avviare la storia sono una chiave di comprensione, a mio avviso.  

Un essere docile può trasformarsi in un crudele torturatore e in un assassino? Saremmo portati a dare una rassicurante risposta negativa… ma purtroppo qui si parla di una “serie di casi domestici” (altra chiave sbloccante il senso). Poe non è uno scrittore del fantastico tout court: è un analista.

 L’autore ha vissuto la sofferenza, gli eccessi, il rifiuto e la dipendenza dall’alcol. Tutti questi elementi reali sono presenti in questo spaccato di finzione che è, però, la testimonianza di come il male possa nascere inaspettatamente in ognuno di noi. Si implora la pretenziosa sapienza della filosofia, si cerca di appellarsi al senso comune: in realtà il senso comune qui non dona risposte ma dovrebbe farsi un esame di coscienza, dovrebbe fermarsi a guardare ciò che può nascondersi in ogni luminosa fotografia di apparente normalità.

Il protagonista è solo un uomo che ha vissuto una solitudine giovanile riempita dall’affetto degli animali: un affetto che riconosce valoroso, incondizionato, differente dall’amicizia umana definita “insignificante”. Qualcosa però accade. Forse quella solitudine ha covato in una mente labile, fino a creare un transfert che andrà a scagliarsi in primis con gli inermi soggetti della compagnia che fu balsamo per l’indole docile e asociale del protagonista. O forse forze oscure hanno dall’esterno corrotto un uomo fondamentalmente buono?

Questo condannato a una morte di cui all’inizio non conosciamo ragione, o precedenti, racconta di essersi sposato con una brava donna, con cui è riuscito a condividere la passione per la cura degli animali più disparati. Il prediletto? Un gatto nero.

Si dice che i gatti neri siano streghe travestite, lo dice la moglie del protagonista perché lo dice il senso comune.

Tutto si svolge in una tranquilla convivenza domestica, mentre il gatto nero segue dappertutto il protagonista con devozione ammirevole.

Negli ingredienti comuni di una realtà nella media tranquillità ecco che l’alcol arriva a spezzare qualcosa, o a far accade qualcosa. C’erano avvisaglie o punti di cedimento che precedentemente non si sono visti o non si sono voluti avvertire? Il protagonista diventa ciò che non è mai stato: duro, crudele, indifferente e perverso.

Si dice che i mostri peggiori dormano sotto al nostro letto: in questo caso animali domestici e consorte devota ne avranno la prova.

L’uomo inizia ad essere violento, salvando in apparenza solo il gatto nero. Ma proprio il felino prediletto sarà il bersaglio delle più atroci azioni: mutilazioni e soluzioni definitive per far tacere un rimoso martellante. Un occhio mancante diviene il baratro in cui un’anima perduta sente il peso del proprio vuoto.

Leggere questo racconto è pura sofferenza. Dobbiamo però consolarci pensando alla funzione edificante della paura ben gestita. Ogni cosa troverà il suo modo di vendicarsi o di posizionare gli eventi verso l’autodistruzione di chi ha deciso vita e morte di creature innocenti.

Ciò che non si riesce a comprendere viene scansato o definito barocco, e anche Poe usa questo termine quando il narratore si rivolge ai lettori nelle prime battute. Dopo un incendio e un’apparizione mostruosa qualcuno esclama “strano!”, “singolare”: ecco il senso comune…

Qui si parla di mostri, mostri veri, in bi-direzionalità. Chi ha una mente corrotta vede nel mondo esterno una mostruosità di riflesso, un rinforzo continuo per gli impulsi incontrollati del lato malvagio della natura umana. Chi è colpevole cerca negli altri la giustificazione alle proprie azioni, e prova potere ma al contempo disgusto per gli oggetti quieti e sofferenti che sopportano il dolore inflitto dal mostro originario.

Poe parla della perversione come di un allettante gioco in cui si cade per il puro piacere di far qualcosa che non si deve fare. Lo scrittore non usa mai mezzi termini e come potete vedere non regala sconti alla verità, alla cronaca e alla perquisizione del corpo nudo dell’umanità.

Il protagonista racconta e non riesce a generare alcun tipo di compassione, neanche nel momento dell’auto-sabotaggio del mostro.

Alla fine, il doppio dell’uomo incontra il doppio della vittima, purtroppo molti morti vengono lasciati sul cammino di questa testimonianza. Si può far sì che questo sacrificio non sia nullo… riflettendo, imparando a perpetrare l’allerta verso il male ogni giorno. Dobbiamo denunciare, ascoltare, creare protezione in un mondo dove le vuote cortesie devono lasciar spazio alla caccia al mostro con metodo, non con superstizione; un racconto del 1843 ci è riuscito, con i mezzi a disposizione.

La violenza domestica è una realtà tremendamente attuale: empatia, consapevolezza, ALLERTA! OCCHIO APERTO… e proprio gli occhi sono uno dei tratti distintivi del romanzo grafico che vi vado a presentare.

 

THE BLACK CAT di NINO CAMMARATA, Edizioni NPE

Questo romanzo grafico è il primo che non ha generato in me nessuna perversione: nessuna tentazione di mettere a confronto il racconto primitivo con l’interpretazione data da sceneggiatura e immagini. L’introduzione assai apprezzabile del volume parla della ricerca di simmetria e riscontri tra le forme di comunicazione di una storia: “È come cercare corrispondenze esatte di forma e sostanza tra il bruco e la farfalla, tra il ghiaccio e l’acqua”. Innanzitutto, posso affermare che Poe è presente: all’inizio il volo di un corvo ci dà il benvenuto in questo orrore. In quel corvo ho visto Poe nell’epiteto a lui associato, ho visto il simbolo della morte, il fantoccio dell’ossessione e della proiezione… come quelle raccontate nella poesia omonima. Quel corvo parte nero, materico; alla fine perde spessore e si trasforma in una maschera rossa che si posa direttamente sugli occhi del protagonista. Il personaggio che racconta la storia assume in sé le sembianze della morte, e dell’autore che in lui scaraventa i demoni della sua stessa esistenza.

Ph. Francesca Lucidi 

Le parole sono ben dosate e la sintesi del testo non mi ha fatto sentire la mancanza del racconto originario non perché superiore ad esso… ma perché è altro da esso: è espressione in forme e immagini che possono mostrare un altro modo di raccontare l’orrore, e una storia che ha il potenziale per l’applicazione di una condivisa presa di coscienza.

Non dobbiamo pensare ad ambientazioni “storiche” in linea con la cronologia dell’opera originale: tutto sembra sopra il tempo e lo spazio perché i parametri sono totali, applicabili all’analisi di molte realtà e anche e soprattutto di quella contemporanea. I colori sono dosati e non evocano realismo ma simbolismo, essendo, però, in certi casi denotativi; ma in maggior frequenza connotativi. Il nero non può non essere il colore principale, con tutte le sue sfumature. Troviamo però anche il rosso dell’allarme, del pericolo.

 I disegni sono arte e sono antropologia. Teschi ed espressioni facciali raccontano la storia di uomo e di tutti gli uomini. L’evoluzione viene vista dal punto di vista di un deep side, unito alla messa in evidenza del dark side dell’universo psichico.

Ph. Francesca Lucidi

I gesti enfatici si alternano al vuoto riempito dalle variazioni dello sguardo del protagonista. Negli occhi del mostro si possono vedere tutte le sfumature della caduta, preceduta dall’alternanza di tenerezza, confusione e rara tristezza. Anche la dipendenza da alcol è assolutamente ben rappresentata nei momenti in cui quegli occhi si mostrano spenti, morti.

I primissimi piani mettono a confronto i vari personaggi e soprattutto i due combattenti, anzi tre, di una battaglia che può finire solo con l’annientamento di una delle due parti contendenti.

Nei fogli di guardia si parte da una lontananza, da due figure messe una di fronte all’altra, alla fine del volume solo un buio che fa scorgere qualcosa… per poi tornare al punto di partenza. All’inizio si può capire chi si confronterà… e una casa appare infestata: fantasmi? Morte? In fine si può intendere che il preludio avvertito come un puro vezzo grafico ben riuscito si trasforma nell’eterno ritorno del male nel ciclo dell’umanità.

Questo romanzo grafico è straordinario, dark ma non “di genere”; forte ma dosato sui reali pesi della storia. La cura materiale è eccezionale e Nino Cammarata ha, secondo me, centrato un lavoro unico e potente.

Sono presenti scene violente, in linea con il racconto originale. A voi la scelta se tentare il salto.

 

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Grazie e buona lettura!


 

giovedì 20 agosto 2020

PIÙ FUOCO, PIÙ VENTO

 di 

SUSANNA TAMARO

UN ROMANZO EPISTOLARE ESPLOSIVO E QUIETO, INTIMO E GLOBALE

Ph. Francesca Lucidi

Più fuoco, più vento è un romanzo epistolare, pubblicato nel 2002. Per la biografia dell'autrice, importante per cogliere molti aspetti a pieno, vi invito a cliccare QUI: verrete indirizzati a un precedente contenuto del Penny Blood Blog. La cornice che ha i lati fatti della vita dell’autrice, dei progetti di carriera della stessa… e della figura della destinataria misteriosa si delinea capitolo dopo capitolo, anzi, data dopo data.

La durata si distende e processa durante un anno, lasso rispettato in modo quasi matematico, vogliamo dire scientifico? Diciamo “sperimentale” e “ragionato”, insieme. Questo tempo è il tempo delle vite delle due “protagoniste”, ma è anche il tempo della natura. Ogni giorno inizia con la descrizione di ciò che accade agli alberi, agli animali e a tutto ciò che di vivo circonda l’autrice. Autrice e narratrice sono la stessa persona. Le lettere che leggiamo sono esclusivamente le risposte di Susanna alla sua amica di penna, ma alcuni passi delle missive della destinataria vengono riportati fedelmente per essere meglio commentati, analizzati e soprattutto ascoltati. L’ascolto è la potenza trainante dell’impatto emotivo, la virtù richiamata e praticata, il valore; la vocazione di questo lavoro di comunicazione, accoglienza e direi… "maternità".

 Sì, pare che le due si siano già viste dato che tutto parte dal ricordo di una passeggiata, dagli scorci di un dialogo che introduce all’alternanza di pensieri, subbugli e “medicine” che si susseguiranno nelle lettere di questo “ciclo” che si avvia alla fine di settembre per giungere al concedo dodici mesi dopo.

Tutto è molto intimo, familiare. Si entra nell’abitazione ritirata, reale, dell’autrice e si cammina per il suo orto circondati dai suoi cani: ognuno diverso, ognuno con una natura che manifesta perché, a differenza dell’uomo, l’animale non si impone interferenze.

Ph. Francesca Lucidi

 Conosciamo le abitudini della scrittrice, ci sediamo al caldo del sole estivo o al tepore del focolare invernale. Riusciamo a vedere le nipotine venute da molto lontano che si godono una pausa nella vita vibrante prima di tornare tra il cemento che può addestrare o obnubilare, se non affrontato con curiosità e spinta verso l’alto e l’altro. Susanna Tamaro è una zia, è una professionista che si sta preparando per la nuova avventura del cinema; è un’amica fedele e sincera… ed è un’anima incredibilmente vera, incapace di mentire, incapace di “piacere”. Questa incapacità è la santità e la maledizione di questa scrittrice che riesce a parlare di ogni cosa dando fastidio a molti.

Susanna Tamaro è affetta da una sindrome neurologica che non mina minimamente il suo acume e la sua capacità di mettersi e mettere in discussione. E questo… nella Sindrome di Asperger non è affatto scontato.

Se avete letto il mio precedente contenuto sull’autrice sapete di quante etichette gli siano state lanciate senza beccare mai il centro. Leggendo questo libro ho capito il perché di tanto accanimento.

Qui, una donna di quarantaquattro anni si confronta con una ragazza di ventidue anni… di Trieste (la città natale della Tamaro); le parla come noi vorremmo saper parlare, la stimola come noi non sappiamo fare neanche con noi stessi… si discute di temi di cui abbiamo terrore perché esprimendo un pensiero potremmo minare l’ottuso scopo di piacere, di non litigare, di essere ben visti e mai criticati. Beh, qui la paura di essere criticati non ha molto spazio.

La giovane interlocutrice è una neolaureata infelice del suo status di adempiente a tutte le aspettative. La morte del padre è stata la rottura che ha fatto cadere un castello di vetro cristallino, e freddo. Quando ci stacchiamo dalla zona di comfort si prova un grande disagio… e raramente riusciamo a pensare che quel disagio sia il segno di qualcosa che si sta muovendo. Sì, la morte del padre è stata un dolore, ma la ragazza sembra preoccuparsi molto di più di tante piccolezze quotidiane che lei vive come flagelli. Questo perché quel disagio non è visto con osservazione attiva ma solo subìto come una bolla di zanzara che ti fa ballare da una parte all’altra senza trovare sollievo.

La natura… beh la natura è il grande libro da cui l’autrice trae esempi semplicissimi per rispondere agli enormi tormenti di una giovane che ancora deve uscire dallo stato larvale: quella giovane siamo un po' tutti noi. Sembra strano che una ventiduenne laureata possa apparire così infantile: la sua rabbia e le sue giuste recriminazioni verso le lettere della Tamaro sono circondate da un senso di costante capriccio. Ah beh… la fatica è uno dei temi che si fanno sentire tra le parole di questo libro: la fatica vera, e la fatica piena che porta a una evoluzione totale. Non pensiamo a tormenti ma a normali processi che abbiamo denormalizzato perché siamo diventati ciechi al ciclo, alla vita, alle fasi. Non scorgiamo la luna tra alti palazzi e schermi sempre accesi… io e la Tamaro inneggiamo a un ritorno alle origini? No, solo a un ritorno all’umanità con i mezzi che abbiamo, i quali non è detto che debbano sempre restare tali o essere usati sempre allo stesso modo.

Ogni trasformazione è un movimento che va dall’interno verso l’esterno.

Questa frase si trova alla fine, ma io ve la propongo all’inizio per farvi intendere cos’è questo libro, a cosa portano queste lettere e cosa magari dovremmo considerare nella nostra vita. Il romanzo parte dai moti interiori della giovane, rapportati alle esperienze dirette della Tamaro, ampliati in immagini del passato e del presente con le loro motivazioni, domande… e insegnamenti che si potrebbero trarre. Si lavora “sul cuore e sulle viscere”: qui non si viaggia solo da testa a cuore ma si attraversa il corpo con la speranza di un ritorno alla sapienza che i corpi racchiudono. Le viscere sono anche il ventre, il luogo dove la forza della maternità sprigiona la vita, e questa maternità è da applicare a ogni stato di esistenza e a ogni rapporto, azione. La Tamaro fa riferimenti alla medicina cinese… e chi non è digiuno di Taoismo può ritrovare spesso molti principi del Tao, della sua indefinibilità, della sua duplicità, delle sue interdipendenze e cicli. Il plauso che si fa alla medicina non tradizionale è rivolto a quell’attenzione speciale alle energie, alla commistione di Spirito e Corpo che la modernità ha abbandonato per una medicina e una psicologia delle patologie, del disagio. L’attenzione sembra nascere solo dalla disfunzione, e non viene mai attivata quando si parla di bene, di felicità o di comunione di felicità, soprattutto.

Stupore e vigilanza sono due mezzi potenti; sembra ci sia rimasta soprattutto la vigilanza, ma non per contrastare i mali del mondo… più per evitare grattacapi o fastidi che spesso sono solo “falsi problemi”: così li chiama l’autrice.

Le parole forti e le domande potenti sono i mezzi che permettono ai sensi di resistere, e sono anche i motori che faranno sì che la giovane destinataria delle lettere possa ritrovarsi a scardinare, sbarra dopo sbarra, la prigione della propria insicurezza. Badate bene, l’insicurezza, l’ansia e l’inquietudine sono fisiologici mezzi per smuovere il nostro terreno; da un terreno mosso le radici acquisiscono più nutrimento. Il tutto diventa oscurante e bloccante se non è proiezione e normale tremolio verso una prova, un ideale altro, una diversità da conoscere… ciò che blocca è la convinzione, l’assenza di Fede, il Sapere immobile che non incontra la Sapienza e ha un’attitudine non critica ma giudicante. L’autrice ci avverte di quanto siano pericolose le verità, soprattutto quando queste assumono un colore: quando ci si mette da una parte e si pensa di stare nel giusto e si uccide il proprio simile perché da un giorno all’altro si dà un colore al bene e alla verità, che invece sono di tutti, sono dentro ognuno di noi e non sono definizioni ma attitudini, tocco gentile, ascolto.

Si parla di Nazismo ma anche di quanto possa essere terribile l’idea di un campeggio con degli sconosciuti. Cosa hanno in comune queste due cose? L’arrendevolezza. Ci si arrende all’immobilità senza permetterci esperienze e si cede al potere perché si tenta di sopravvivere dimenticando la vita, e non si vede come la natura insegna le scelte radicali, la cura e la “reazione”. La storia del padre di un amico dell’autrice racconta del Nazismo e di quando un quartetto musicale diventò un trio da un giorno all’altro: un leggio vuoto e un repertorio de ridefinire… poi c’è anche stato un altro padre, che si è fatto uccidere per la libertà e per immolarsi a quell’ideale superiore di bene che dovrebbe insegnarci l’unica via sulla quale, magari, certi orrori non potrebbero più ramificare come la gramigna.

La gramigna è simile anche all’invidia… ma quanto è pericoloso pensare che questo sentimento non ci riguardi. Qui non c’è il buonismo che potrebbe venire in mente a chi si infastidisce davanti alle domande e alle parole forti, ai concetti di Dio, Santi e Padri Spirituali… no, qui si parla dei Santi come di persone “contro”, si parla di fede in un senso globale, anche se l’autrice è cristiana. Questo Cristianesimo non è quello che si lustra e trincera dentro templi costruiti da uomini per altri uomini: la Tamaro inserisce considerazioni di amici provenienti da culture e credo diversi. A questo proposito vi voglio riportare una preghiera inserita nel libro (molti si stanno già infastidendo vero?); queste sono le parole del Rabbi Nachman di Braslav:

Insegnami a intraprendere un nuovo inizio, a rompere gli schemi di ieri, a smettere di dire a me stesso “non posso” quando posso, “non sono” quando sono, “sono bloccato” quando sono totalmente libero.

Cari lettori… il fuoco è quello dell’Amore, e qui si parla anche di sesso; il vento è lo spirito, Santo? Forse… anche. Ma come si accedeva un fuoco? Si battevano le pietre una contro l’altra. Il cammino interiore deve essere costellato di sussulti, di movimento. Tutti siamo unici e non dobbiamo appiattirci tra le sicurezze di un’immobile aria epurata, ferma, non adatta a poter nutrire delle alte fiamme. Siamo gelosi del nostro “spazio”, ma cos’è lo spazio? Facciamo che non diventi mummificazione, sarcofago e uscio ben chiuso. Per il “virus della mummificazione” l’autrice propone una profilassi, che non è altro che la preghiera riportata qui sopra. E se pensassimo invece agli “spazi”? Suona meglio, magari fa paura… fa pensare alla fatica di spostarsi. In un terreno duro come la pietra nessuna pianta potrà mai prosperare.

Vi invito a leggere questo romanzo solo se siete disposti a svolgere le bende e a respirare, magari piangendo, arrabbiandovi e scaraventando il libro sul divano quando leggerete parole con cui non volete avere a che fare. Intanto, però, avete mosso le membra anche grazie a questo eventuale lancio egoprodotto.


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