mercoledì 4 gennaio 2023

MENDEL DEI LIBRI

di 

STEFAN ZWEIG

  • Anno di Pubblicazione 2016 (1° 1929)
  • Edizione 1° edizione digitale
  • Editrice Garzanti Libri
  • Lunghezza stampa 96 pagine
  • Prezzo Ebook 1,99€
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MENDEL DEI LIBRI di Stefan Zweig

DALLA DESCRIZIONE EDITORIALE

“Nella Vienna di inizio Novecento non c’è appassionato lettore, studioso, esperto bibliofilo che non sappia chi è Jakob Mendel, vero catalogo vivente di tutto ciò che su di un libro sia mai stato stampato.

[…]

Nella vita reale egli è solo, completamente incapace di ogni iniziativa concreta e sensata: siede al tavolino di un vecchio caffè, dove ha installato il suo quartier generale e da dove prodiga la propria esperienza a chiunque gli faccia visita.”

L’AUTORE

Stefan Zweig nasce il 28 novembre del 1881 a Vienna, da un’agiata famiglia ebraica.

Si iscrive all’Università di Vienna alla facoltà di Filosofia, che continua a Berlino. Dopo la laurea compie una serie di viaggi in Europa, Asia e America. In seguito, sposa Friderike Maria Von Winternitz.

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale arriva, traumatizzando l’Europa e lo stesso Zweig che nel 1917 si sposta in Svizzera e vi rimane fino alla fine della guerra. Durante il soggiorno mantiene contatti con personaggi come James Joyce ed Hermann Hesse.

Torna nella sua terra, a Salisburgo, e si attiva in ambito pacifista. Ed è proprio in quel momento che inizia a godere di un grande successo. Acquista diversi manoscritti originali, e tra gli autori spiccano Bach, Mozart, Beethoven.

Zweig, smette poi di essere, per una parte di mondo, la brillante mente che aveva mostrato di essere: è solo un ebreo. Con l’ascesa di Adolf Hitler, le sue opere iniziano ad essere bersaglio della censura, dell’odio. All’annessione dell’Austria alla Germania Zweig si sposta a Londra, dove chiede ed ottiene la cittadinanza britannica.

Dopo il divorzio, sposa la segretaria Lotte, con la quale si trasferisce prima a New York e poi in Brasile. Proprio lì, nella città di Petrópolis, si suicida insieme alla moglie il 22 febbraio 1942: li trovano sdraiati, sereni, come addormentati. Una dose letale di barbiturici ha messo fine alle incontrollabili crisi depressive e al dolore che lacerava l’artista, l’ebreo, l’uomo, consapevole del dramma inarrestabile e incancellabile in cui è sprofondato il mondo.

QUESTA VOLTA… TUTTO D’UN FIATO

Temi, valori, riflessioni

Vienna, la Grande Guerra ha distrutto, ricostruito, cambiato. Una pioggia incessante spinge un uomo in un caffè, e poi in un labirinto di sentori, ricordi e sensazioni. Una stufa in ghisa e un tavolino: la ricerca comincia.

La memoria e le ricchezze del mondo che si celano in angoli angusti, in volti persi nell’anonimo sfondo di giornate qualunque; tesori inestimabili, e brillanti, camuffati tra le ombre delle azioni dell’uomo, azioni per il progresso o per la regressione che le guerre portano a tutti, tesori compresi. E lì, tra le spaccature di una vita che va avanti da sola, vi sono persone che si cibano di pochi panini a due soldi, gesti minimi, invisibili movimenti fagocitati dalle alleanze del mondo superiore, strette tra di esse in nome di regole, doveri, motivazioni che non tengono conto del brulicante bassissimo fondo del mondo che invece sta al di sotto, di tutto. E proprio in quel fondo si raccolgono le gemme, ricoperte di sporco, detriti, scarti di ciò che si cerca costantemente di lavare via: le straordinarie particolarità dell’esistente, non ammesso nell’uniformismo necessario al “progresso”.

Qui si parla di libri, e di un “rivendugliolo” dalla testa macchiata e il cappotto logoro: Jakob Mendel. Egli è un anziano ebreo che ha mantenuto degli studi da rabbino solo la posa e il dondolio con i quali legge: il suo unico dio si è moltiplicato nel politeismo di tutti i libri esistenti. Mendel conosce tutti i volumi, tutti, ma non legge per il contenuto, no: l’ebreo orientale ha nella sua mente il repertorio totale dei libri in titoli, veste editoriale, prezzo.

Egli non vive di cibo, se non di quello che gli serve per fare qualche passo tra un libro da cercare e uno da consegnare; non vive di denaro, oltre a quello utile per comprare un libro; non conosce le donne perché egli è consacrato a un sacerdozio laico, possessivo, ossessivo e totalizzante, in nome dei libri. E figuriamoci se Mendel possa mai avere il vizio del fumo. A chi lo osserva pare non avere neanche il piacere di vivere, o forse addirittura la vaga idea di essere in qualcosa chiamato “vita”, se non fosse che lì ci sono libri da reperire.

 Le sue consulenze, la sua rara facoltà, la sua mania totale, riescono ad eludere i confini tra basso e alto, ovest ed est; nemico, alleato. Ma eppur nel mondo si vive, e la pura astrazione in una sola idea è un’affascinante eventualità, ma forse si può solo sognare da svegli tale stato; alla fine, nessuno vuole considerare davvero che esistano dei propri simili che stando ai margini paiono riuscire a sfiorare con le dita una libertà trascendente. Ma quest’ultima è forse solo una fantasia di chi guarda a quei simili con invidia, stupore, e magari celato disgusto.

Ma poi, rifiutare la realtà è davvero il nirvana? Nascondersi da essa pare più simile all’oblio.

Un’idea romantica, un antieroe sudicio, quasi suicida inconsapevole, e un mondo che si rifà il guardaroba, l’arredamento, la coscienza. La memoria si incarna, si divinizza, e poi si tradisce con mano propria. Interrogativi e stranezze in una storia che è fiaba e opera in musica, dove si suonano gli strumenti cerebrali con un solo accenno di palpebra.

Veniamo a conoscenza di Jakob Mendel, quel prodigio della memoria, proprio grazie al ricordo, al fortuito caso che ha riportato un uomo sulle tracce di un cavillo fuggevole che si fa flashback e poi ricerca. Tra gli scenari nuovi di zecca di un mondo fatto dalla guerra, un ricordo affettuoso che sfugge, tra affaristi, burocrati, padroni di caffè.

Ogni cosa grida: “dimentica”, in un’Europa dove si producono nemici e si demoliscono le strutture del sapere e dell’umanità nel suo significato più profondo.

Ha più responsabilità la realtà che invade le esistenze altrui, o queste ultime quando non riescono a far fronte a ciò che succede intorno? Nel mezzo può restare in piedi solo la preziosità del rispetto, della pietà, della protezione verso le piccole “anomalie” che sono in realtà custodi di una dignità troppo spesso deprezzata.


Nota

Mendel dei libri è un racconto lungo: in quelle poche pagine si sentirà che non c'era bisogno d'altro.

CITAZIONE PER VOI

“Avrei dovuto sapere che i libri si scrivono solo per legarsi agli uomini aldilà del nostro respiro e per difendersi così dall’implacabile avversario di ogni esistenza: la caducità e l’oblio”.

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venerdì 30 dicembre 2022

IL DIAVOLO E LA SIGNORINA PRYM

IL TERZO CAPITOLO DELLA TRILOGIA E NEL SETTIMO GIORNO...
DI  
PAULO COELHO

Il Diavolo e la Signorina Prym di Paulo Coelho

  • Anno di Pubblicazione 2005
  • Edizione 1°2000
  • Casa Editrice Bompiani, quattordicesima edizione
  • Num. Pagine 170
  • Copertina rigida con sovraccoperta

ATTUALMENTE IN COMMERCIO edito da La Nave di Teseo
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DI COSA PARLA?
L’eterna lotta tra il Bene e il Male incarnata nelle false certezze di gente qualunque. Un villaggio di montagna, piccolo, chiuso, dove tutti si conoscono. Il paesaggio è sempre uguale a sé stesso, e tutti i residenti, ormai spogliati della gioventù che ha deciso per una vita lontana da lì, hanno il loro ruolo; accettando tacitamente di essere destinati ad estinguersi, anche perché si riscoprono sempre inadatti a combattere davvero perché qualcosa possa essere differente: è una “competizione inutile”.
 Viscos sembra il paradiso, così la pensano i turisti. Ma poi i forestieri vanno sempre via, e lasciano i paesani con i problemi che hanno deciso di ignorare, e la vista delle montagne che stanno lì immobili, e niente cambia mai. 
Berta vede tutto ciò ogni giorno, seduta davanti alla porta di casa, ma lei non guarda passivamente, vigila. Sa che l’attesa è necessaria, è stata avvertita. 
Uno straniero compare a spezzare la monotonia della fisionomia di Viscos: un piccolo zaino sulle spalle, con il bagaglio sufficiente solo per pochi giorni, pensa Berta. Infatti, sette giorni sono sufficienti per far soccombere Viscos al demonio. Berta lo vede: il diavolo.
Un piccolo cambiamento, un viso nuovo che racconta storie accattivanti. Il nuovo, e unico, ospite dell’albergo sa sedurre i suoi ascoltatori. Tutti sono fissi con gli occhi su di lui, anche se non ne comprendono l’ironia, lo scherno. Gli abitanti di Viscos pensano di stare godendo di una innocente distrazione; ma la Signorina Prym, la giovane cameriera che è solita elemosinare attenzioni dai clienti sognando una fuga senza ritorno, sa chi è lo straniero. 
La Signorina Prym si ritrova complice di un esperimento… una sfida: sette giorni per dimostrare che la gente è fondamentalmente cattiva. Undici lingotti d’oro la posta pattuita, uno per rubare, dieci per uccidere. 
Il diavolo dello straniero è nato dal dolore, si nutre di rancore, e di dubbi. Se il Bene non può vincere allora tutti sono destinati alla sofferenza, e forse chi è consapevole della propria sentirà un po' di sollievo. 
Quale è il gioco di Dio? Viscos è già stato maledetto e salvato una volta: al posto della forca fu eretta una croce, ma la Signorina Prym sa che il tempo della forca è tornato. 
Neanche duecento anime, di cui una maledetta, una condannata, una orfana e perduta; una che si crede padrona di tutta la terra, una della verità. Un lupo ha assaggiato il sangue, ed è stato maledetto. 
Tra inferno e paradiso, uomini e donne alla ricerca del colpevole, della volontà di Dio, del perdono, della risposta definitiva: chi è stato? e chi lo ha deciso?
Il Bene e il Male non hanno mai celato le risposte. Un solo uomo, una donna, il mondo intero… non c’è alcuna differenza: tutti sono uguali in quanto a responsabilità. Viscos deve giocare la sua partita.


APPROFONDIAMO
Un notabile lo interrogò: “Maestro buono, che devo
Fare per ottenere la vita eterna?”
Gesù gli rispose: “Perché mi dici ʻbuonoʼ? Nessuno è
Buono, se non uno solo, Dio.”
Luca, 18, 18-19
La citazione biblica che l’autore ha scelto per introdurre la storia parrebbe contenere la soluzione al dilemma se l’uomo sia buono o cattivo. Troppo semplice. Tutto finirebbe in un baleno e il racconto non avrebbe ragion d’essere. Allora ci sta dicendo che anche Gesù è cattivo? Beh, egli è Dio che si è fatto uomo, e anche questa potrebbe essere una falsa pista. 
Coelho è solito partire dalle religioni, da Dio e dalle interpretazioni che di lui hanno fatto gli uomini. 
Questa sì, è una vicenda di uomini, e donne. E Dio viene chiamato in causa da tutti, e ognuno pensa non di darsi le giuste risposte ma di farsi le giuste domande. 
Nell’antica Persia si raccontava del Dio del Tempo, e che dalla sua preghiera nacque un figlio. Non si sa a chi si rivolga l’Onnipotente, ma forse si può intuire se si arriva alla fine della lettura e si comprende il fulcro: una riflessione sulla reale libertà personale, chiunque se ne trovi coinvolto, con la propria volontà. 
Il Dio del Tempo pianse, certo dell’equilibrio fragile delle cose: nacque un secondo figlio da quel pianto. 
“La leggenda narra che, dalla preghiera del Dio del Tempo nasce il Bene (Ormazed) e dal suo pentimento il Male (Ahriman), due fratelli gemelli.”
Il Bene, però, avrà un alleato: la razza umana. 
Le vicende dell’Eden, capovolgeranno questa idea, e l’uomo diverrà un’inerme strumento del Male.
Coelho è un eccezionale cantore della storia dell’uomo e dei misteri del cosmo, e anche questa volta lo dimostra. E la leggenda, le credenze, vengono da lui riportate ancora una volta alla luce, perché l’uomo è così perso tra le sue due mani da perderne il collegamento ininterrotto con il pensiero, lo spirito, la volontà; e le mani già esistite o che devono ancora esistere. 
Coelho è un divulgatore, ma non un consigliere. Egli non propina soluzioni originali o inedite, ricorda agli altri ciò che essi hanno dimenticato, e lo fa con il suo stile poetico, a volte duro, altre volte criptico; ma quest’ultimo tratto serve solo a stimolare una motivazione assopita, addomestica, deviata. Una consapevolezza che si è persa tra le mille certezze che l’uomo ha messo davanti a sé per difendersi da quel destino a cui dà sempre la colpa. 
L’uomo sa essere cattivo, come i demoni cinesi che trasmettono la sofferenza agli altri per vendetta. Ma il più delle volte si cerca un colpevole assoluto che non può esistere. Forse no. 
Di assoluto non vi è nulla nelle storie di Coelho, ci sono piccolissimi personaggi, quasi insignificanti: essi stanno a dimostrare quanto ogni essere del creato non sia mai impotente, o poco importante.
Gli uomini timorati, così preoccupati a scoprirsi innocenti, di diritto. Ma Coelho fa riflettere se la virtù sia solo una faccia del terrore. Bene o Male, l’importante è che sia l’assoluto a fare e disfare le faccende del mondo, così pensano i personaggi. 
Dal grande al piccolo, e dal piccolo al grande; i quattro angoli della terra, e un piccolo villaggio dei Pirenei.
Le dimensioni, lo spazio: se nei pantaloni abbiamo due tasche… cosa scegliere per riempirle entrambe?
NOTA
Il Diavolo e la Signorina Prym è l’ultimo libro della trilogia E nel settimo giorno…; gli altri due sono Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto (1994) e Veronika decide di morire (1998). Coelho è chiaro: “La sfida non attende. La vita non guarda indietro. Una settimana è un periodo di tempo più che sufficiente per decidere se vogliamo accettare o no il nostro destino.” Ancora una questione di dimensioni. Parabole creazionistiche quotidiane, per ritrovare il divino ruolo di persone normali. 

CITAZIONI PER VOI
 da IL DIAVOLO E LA SIGNORINA PRYM 

“Il tuo problema non è esattamente la giustizia di Dio,” disse l’uomo. “Ma il fatto che hai sempre scelto di essere una vittima delle circostanze. Conosco molta gente in questa stessa situazione”.

“Il Bene e il Male hanno la stessa faccia. Tutto dipende dal momento in cui attraversano il cammino di ogni essere umano.” (Sulla storia de L’ultima cena di Leonardo).

“È sempre più facile udire un’offesa e non ribattere, piuttosto che avere il coraggio di battersi con qualcuno di più forte: si può dire di non essere stati colpiti dalla pietra che ci hanno scagliato.”

“Se vince il Male, anche se si tratta di un villaggio dimenticato, con tre strade, una piazza e una chiesa, esso può contagiare la valle, la regione, il paese, il continente, i mari, il mondo intero.”

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mercoledì 21 dicembre 2022

KRAMPUS

 DIAVOLI CUSTODI  
di
Luisa Rainer Chiap

Krampus, diavoli custodi. Di Luisa Rainer Chiap

Ph. Francesca Lucidi

  • Illustrazioni di Linda Simionato 
  • Anno di Pubblicazione 2021
  • Edizione 1°
  • Casa Editrice Editoriale Programma
  • Prezzo di copertina €9,90
  • Num. Pagine 151
  • Illustrato
  • Copertina Flessibile con sovraccoperta

L’AUTRICE

Luisa Rainer Chiap è di origine friulana e la sua prima formazione sboccia dall’archeologia e l’antropologia forense. La sua necessità di scoperta la porta a spaziare tra filosofie, ricerche incessanti. La scienza antica la avvinghia per poi trovarsi essa stessa abbracciata dallo spirito curioso e mai sazio dell’autrice. La Chiap, dal 2015, inizia anche studi inerenti alla zooantropologia, la neurobiologia delle emozioni e la medicina narrativa: le parole che curano divengono così il suo nuovo codice da decifrare e condividere.

DALLA QUARTA DI COPERTINA

“Creature antiche e misteriose, la cui storia millenaria si perde tra le ombre del tempo e della tradizione alpina, carica di leggende e magia… Questo libro cerca di raccontare chi sono e soprattutto chi sono stati i Krampus.”

TEMI E ORGANICA

I Krampus, i mostri che la notte del 5 dicembre scendono tra la gente per “punire” i cattivi, ma soprattutto per dar vita a un “risveglio”. Le creature sono mostrate come esseri corporei e come racconto: il lettore sentirà suonare i campanacci e proverà sulla sua pelle il tocco della verga, ma tutto avrà il suo senso nell’ incontro unico con una tradizione antica quanto il mondo e le sue ragioni. 

Una struttura arborea che dipana le sue ramificazioni attraverso l’analisi storica, la descrizione degli aspetti simbolici e le testimonianze.

I Krampus si scuotono tra le pagine, rivivono grazie alle voci di chi ancora ne veste le pelli e ne incarna la frenesia. Lo spirito degli esseri limitanei trova nuova dignità grazie alle ricerche dell’autrice, che mai si accontenta di una spiegazione delineata. Ciò che oggi si mostra a chi partecipa alle apparizioni dei Krampus, in alcune zone del Trentino, del Veneto, del Friuli; nei paesi di lingua tedesca, e spingendosi fino alla Slovenia e alla Croazia, non è solo una manifestazione ludica, uno spettacolo per intrattenere. La Chiap riapre lo sguardo umano verso ciò che religioni, leggi e timori hanno cercato di soffocare: l’afrore dell’antica anima di tutte le cose, la magia spaventosa, severa e al contempo materna e compassionevole delle energie che regolano il respiro di ciò che vive, muore, feconda e si trasforma. I Krampus vengono così liberati dalla fama di diavoli ammansiti per tornare a essere i “nobili mostri” che racchiudono nel loro sguardo celato la storia di molti popoli ormai diversi, che tornano a esseri fratelli nella resurrezione di un inconscio collettivo che si fa gruppo, e si ricongiunge per ritrovarsi e sopravvivere alla catalessi collettiva iniziata con le censure e ora adagiata sulla fredda e artificiale ragnatela dell’era tecnologica, che in essa ci avviluppa per normalizzarci e, forse, farci scomparire. 

I KRAMPUS

LE ORIGINI

Un uomo alto, munito di barba bianca e bastone pastorale, regge un libro di nomi. Nel volume, ogni bambino ha scritto il suo destino. Dietro al mantello dell’uomo spuntano i “diavoli”, creature sottomesse da ammansire, sfruttare e poi richiudere ancora per un altro anno. Questo ruolo dei Krampus è in realtà molto recente: le sfilate chiamate Klaubauf, si sono sviluppate in Tirolo solo nel XVIII secolo, mentre le Perchten di origine bavarese e le Recite di San Nicola non vanno indietro oltre il XVII secolo. 

La leggendaria figura di San Nicolò nasce dalla fusione di due personaggi realmente esistiti: il vescovo Nicola di Myra in Licia, nell’odierna Turchia (VI sec.), e l’abate Nicola Sionita, vescovo di Pinara (VI sec.). Da essi scaturisce così l’unica mitica figura (dal VI sec.) di cui Myra conservava le reliquie trasudanti un olio medicamentoso. Dopo diversi viaggi per essere sottratto agli infedeli, ora le sue spoglie sono conservate a Bari. San Nicolò è il patrono degli scolari, l’amico dei bambini, e un generoso latore di doni. 

Originariamente, i fanciulli venivano invitati a pregare per poi ricevere doni; se ne hanno testimonianze dal XV secolo, proprio nei luoghi dei Krampus. Dalla Controriforma, anche le scuole religiose presero a diffondere questa usanza: un umo vestito da vescovo distribuiva doni agli scolari. I Gesuiti, votati all’educazione ecclesiastica, furono i primi a pensare questa pratica ben accolta.

Nel Seicento, le folkloristiche “Cacce Selvagge”, che assumo nomi differenti a seconda delle zone d’origine, vengono assorbite dalla tradizionalità cristiana tramutandosi in celebrazioni delle gesta di San Nicola. I numerosi cortei che nei territori dei Krampus portavano scompiglio e furore tra le strade, nel periodo natalizio, vennero normalizzati gradualmente. Si sa che quando gli attori inscenanti entravano nelle case, l’erotismo e il chiasso potevano diventare “pericolosi”. La gente fu spogliata della privata esperienza del furore dei giorni solstiziali e fu portata in strada, per subire un controllo che avveniva attraverso la costruzione di una storia diversa. Anche nel territorio friulano, San Nicolò assunse un ruolo d’onore, come testimoniano le numerose chiese a lui dedicate. Il Dio della Natura, Pan, fu sostituito, dimenticato. 

La leggenda più diffusa narra di un gruppo di giovani che girovagava e spaventava la gente, grazie a pesanti travestimenti, per rubacchiare. Il diavolo si insinuò tra loro, ma fu riconosciuto perché era l'unico tra tutti ad avere gli zoccoli al posto dei piedi. San Nicola fu così chiamato ad intervenire, mantenendo poi i diavolo a servi che puniscono i bambini cattivi mentre lui ricompensa i bambini buoni. Ecco, nella maggior parte dei casi se cercherete notizie sui Krampus troverete questa storiella. 

Ph Karl Mayer. 
Fonte https://www.kleinezeitung.at/steiermark/weststeier/5862703/Brauchtum-in-Voitsberg_Der-Krampus-bleibt-dieses-Jahr-zu-Hause

I moti precristiani vengono fusi nell’agiografia, nella leggenda e nella superstizione. E il tramite con il divino diviene contraffatto grazie a un tramite approvato, costruito appositamente con tratti, date di nascita e morte coincidenti con ciò che il paganesimo aveva costruito dalla notte dei tempi. 

«Così come la nascita di Gesù si è presa il giorno del Sol Invictus che a sua volta ha “rubato” il 25 dicembre alla nascita dell’egiziano dio Osiride, allo stesso modo il vescovo Nicola ha preso il posto dell’indelebile Fauno.»

È pur vero che la Chiesa ha permesso la sopravvivenza dei Krampus che, oggi, stanno riacquistando una nuova indipendenza, probabilmente spinti dall’urgenza di un momento storico in cui la natura grida a gran voce il suo dolore e l’uomo con essa è chiamato a perire se non interviene con nuove consapevolezze. E anche la multiculturalità ha fatto sì che ciò che veniva considerato come appropriato stia diventando “vecchio”, fuori posto. San Nicola non va più negli asili a portare i doni, ma i Krampus sopravvivono perché sono democratici: sono il sigillo di un qualcosa che riguarda tutti, indistintamente. 


UN BREVE SGUARDO ALLA MITOLOGIA: LE DIVINITÀ SILVANE E IL SENSO DEL SACRO

Il 5 dicembre, nel calendario romano ricorrevano le Faunalia: festività che celebravano il dio Fauno. 

Fauno era il protettore delle campagne, degli animali, delle selve, e della fertilità. Il culto è testimoniato sui territori italici dal IX secolo a.C. Uomini e animali festeggiavano insieme, anche nella scelta del riposo cerimoniale. Fauno vagava per le campagne, ma non aveva solo tratti benevoli: era anche incubus, ossia poteva gravare sul letto del dormiente per affliggerlo con visioni inquietanti.  Ma Fauno, era altresì elargitore di fertilità per le femmine, umane e animali. Egli pronunciava anche oracoli, ed era la voce della foresta. 

Fauno è spesso associato a divinità affini come Silvano o Luperco. 

Silvano era un antico dio italico della vegetazione, venerato anche come protettore delle greggi. Anch’esso era rappresentato come ambivalente: benevolo, ma anche maligno e spaventoso. Temuto da bambini e donne gravide, venne descritto nell’Eneide di Virgilio come figlio di Pico e nipote di Saturno, quindi identificabile come lo stesso Fauno o come un suo fratello. 

Luperco era la versione combattente di Fauno. Difensore delle greggi contro i lupi, veniva celebrato,  nelle Faunalia primaverili (Lupercalia), il 15 febbraio. È quindi chiaro come determinate date siano state scelte dalla cultura cristiana per contiguità e assimilazione. 

Le celebrazioni, con le loro ritualità e con i loro mascheramenti, travalicano però i confini geografici: sincreticamente. Caratteri simili sono quindi riscontrabili in diversi ambienti sciamanici e pagani. 

Il dio celtico Cernunnos, conosciuto come il "Signore degli animali"

«Cervo meraviglioso,

con le corna dai mille rami e nodi […]

e migliaia di candele lucenti fra le corna […]»

(Canto tradizionale ungherese)

Fauno e Silvano erano le forme tarde, recepite dalla cultura romana, di una divinità più antica: Pan.

Statua del dio Pan. 
Fonte https://greekasia.blogspot.com/2019/11/the-cult-of-greek-god-pan.html

L’etimologia lo riconduce al verbo “pascolare”, quindi collocandolo all’immaginario di cui si è già parlato. Ma non solo. L’etimo viene fatto combaciare anche con il termine “tutto”, e ciò non è fuori luogo dato che l’immaginario legato a queste creature silvane comprende ogni aspetto fondamentale dell’esistenza prolifica dell’uomo: la sanità della natura, la protezione delle greggi, il rispetto ma il legame indissolubile con i limiti tra genti e madre natura, e tra vivi e morti, dato che nei popoli antichi anche l’uccisione per caccia o culto era sempre vissuta come un momento di profonda commistione e ringraziamento. 

Pan, schivo ma anche benevolo, aveva un aspetto antropomorfo ma animalesco in senso sgradevole. Si celava all’uomo ma ne va a simboleggiare l’aspetto più potente: l’istinto. 

Ph. Francesca Lucidi

Divinità dalla genealogia controversa, Pan genera il termine “panico”: il suo urlo atterriva gli avventori e la sua fisionomia spaventava chiunque. Legato alla Madre Natura, Il dio che si vestiva di pelli ed era rappresentato anch’esso con un grade fallo, come i satiri, venne scovato tra grotte e arbusti per essere trasformato in diavolo dalla cultura cristiana. 

Identificato anche come divinità masturbatoria, Pan è la profonda connessione psichica con la natura; è lo scatto ferino, è la morbida accoglienza della pelliccia, è il calore del respiro animale. È avvolgente e pungente, sconvolgente come un brusco risveglio. 

I Krampus tornano così tra le genti per un’inversione culturale che sta ripulendo Pan di secoli di racconti errati e pretestuosi. E grazie all’apertura dei confini culturali che stiamo vivendo ci si può forse riappropriare di bagagli e beni che travalicano le religioni e i canoni per ricollocarsi all’alba del senso del rito e del sacro.

 La paura per ciò che può essere incerto e pericoloso spinge l’uomo oltre di sé: i popoli arcaici vedevano Dio in ogni cosa, dall’oscurità della notte ai flussi, fino agli alberi o ai fili d’erba. Il pensiero di ciò che non si controlla terrorizza: ed è proprio in quel “panico”, in quell’incapacità di riflessione che si può ritrovare la connessione con il tutto. Più si è controllanti con l’esterno, e quindi anche con la Natura, e più l’inconscio si inabissa, ammalando l’uomo e il mondo. 

Pan, gli sciamani, i Krampus, afferiscono tutti a quel ruolo di tramite folle e selvaggio che riporta la comunicazione tra ignoto e noto, tra umano e divino, tra vita e morte, in un’unione che richiede un equilibrio non statico, ma freneticamente dinamico.  

Si può tendere a giudicare i Krampus con il metro del sogno, ma quest’ultimo non è altro che il regno dove la causalità smette di funzionare e le contraddizioni trovano asilo. Così, sogno e inconscio non sono altro che l’opposto del razionale, dell’Ego Freudiano, ed entrambi hanno una voce così assordante che non si può ignorare, pena la malattia. 

Non a caso i Krampus hanno un dialogo privilegiato con i bambini. Mostri mascherati e piccoli d’uomo hanno tra loro una reciproca attrazione che sfocia nella commozione e la nostalgia per la dimensione sacrale ancestrale, dove la ragione non fa presa sulla compresenza degli opposti e il democratico avvicendarsi di giusto e sbagliato. 

Il giudizio messo in scesa dai Krampus trascende il bene e il male e scaturisce dalla volontà di confidenza tra ciò che sta al di qua o al di là del “limite” immediatamente visibile e riconoscibile.

Ph. Francesca Lucidi

I SIMBOLI 

«La maschera cela il volto

ma rivela l’anima.»

(Ivan Ziraldo, The legend of Krampus)

Il Krampus, una figura imponente, annunciata dai campanacci, armata di verga, vestita di pelli e pellicce; sormontata da corna di animale, con lo sguardo annerito e celato, ma soprattutto un essere “mascherato”. 

Fin dalle pitture rupestri, l’uomo ha testimoniato la consuetudine a vestirsi di mascheramenti, e anche di corna. L’uomo si fa una creatura di mezzo: un’identità ibrida che nella ritualità ricerca anche l’esorcizzazione della morte. Grazie a vesti altre, tutto è possibile. E anche il rapporto di rispettoso e reciproco timore tra uomo e natura, si fa amorevole. Il cacciatore stesso metteva in pratica una serie di riti volti a ringraziare la bestia uccisa. Nelle varie tradizioni, e attraverso i tempi, la resurrezione non era ad appannaggio esclusivo del divino ma piuttosto dell’apertura reciproca dei confini tra mondo e oltremondo. 

La maschera cambia l’identità ma non solo per modificarla: essa così era innalzata a qualcosa di superiore. Coloro che oggi vestono il travestimento del Krampus raccontano, attraverso le testimonianze raccolte dall’autrice, come un qualcosa si impossessi di loro, facendoli essere per un giorno un essere totalmente diverso, un dio, ma non nel senso blasfemo del termine. Ovviamente la religione ha sempre visto la maschera come offensiva, come celatrice della somiglianza tra Dio e uomo, quando invece per l’antichità quella somiglianza si esaltava proprio con il travalicamento dell’identità. E non a caso il demonio è definito come un trasformista, per le cose e per sé stesso. 

La corna che sormontano la maschera sono la corona della potenza, dai capi pellerossa, ai capi abissini fino agli Ebrei, le corna sono spesso presenti nella storia come segno di forza e autorevolezza. La potenza evocata vuole essere fisica e spirituale, una forza vitale che richiama alla creazione, alla fecondità. Marie Bonaparte ricorda come “queren”, in ebraico, significhi sia “corno” che “potenza”. Non a caso il corno è lo strumento musicale dell’annuncio, e veniva utilizzato anche nell’attività venatoria; ricordando che agli albori cacciare equivaleva a pregare. 

Lo sguardo che attraverso la maschera si potrebbe scorgere è invece annerito. E ciò è curioso se si pensa alla caratteristica scontronsità delle creature silvane. Infatti, il carbone che veniva utilizzato come trucco era l’emblema di questo vivere ai margini; infatti, gli stessi carbonai erano uomini che vivevano per mesi nel bosco, e conoscevano i segreti degli alberi e del fuoco. E proprio il fuoco accomuna molte professioni in passato riconosciute con diffidenza, paura o reverenza. Anche i fabbri erano lavoratori del fuoco, e il ferro è un materiale ancora oggi ricordato come “mistico” se si pensa alla classica scaramanzia di toccare ferro. Forse proprio a questo si potrebbero ricondurre altri due elementi del travestimento del Krampus: i campanacci e le catene. 

La fusione delle campane delle greggi, in passato, avveniva in modo irripetibile e ogni gruppo di bestie aveva il suo tipo di campana. Ogni metallo usato aveva poi in significato. Il suono che oggi ancora accompagna il Krampus è la stessa voce mutevole delle greggi che possono, nel mondo odierno così come indietro nel tempo, annunciare così un pacifico arrivo, un attacco dall’esterno, un pericolo. 

La lunga lingua rossa del Krampus oggi sta scomparendo, forse per la benefica assoluzione culturale che non li vede più solo come comparse alla mercé di San Nicolò. 

Ciò che però resta è il senso di risveglio che la frenesia della parata può promettere, anche grazie all’azione della verga non strettamene punitiva ma battente come un tuono che scroscia nelle coscienze. 

I legni scelti per la verga sono il nocciolo e la betulla. 

Dagli antichi Celti, il nocciolo era considerato l’albero della saggezza, ma non era pensato solo come benedicente ma anche come malefico; per questo i miti raccontano di scudi di nocciolo che emanavano vapori velenosi, probabilmente per la linfa tossica che scaturisce dalle fronde dell’albero. 

Nelle Triadi d’Irlanda, una raccolta miscellanea, risalente al IX secolo, e comprendente 256 “giudizi” su vari argomenti, il nocciolo è identificato come albero sacro insieme al melo. E ciò è testimoniato anche dai resti di carbone di legna delle pire funerarie gallo-romane rivenute in Bretagna, dove il nocciolo compare insieme alla quercia e al salice. 

Il nocciolo ha continuato ad avere un ruolo fondamentale nella sfera del magico; infatti, pare che streghe e stregoni ne utilizzassero i poteri. Un processo per stregoneria svoltosi in Assia nel 1596, riporta: «Se nella notte di Valpurga la detta strega aveva battuto la vacca con la bacchetta, questa vacca dava latte tutto l’anno… Così il nocciolo, albero della fertilità, diviene piano piano l’albero dell’incontinenza, della lussuria, del diavolo.»

L’altro albero prescelto, la betulla, evoca scenari simili, ed è altresì un simbolo prettamente lunare, collegando l’utilizzatore all’energia celeste. I Celti ne sfruttavano il potere anche per cercare di esorcizzare il male dai delinquenti, e dai pazzi. 

Tutti questi elementi stanno a testimoniare come i Krampus siano ciò che rimane di antichissimi culti, e per questo vanno conosciuti e preservati. Il rispetto da mantenere parte anche dalla considerazione che essi non vanno esportati come spettacolo ma studiati e vissuti in stretta relazione al territorio che li ha fatti nascere e li ha mantenuti in seno, per poi ampliarne il senso verso un “risveglio” collettivo. 

"Krampus", uno dei significati semantici è "artiglio"... e così la presa che ci spetta calibrerà il tono a seconda dell'anima che portiamo sul limite dei giorni più corti dell'anno, verso il nuovo ciclo del sole, e delle nostre vite future. 


MI SONO DILUNGATA PER PERMETTERE A TUTTI DI SAPERNE DI PIÙ SULL’ARGOMENTO. PER APPROFONDIRE, E FINIR SOTTO LA LUCE DELLA TORCIA DEL KRAMPUS, CONSIGLIO ASSOLUTAMENTE LA LETTURA DI QUESTO LIBRO!  

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domenica 18 dicembre 2022

STORIA DI UNA LUMACA CHE SCOPRÌ L'IMPORTANZA DELLA LENTEZZA

di
Luis Sepúlveda
 

Ph. Francesca Lucidi
  • Anno di Pubblicazione 2019 (Or. 2013)
  • Editrice GUANDA
  • Prezzo di copertina €12,00
  • Copertina rigida 

DALLA QUARTA DI COPERTINA
“Le lumache che vivono nel prato chiamato Paese del Dente di Leone, sotto la frondosa pianta del calicanto, sono abituate a condurre una vita lenta e silenziosa, a nascondersi dallo sguardo avido degli altri animali […]
Una di loro, però, trova ingiusto non avere un nome, e soprattutto è curiosa di scoprire le ragioni della lentezza.”

L’AUTORE
Per leggere la biografia dell’autore clicca QUI e verrai di ricondotto a un precedente contenuto del blog.

CHE COSA SUCCEDE
Un gruppo di Lumache vive un’esistenza nascosta, votata al nutrirsi e al non chiedere più dell’ombra del calicanto. Sono fuori dalla vita degli altri, non guardano oltre e vivono una rigida esistenza fatta di riti minimi e conversazioni limitate. I limiti sono visti come un dovere: da brava lumaca si sta nel proprio guscio o si striscia verso la foglia più vicina, nei comuni pochi intenti si è tutti uguali e si scompare in un indistinto esistere sempre uguale a sé stesso. Ciò che succede fuori dal calicanto non è affare delle lumache, il mondo e i suoi abitanti sono solo fastidi e questioni da ignorare. Tutti devono mantenere un contegno austero e un’attitudine all’ignoranza, verso esseri viventi e luoghi. La paura aleggia ma non è nominata, ci si illude che la chiusura sia la soluzione e la prevenzione verso ogni potenziale pericolo. Se fuori qualcosa si muove basta scomparire. 
La paura è un sentimento rifiutato; la vulnerabilità tesse le non decisioni delle lumache, ma esse non ne parlano. La rassegnazione è così atavica da essere stata incarnata ma forzatamente dimenticata. 
Le lumache si illudono di non aver bisogno d’altro che non sia il loro nascondiglio e il soddisfacimento della fame. Una di esse, però, sta scomoda nell’abito della negazione: essa, come le altre, non ha un nome ma non si rassegna a questo rifiuto dell’identità. La lumaca che fa domande si chiede anche il perché della lentezza a cui è destinata insieme a tutte le altre della sua specie. Le compagne rifiutano la lumaca che fa domande, ne sono infastidite e cercano di allontanare il suo modo di vivere consapevole. Un gufo forse conosce la verità, ma esso non vola anche se saprebbe farlo. La vita, con i suoi ricordi, pesa e grava su chi non rifiuta ma osserva e immagazzina. 
L’unica soluzione per la lumaca che fa domande è andare via dal calicanto; l’eventualità è l’unica speranza per le altre di vivere più tranquille, in un’illusoria bolla che credono indistruttibile. 

Ph. Francesca Lucidi
Ad accogliere la lumaca fuggitiva sarà un’altra creatura che porta con sé la propria casa: una tartaruga. Grazie all’incontro la lumaca che non aveva un nome saprà chi è, e conoscerà la sua identità in un appellativo incarnante una missione. Gli uomini hanno insegnato alla tartaruga i nomi e il valore della memoria, perché gli esseri umani battezzano e prendono proprietà sulle cose del mondo… ma essi dimenticano, corrono nel tempo e schiacciano chi invece è figlio e abitante della natura e dei suoi ritmi. Però la tartaruga porta in sé molte cose imparate dagli umani: essi dicono che la paura esiste ed è cosa nota, chi la sa vincere merita il nome di “Ribelle”. 

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martedì 13 dicembre 2022

LO SCRIGNO DI NATALE

 di 
CONNY MELCHIORRE

  • Anno di Pubblicazione: 2022
  • Editrice: Autopubblicazione
  • Prezzo di copertina: Non presente
  • Pagine 114
  • Illustrato

DALLA QUARTA DI COPERTINA

“Vi va di Sbirciare con me? Allora salite sulla slitta dell’immaginazione. È arrivato il momento di partire verso il magico mondo dei ricordi di Santa Clauss…”

L’AUTRICE

Conny Melchiorre è nata a Lanciano (CH), il 27 ottobre del 1977. È laureata in Filosofia e Scienze Pedagogiche. Attualmente è docente di ruolo di Filosofia e Storia. Collabora con diverse testate giornaliste, con il titolo di “pubblicista”. La sua passione per lo scrivere la porta a organizzare corsi di scrittura creativa e a non fermarsi mai nel suo esplorare il mondo dei media e della comunicazione.

I suoi romanzi: Fiori d’Oriente, Lettere di Stagione, I racconti del Focolare, T’Amo ed altre storie.

COS’È?

Un memoriale, un insieme di racconti e narratori che si intrecciano tra loro. Una lettura per tutte le età dal linguaggio d’altri tempi, ma semplice, democratico e poetico come i valori di cui ci fa dono, tra le pagine.

DI COSA PARLA?

Babbo Natale quanto sa di noi… lettere su lettere, per non parlare degli animali domestici che una volta all’anno acquistano il dono della parola e degli elfi che stanno nascosti nelle case e controllano, appuntano e riferiscono. È così facile abbandonare ogni reticenza quando ci si confida ai sogni, alle fantasie, a magici amici che confermano la loro effettiva esistenza nella nostra fede in essi. Ma, questa volta, è Babbo Natale, invece, a confidarsi a noi, a raccontarsi.

Per custodire i segreti ricordi delle sue avventure ha uno scrigno speciale, sarà disposto ad aprirlo per renderci partecipi di straordinari incontri, commoventi riflessioni e divertenti fattarelli. Come dite? I segreti non sono più tali se vengono condivisi? Beh, qui ci si guadagna il diritto di cronaca grazie alla collettiva magica atmosfera della speranza e della volontà che possono far accadere l’impossibile e rendere straordinario ogni più piccolo particolare se carico d’amore e curiosità verso il prossimo, senza pregiudizio. E poi Clauss rammenta bene: “Le storie se non sono raccontate agli altri sono perse per sempre.”

E ADESSO,

ADDENTRIAMOCI IN UNA CASETTA ACCOGLIENTE, MENTRE FUORI NEVICA E IL VENTO STA AD ASCOLTARE

«Sono sempre stato così, un misto di fantasia e realtà, tra passato, presente e futuro.»

Cos’è la realtà se non ciò che per noi esiste davvero? Nessun sogno, desiderio, preoccupazione o visione è davvero impalpabile. Babbo Natale cos’è se non una speranza, un’elaborazione segreta dei pensieri più intimi? Da adulti ci si dimentica di quando da bambini si sapeva desiderare ancora autonomamente. Di come il valore delle cose avesse una preziosità e un peso così intimo da dover proteggere. Qui, dal passato si può recuperare il sapore dolce del ricordo di quelle sensazioni e valori, dopotutto Babbo Natale è nato come un semplice ragazzo, chiamato Clauss, che si sentiva diverso dagli altri, e lo era, ma aveva comunque il coraggio di essere sé stesso: quello che ama i cuccioli e nota ogni più piccolo aspetto della realtà discernendone verità e importanza.

Clauss era generoso, povero in canna e con lo stomaco abbastanza vuoto. Ma la generosità gli ha sempre saziato il cuore, portando nel mondo una generosa forma di amicizia che gli ha permesso, ad esempio, di incontrare Siku. Chi è? Un bastoncino di legno. Poca cosa, direte voi. Ma se vi confidassi che proprio Siku ha dato origine alla nascita dello Scrigno dei ricordi?

Amelia, la moglie di Clauss, adora rivedere gli oggetti che vi sono contenuti e le storie che raccontano. Anche i bimbi elfi non si stancano mai di meravigliarsi delle cartoline di Natale dal mondo, con i conseguenti resoconti di strane tradizioni. Quale preferisco io di queste? Sicuramente Le ragnatele di Natale… Beh, posso solo dire che questa lettura ha la facoltà di mostrare come la povertà possa portare nel mondo grandi gesta di bellezza che meritano la nostra attenzione, e la nostra cura. Ed è proprio questo che fa il libro di Conny, si prende cura di poveri e piccolissimi particolari: da un topolino, a un fiore, a un viso affamato che si nasconde.

Alla luce del naso della renna Rudolf, possiamo sfogliare le pagine del mondo per sbirciare dove l’uomo soffre e può rinascere, dove un male può essere estirpato. Il valore del raccontare, qui, non è mai autoreferenziale. Si ascolta ma si partecipa anche, se si vuole. Dopotutto non è solo Clauss a prendere la parola tra le pagine.

Un’accortezza? Conservate o rinvigorite la vostra innocenza e il vostro puro amore per le cose belle, belle davvero, ma non fate che ciò vi oscuri lo sguardo nello scorgere anche ciò che proprio così grazioso non è, tipo i Krampus, brutti ceffi di cui saprete un bel po', grazie allo scrigno.

Da bravi osservatori si può dischiudere l’aspetto di ciò che vediamo per trovarne lo spirito e cambiarlo per giunta! E se vi dicessi che così potrete anche esaudire un desiderio?


LA MIA CITAZIONE PREFERITA

«Anche quando la situazione sembra irrisolvibile, i sogni si possono coltivare e un fiore può nascere fuori stagione.»

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venerdì 18 marzo 2022

IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTON

 di

Richard Bach

Ph Francesca Lucidi

Anno di Pubblicazione 2018 (1°1970)
Editrice BUR Rizzoli
Prezzo di copertina €10,00
Fotografie di Russell Munson
Traduzione di Beatrice Masini
NUOVA EDIZIONE CON ULTIMO CAPITOLO INEDITO

DALL’ALETTA INTERNA

Il gabbiano Jonathan Livingston non è come tutti gli altri. Là dove i suoi simili, schiavi di becco e pancia, si limitano a composti viaggetti per procurarsi il cibo inseguendo le barche da pesca, lui intuisce nel volo una bellezza e un valore assoluti. Tanto basta per meritargli il marchio dell’infamia e l’allontanamento dallo Stormo Buonappetito.

TEMI

Un racconto mistico e messianico; una riflessione sul coraggioso e necessario esercizio della libertà, sul dovere di sorvolare la mediocrità proposta all’uomo come unica via. L’omologazione che soffoca le passioni e le inclinazioni personali è come lo Stormo Buonappetito: promette il solito pasto, il consueto annullarsi nel produrre e consumare in una velocità stereotipata, con una vista limitata e un corpo dal quale non si chiede altro di quello che ci autoimponiamo mutilandoci con la rinuncia, la ripetizione non benefica. L’esercizio salubre qui non ha uno “scopo”, è inteso come allenamento: una pratica naturale per gli esseri viventi, che modifica l’esistenza e guida le inclinazioni e gli animi. Prendere i pesci non è il fine, lo scopo, di cui si accontenta il gabbiano Jonathan, e Bach attraverso la sua figura riconduce l’uomo alla sua responsabilità di entità pensante, di pensiero incarnato. Dopotutto la realtà è impossibile da conoscere in modo diretto: le convinzioni, le tradizioni e le convenzioni permettono solo una proiezione di essa; appunto per questo è il pensiero il più importante apparato “biologico” che permette di vedere, volare, espandersi fino trovare la corrente giusta dell’assenza di paura.

Tre parti già note ai lettori; una quarta parte aggiuntiva figlia dello stato sperimentato dall’autore dopo il terribile incidente aereo del 2012. La storia acquista così una nuova forza: dalla parabola si passa alla disamina, alla denuncia, allo sbugiardare orgoglioso di chi è pronto a donare e donarsi alla libertà. 

L’AUTORE

Richard David Bach nasce il 23 giugno del 1936 ad Oak Park, luogo di nascita anche dello scrittore Ernest Hemingway; attualmente vive a Seattle. 

Fu pilota riservista dell’aviazione militare degli Stati Uniti d’America, pilota acrobatico e meccanico aeronautico. Ha avuto due divorzi prima del terzo matrimonio con Sabryna Nelson-Alexopoulos. 

Nel settembre del 2012 ha un gravissimo incidente con il suo idrovolante; viene ricoverato in ospedale in condizioni critiche: tutto a causa di un cavo elettrico. Esce dall’ospedale dopo mesi. L’incidente lo spinge a pubblicare una quarta parte del suo grande successo letterario IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTON, grazie alla moglie Sabryna complice di aver recuperato vecchi appunti. 

Di questo importante particolare ne parleremo tra qualche riga, tranquilli. 


IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTON

DA REIETTI A MESSIA. LA RIVOLUZIONE DI UN’ILLUMINATA IDEA DI LIBERTÀ

«Tu non capisci. La mia ala. Non riesco a muovere l’ala.»

«Gabbiano Maynard, tu sei libero di essere te stesso, il tuo vero te stesso, qui e ora, e niente te lo può impedire. È la legge del Grande Gabbiano, la Legge che È.»

«Stai dicendo che posso volare?»

«Dico che sei libero.»

Il reietto gabbiano che viene cacciato dallo Stormo Buonappetito perché interessato a volare, a sperimentare la propria natura oltre i limiti per essere più autenticamente sé stesso, ed essere poi qualcos’altro. Il reietto che diventa messia, maestro. Un Cristo alato che porta la parola e non giustifica l’inazione. Un personaggio indomito e libero che porta un “non messaggio” che sarà poi tramandato. Egli chiedeva amore e opere, volo e accoglienza. Nel tempo, però, altri si sono uniti alla causa della libertà… il nuovo capitolo inedito aiuta il lettore a non restare sospeso in un finale che si avvertiva forzato.

Appunti ritrovati e riportati alla luce che donano alla storia una nuova completezza, che mostrano al mondo i propri templi d’ignoranza, e imposizioni che si ritrovano attuali dal momento della composizione a quello della ricomparsa. 

Messia, discepoli e ascoltatori saranno uniti in un volo difficilissimo e pericoloso: il premio non riempie il ventre ma fa cibare insieme una comunità che può decidere di sfidare le mura erette dall’establishment, dal dogma. Governi e uomini sono colpevoli di perpetrare una schiavitù che si giustifica attraverso il sussurro che insegna all’uomo di essere inferiore, mai abbastanza, mai degno, mai libero. Pochi comandano masse abbandonate a uno stormo indistinto: la liberazione è una missione necessaria per tramandare quel senso del dono che sa spingersi anche fino all’estremo sacrificio. Un nichilismo attivo che non rinnega il futuro ma lo conosce, lo combatte, attraverso l’azione. 

La morte non esiste per chi sa spingersi verso visioni sempre superiori, diverse; verso stati di pensiero crescenti e in espansione, coinvolgendo anche il corpo fisico che c’è ma non è più limite. I veri illuminati sono coloro che si dissolvono con il disintegrarsi delle barriere imposte dall’esterno e dall’interno. 

Ciò non invita a una visione egoistica: l’amore è la vera essenza dell’esistenza, ma esso può partire solo dall’accettazione e il rispetto della propria unicità; uno stato superiore è poi abitabile grazie alla gentilezza, alla condivisione, al dono. 


CONSIDERAZIONI CON GLI OCCHI VIOLA

Un libro che ha avuto un grande successo e che molti hanno letto. I successi a volte sono democratici, questo libro non è democratico ma anarchico, rivoluzionario. Si può capire, nella lettura si possono appuntare pensieri illuminanti. Ma che fatica quelle lunghissime descrizioni sulle tecniche di volo. Snervante, faticoso. Un caso? Un feticismo per l’aviatore che è in Bach? No.

L’esercizio e il fare sono passaggi evolutivi che il lettore deve fare insieme ai gabbiani. Si fatica e si tenta; si sperimenta e si sfiorano i limiti di attenzione e stanchezza. Azione e pensiero sono necessari alla libertà, e si compenetrano in una collaborazione che l’essere deve poi saper proiettare verso l’esterno, verso l’altro.

Il rifiuto, l’annientamento, la formazione, l’insegnamento: i livelli che i gabbiani protagonisti affrontano in questa filosofica favola di piume, ali e ascenzioni.  Bach spinge il lettore al limite della possibilità di attenzione e comprensione, solo per decretarne il superamento possibile.

Il nuovo finale è forte, è la corrente perfetta per completare le evoluzioni a cui siamo stati chiamati nelle tre precedenti sezioni di lettura, di volo. Il sacrificio e non la rinuncia, l’accettazione ma anche la forza delle domande. Una lettura non facile che richiede picchiate, stalli e cadute. 

Bach dopo l’incidente ha ricordato e ha capito. 

L’autore resta un rivoluzionario che ha finito per incarnare nella sua esistenza le vicende dei gabbiani di cui racconta: la favola si è fatta profezia e a distanza di decenni, per chi sarà pronto o consapevole di poterlo essere, specchio di attualissime verità.

Ma quel gabbiano di che colore aveva gli occhi?

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mercoledì 9 febbraio 2022

PER UN PUGNO DI CIOCCOLATA

 E ALTRI SPECCHI ROTTI

di

HELGA SCHNEIDER

Ph Francesca Lucidi

Anno di Pubblicazione 2019
Editrice Oligo Editore
Pagine 176
Prezzo di copertina €15,00

DALL’ALETTA INTERNA

“Aguzzini che si intrecciano a fanciulle indifese, spie e anziani nascosti per sfuggire alla morte, donne eroiche e soldati fragili. La grande letteratura dell’autrice de IL ROGO DI BERLINO e LASCIAMI ANDARE MADRE (Adelphi) è qui rappresentata in pagine di lucida disanima dell’animo umano”.


I TEMI

La Schneider ha vissuto il Reich: la cieca ideologia, la privazione dell’identità; l’insinuarsi di un serpente divoratore di volti, genitori, figli, vite. L’autrice sa di cosa parla e lo racconta con il tramite di protagonisti che segue in una quotidianità assurda, mascherata di una quiete apparente, in bilico su un oblio in espansione. Altre volte passa a loro la parola: il mezzo in cui la Schneider crede, e di cui si “arma” per tenere sbarrata la strada a un odio pronto a strisciare di nuovo attraverso i buchi di una terra fragile, se le mani e gli animi non si abbracciano in una comune causa di pace, solidarietà e responsabilità.

Dodici racconti: testimonianze brevi, dure e reali da poter sentire sulla schiena quel terrore che i cittadini dentro e fuori il Reich avevano incastrato nella gola, soffocando. La fame, le malattie, le separazioni. I rifugi antiaerei, le cortesie tra vicini; i tradimenti, gli arresti e la morte. 

Un libro che prende il titolo dal primo racconto della raccolta: scelta che porterà il lettore a vedere come, potenzialmente, “l’innocenza” è un peccato originale che non ci si può sempre permettere nella responsabilità dell’essere nella vita, dell’essere parte di insiemi di comunità che tra loro si intrecciano per legarsi in sicurezza o strangolarsi nell’odio di pochi, accorti, colpevoli.

L’AUTRICE

Helga nasce nel 1937 in Slesia, un territorio tedesco assegnato poi alla Polonia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mentre Helga e suo fratello Peter, rispettivamente di quattro anni e diciannove mesi, erano già stati privati della presenza del padre partito per il fronte, la madre decide di abbandonarli a Berlino per arruolarsi come ausiliaria delle SS; la donna diverrà guardiana nel campo femminile di Ravensbrück, in seguito in quello di Auschwitz-Birkenau. 

I due sventurati fratelli vengono accolti dalla zia paterna presso una lussuosa villa; in seguito, sono affidati alla nonna. Nel frattempo, il loro papà decide di risposarsi.

 La matrigna accetta Peter, Helga viene relegata prima un istituto di correzione e poi in un collegio per ragazzi indesiderati. 

La sorella della matrigna, però, riporta Helga a Berlino: una città ormai devastata dalla guerra. I bombardamenti imperversano e la famiglia è costretta a vivere in una cantina.  È il 1944.

 Zia Hilde lavora come collaboratrice nell’ufficio propaganda del ministro Joseph Goebbels; per questo Helga e Peter si trovano coinvolti nell’operazione propagandistica “I piccoli ospiti del Führer”, conoscono così Adolf Hitler. L’incontro colpisce la bambina che ricorderà un uomo segnato dal tempo e dalle preoccupazioni.

Poi, Helga si sposta con la famiglia in Austria, dai nonni paterni.

Nel 1963 la Schneider si trasferisce in Italia, a Bologna. 

Da allora porta le testimonianze sul Reich nelle scuole, e le diffonde soprattutto grazie ai suoi libri. 

Nel 1971 riesce a rintracciare la madre; riguardo all’incontro l’autrice racconta che la donna è ancora intrisa degli ideali nazisti: è stata condannata dal Tribunale di Norimberga a sei anni di carcere ma invece di fare ammenda conserva ancora, dopo decenni, la divisa delle SS che vorrebbe addirittura far indossare alla figlia. Helga è sconvolta. L’autrice ritenta l’incontro del 1998 con gli stessi risultati.

 Resta l’interrogativo su come il regime nazista possa aver reso le persone così cieche e prive di coscienza sugli orrori per i quali si è stati complici. Una domanda che riguarda ogni dittatura: questi pensieri sono perfettamente espressi nelle storie raccontate da Helga Schneider, la quale ci porta nei suoi ricordi sofferenti offrendo una chiave di comprensione e una possibilità di cambiamento per una umanità che ancora pronuncia parole come “nazista”, “fascismo”, ignorando il peso che quelle realtà hanno abbattuto sul mondo intero. 


PER UN PUGNO DI CIOCCOLATA

MAI ACCETTARE DOLCI DAGLI SCONOSCIUTI. E DAI VICINI?

Indicazioni, commenti e considerazioni

Come era diverso essere bambini, ragazzi, solo pochi decenni fa. Durante la guerra potevi essere facilmente merce di scambio, mezzo di ricatto, carne da macello, inconsapevolmente. Crescere non era una benedizione ma una potenziale condanna alla tortura indirizzata a una morte immeritata, innaturale. Conoscere queste storie, forse, potrebbe aprire gli occhi su quanti semi di odio e criminalità ancora crescono e si espandono tra i piedi di gente comune, per mano di pochi decisionisti scellerati.

Ebrei, ariani; tedeschi o russi; bambini e anziani: tutti armi, tutti pedine di mani che nella segretezza bellica muovono sorti per il potere. Aguzzini e salvatori si scambiano i ruoli: dove l’ideologia e la patria scardinano i valori e rimpiazzano con identikit di nemici e bersagli. Il caso ti fa incontrare un angelo o un diavolo; non si sa per quale fortuito ordine, scompigliato dai regimi e gli eserciti, ti capiterà l’uno o l’altro.

Crepe si insinuano in memorie presenti scarne, che si espandono per lasciare il posto d’onore a un passato comune; dove ti trovavi a barattare una vita, un pezzo di pane, una bicicletta… 

Dodici racconti, dodici documenti, dodici opportunità per chiedersi “perché?”. Quest’ultima è una domanda che instilla il senso di colpa; e a volte ne abbiamo bisogno per caricarci di eredità che si devono riscattare solo radendole al suolo per una totale ricostruzione. Ma, legalmente, prima ci si deve caricare del costo d’appropriazione di ciò che si riceve.

PER UN PUGNO DI CIOCCOLATA, ELI SOMMERS, VOJNÀ KAPUTT!; I DISERTORI, LA BICICLETTA ROSSA, SEP MUORE DI PACE, PÀVEL ANATÒL, FRIEDRICH, L’UOMO CHE AMAVA I TEMPORALI; NOI TORNEREMO! ASPETTANDO IL NUOVO REICH, L’ULTIMA VOLTA CON PETER. RICORDO DI UN FRATELLO; ITALIA, BOLOGNA, 1971. UNA NAZISTA PER MADRE.

Racconti dove qualcuno perde l’anima o guadagna un’uniforme. Dove una donna violentata può scambiare il gesto immondo con attenzioni e affetto manchevoli da anni. Le nuove nascite possono portare il marchio della colpa di altri; o il sigillo per una condanna già decisa prima che una creatura possa vedere la luce. La guerra ti fa abituare a non avere intimità; alla puzza e ai crampi nella pancia. La carità può risiedere ancora dove non si arrende l’umanità: anche un cucciolo di cane può diventare la prova che i cuori spezzati devono passare per ricomporsi. Quando ci si abitua al buio la luce acceca e confonde: gli uomini diventano animali e della specie animale sembrano essere sopravvissuti solo topi famelici, occhi bramosi tra macerie e nascondigli. 

Gli ultimi due racconti sono il prezioso regalo dell’autrice: essa ci porta nella sua stessa sofferenza, che capiamo essere stata disseminata già nei precedenti racconti. La chiusa è l’autobiografia di traumi che hanno trovato riscatto nel servizio agli altri; nella forza della lotta contro il male sempre vigile e in agguato. L’illuminazione della conoscenza del passato protegge l’ignoranza accattivante per chi vuole riempirne il vuoto.

 La Schneider non era ebrea, non era dissidente: essa ci mostra come nessuno fosse al sicuro, come il concetto di “buoni”… “cattivi” fosse altro, quando nessuno poteva essere se stesso ma ciò che la guerra o il Führer ti dicevano di essere. Il dramma di essere nata “ariana”, di essere abbandonata; di essere una bambina inerme in un mondo assassino e folle. 

Un libro potentissimo per lettori che devono voler ascoltare; che devono saper sopportare. 

Dopo ogni altro problema sembrerà quasi un’opportunità. Combattendo insieme a persone comuni si sopravvive da uomini straordinari. Non c’è sempre una parte giusta nella quale stare: dimenticare i simboli è però il primo passo da fare, per poi guardare verso il prossimo… alla pari, come riconoscenti creature di questo mondo. 

Regalatevi l’opportunità che questa lettura vi offre.

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