lunedì 18 gennaio 2021

IL CANTO DEI DANNATI

 

di Jason Ray Forbus

Illustrato da Theoretical Part

Copertina e Tavola 10 di Gianrico Reale

Ph Francesca Lucidi

UNA NUBE OSCURA CI AVVOLGE, PREPARATE LE PUPILLE A FISSARE L’INCREDIBILE

Un albo di cupo vagare, di sonno, risveglio. Un fermarsi del tempo, dove il tempo muove gli ingranaggi che enormi ci sovrastano. Il raccolto di un’esistenza, forse privata della coscienza di sé? e da chi? per cosa? Poche le certezze perché la poeticità ermetica, caustica e danzante, ci invita ad un ballo mascherato: scorgere le forme non è facile nel turbine d’estasi e inquietudine. Le volte di un’oscura cattedrale, i corridoi infiniti di un edificio d’anime e contorsioni; poi lineamenti sensuali che voluttuosi ci invitano al sublime. Cupa cattedrale che ti mostri sopra il logorio di vite che si consumano, e poi si “risolvono” in qualcosa che non ha nome!

 Numerosi simboli e figure, la determinazione spetta al viaggiatore. Tutto è maestoso e resta nella domanda del dove: dentro o fuori di noi?

Una grandezza che atterrisce; eppur si scatena il piacere di una carne che sente lo scuotere dei simboli provocatori. A sinistra le parole: brevi lampi di un temporale insistente… quasi fattosi muro di foschie ed elettricità. Il muro pare anche soffice dell’essenza spirituale che riesce ad emanare. A destra illustrazioni a pagina singola: evocazioni a Gustav Doré; gotiche fascinazioni che riescono a tener ferme vertigini alla Escher. La veste grafica contemporanea, in una carta liscia, lucida e piacevole lega antichità, riferimenti e novità in una struttura che ha le ossa della stessa sostanza del discorso sul tempo che le parole gridano. Urla, ma sommesse e provenienti da un posto profondo.

“Rendere le messi”: ciò che una vita raccoglie va portato presso le porte eterne; il grano è fatto di chicchi di anni, di conteggi autodistruttivi tenuti sulla carta dell’inconsapevolezza di un vivere privato della parola.

“ABBASSAI REVERENTE IL CAPO,

COSÌ COME MI ERA STATO DETTO DI

FARE

IL GIORNO IN CUI MI RUBARONO IL GIOCO E LA PAROLA”

˜

“MA A CHI MI INCHINAVO?”

Il corvo, già presente in copertina, non può non portare la pelle, indurita dal ribrezzo ma tenuta sotto scacco dallo scioglimento che la bellezza provoca ai nervi, a sentire il tocco di Edgar Allan Poe.

Poe scelse il corvo per motivazioni pragmatiche lucidamente espresse nel suo LA FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE. Anche qui ci ritroviamo in un lavoro orchestrato ad arte… ma nulla sarà freddo: bruceremo. Come l’antecedente dello scrittore dell’incubo, il corvo decide il “quando”.

“È TARDI, DISSE IL CORVO

È TARDI”

Ph Francesca Lucidi

Memento mori, teschi ed esseri maestosi che possono evocare il dio cornuto Cernunnos. La “Natura” nel suo senso di vita, morte e potenza si manifesta nella sua essenza divina che sta ma non determina: noi determiniamo… anche il padrone da servire.

Ph Francesca Lucidi

Morte? Incubo? Visione o creazione fittizia? L’incontro tra mente, tumulti e colpe cosa può aprire?

L’uomo può costruire cattedrali magnifiche in terra, forse per cercar di guadagnarsi un ricovero nell’altrove. L’uomo può anche costruire dimore per l’oblio… o è l’oblio che non è vuoto ed è architetto laborioso?

A fine volume il testo è ricomposto e presentato semplicemente su sfondo nero. Giusto il tempo di pulirsi le scarpe, o le coscienze, e forse ci avviamo solo quando siamo alla fine; dipende dal passo e dalle “messi”.

Un albo per collezionisti, per animi artistici che non smettono di cospargere il corpo di nero languore in cerca di un effetto paradosso che faccia emergere dalla carne le essenze più pure. Pagine per chi sa prendere il tempo: sì, aprite le pagine e state lì. Non è facile leggere ciò che non è facilmente disponibile all’uomo che sempre cerca chi dica esplicitamente “cosa”. Non è facile leggere ciò che non è scritto ma c’è.

IL CANTO DEI DANNATI è la speranza realizzata di lavori che sappiano essere diversi, coraggiosi. Una lussuria da perdonare e consumare su un letto di ciglia rapite.

Ph Francesca Lucidi

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venerdì 15 gennaio 2021

L'UOMO CHE PIANTAVA GLI ALBERI

 di 

JEAN GIONO

A PIEDI NUDI, CON UN BASTONE PER NON FERIRE... VENITE A TOCCARE LA VOSTRA UMANITÀ

Ph Francesca Lucidi

CENNI BIOGRAFICI SULL’AUTORE

Jean Giono nasce il 30 marzo del 1895 a Manosque. Suo padre è un calzolaio e sua madre una stiratrice. Autore dalle origini piemontesi e dall’indole così libera da rendere la sua figura inclassifficabile. Si sa che la libertà può generare paura e incomprensioni, specialmente in periodo storico in cui le divisioni sono le spaccature profonde che fanno sopravvivere a stento l’umanità; Giono ne pagherà le spese.

A causa della malattia del padre, Giono abbandona gli studi e va a lavorare in banca. Riesce però a formarsi una solida conoscenza e passione letteraria grazie alle autonome letture della Bibbia, di Omero, di Kipling. La sua modesta famiglia non è affatto gretta e lo incoraggia nei suoi incontri con i libri e la scrittura.

Partecipa direttamente alla Prima Guerra Mondiale, come “soldato di seconda classe senza croce di guerra”. Resta ferito a Verdun, dopo il concedo vede rafforzarsi i suoi ideali pacifisti.

Nel 1924 pubblica la raccolta di versi ACCOMPAGNATI DAL FLAUTO; nel 1927 lavora alla stesura del primo romanzo: LA MENZOGNA DI ULISSE (uscito solo nel 1930), una trasposizione dell’Odissea nel tempo presente.

Atmosfere mediterranee e pagane perdurano nella “Trilogia di Pan”: COLLINA (1929), UNO DI BAUMUGNES (1929), REGAIN (1930). La Natura si pone sempre più al centro degli scritti di Giono, con forza misteriosa e ambivalente. I contadini provenzali diventano i portavoce di questo legame misterico, idilliaco, anche tinto degli aspetti ostili di questa Natura potente e manifestata in tutte le sue espressioni.

Grazie al successo di COLLINA, lo scrittore può dedicarsi completamente alla letteratura. Nel 1931 esce IL GRANDE GREGGE, dove viene rievocato il dramma della guerra in trincea. Poi, la Natura fa il suo ritorno con una voce che ha i toni della predicazione: sono da ricordare IL CANTO DEL MONDO (1934) e CHE LA MIA GIOIA RESTI (1935). Personaggi inviolati come i paesaggi che abitano, strettamente a contatto con le realtà della vita: tristezza e gioia si mostrano senza veli.

Giono è un solitario e al contempo è profondamente interessato all’umanità nei suoi aspetti più autentici, appunto “inviolati”, forti e, a volte, contradditori. La sua osservazione si nutre delle conversazioni che intreccia con i contadini provenzali incontrati durante lunghe passeggiate: così nascerà anche L’UOMO CHE PIANTAVA GLI ALBERI. Una fattoria di Contadour diventa luogo di incontro tra Giono e un nugolo di ascoltatori. “Vere ricchezze” e pace tra gli argomenti delle aperte disquisizioni.

Lo scrittore propone i suoi ideali in numerosi saggi, tra cui PRESENTAZIONE DI PAN (1930) e LETTERA AI CONTADINI SULLA POVERTÀ E SULLA PACE (1938). Nel 1939 viene incarcerato con l’accusa di propaganda antimilitarista. In molti iniziano a posare l’occhio del sospetto sul libero e indipendente Giono. Lui, che aveva dato rifugio a due cugini comunisti, si guadagna anche le accuse degli stessi comunisti francesi. Lui, che aveva dato rifugio a due ebrei e un ricercato della Gestapo, viene accusato di collaborazionismo con i nazisti nel 1944: una nuova prigionia, e un divieto a pubblicare.

Dall’isolamento continua a nutrire il suo spirito: nasce così il ciclo di cronache con al centro la leggendaria figura del nonno dello scrittore, Pietro Antonio Giono, colonnello degli ussari… generoso e appassionato “eroe” del risorgimento. Nascono così MORTE DI UN PERSONAGGIO (1949), l’USSARO SUL TETTO (1951), LA PAZZA GIOIA (1957), ANGELO (1958): commistioni di generi dalla storia d’amore fino all’avventuroso, passando per il racconto picaresco.

Giono si spegne il 9 ottobre del 1970, nella casa di Manosque in cui ha sempre vissuto con la moglie e le due figlie.


L’UOMO CHE PIANTAVA GLI ALBERI

“NON BISOGNA DISDEGNARE NULLA. LA FELICITÀ È UNA RICERCA. OCCORRE IMPEGNARVI L’ESPERIENZA E LA PROPRIA IMMAGINAZIONE.” 

(da Viaggio in Italia di Jean Giono, 1953)

“La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione che non predispone alla virtù.”

Edito da Salani editore nel 2016, con nota sull’autore di Leopoldo Carra e le straordinarie illustrazioni di Peppo Bianchesi, un libro che nella sua brevità incarna il succo dell’impegno nella semplicità e nella fecondità, il senso dell’essere un “atleta di Dio”.

Giono amava la calligrafia: proprio un tratto, un segno nero scaturisce da una penna per farsi figure e significati. Le illustrazioni mescolano le forme della vita con le parole francesi di Giono, che si fanno vento ed erba. Il testo non può prescindere dalla parte visuale del libro, e viceversa. La comunione di queste due forme espressive si fa bandiera di comunità, di collaborazione silenziosa con i sensi profondi della vita. Questo è Giono: lavoro costante senza fatica, schiena piegata senza dolore, serenità e socialità nella solitudine che opera senza conoscere cosa sia l’egoismo.

Ph Francesca Lucidi

lo scrittore bambino camminava con il padre portando ghiande in tasca per piantarle. Dall’esperienza, dai ricordi e dal fervore di chi vuole promuovere un messaggio rivoluzionario parte la storia di pace che riesce anche a spezzare la scia distruttiva dell’umanità, della guerra, della lotta gli uni contro gli altri sponsorizzata dal progresso e dal capitalismo.

L’ordine naturale riesce a parlare attraverso le poche parole scelte di Giono. Sottomettendoci alla Natura, uscendo senza scarpe dal folle antropocentrismo possiamo scoprire una forza generatrice non rinchiusa su sé stessa. Possiamo essere seme, possiamo essere ventre, possiamo essere padri e madri del mondo non solo per capacità biologica ma per volontà dell’animo e libertà del cuore e della mente.

Non ci troviamo dinanzi a un semplicistico idillio bucolico, l’uomo si distacca da un’esistenza vissuta in funzione di sé stessi: la felicità non viene più cercata perché ne diventiamo noi stessi il germoglio. Come? Attraverso la soluzione più semplice ed ardua al contempo: le azioni.

L’eroe di questa storia sembra incrollabile, sopravvive a due guerre, sopravvive alla morte della speranza. Chi è? Una sagoma nera che appare durante una passeggiata dello scrittore in territori aridi, su in una altitudine che riflette un cielo spietato e un vento violento, che paiono essere a loro volta il prodotto di mondo umano sottostante perso nel suo sanguinoso dividersi e guerreggiare. La sagoma nera è un pastore, un uomo dalla casa ordinata, che mangia minestre profumate e si presenta ben sbarbato al cospetto della sua solitudine. Il pastore passa la serata a dividere ghiande, le scruta, sempre il silenzio. Lo scrittore è suo ospite e osserva. Il giorno dopo la morbosa curiosità di Giono gli fa seguire l’uomo: un passo dopo l’altro, un bastone appuntito, buche nel terreno e da un sacchetto umido le ghiande vanno a finire nella terra. Ma di chi è quella terra? Forse tale imponente e instancabile lavoro è per far fruttare una proprietà, per ricavarne un guadagno in denaro… no! Proprio il discorso sulla proprietà si scioglie nell’azione perpetua di un uomo che sfida il vuoto con il lavoro silenzioso. Il pastore si fa creatore. Le evocazioni bibliche si liberano degli esclusivi connotati religiosi per diventare una dimostrazione universale di quanto l’uomo possa avvicinarsi davvero a DIO, ma questa volta non solo per la potenza distruttiva.

Una storia che tiene in parallelo un uomo solo, due guerre e piccoli villaggi dove si muore presto perché si pensa solo all’ambizione di stare da un’altra parte. Vite spezzate. L’uomo buca altrettanti appezzamenti di terra ma non semina vita… sparge morte e sangue. I tratti neri delle illustrazioni si animano di colore solo per enfatizzare la sostanza e il contrasto tra le simbologie della vita e della morte.


Ph Francesca Lucidi

Pensate che un povero pastore solo possa sopravvivere? E per giunta senza l’ufficializzazione e la certificazione di un ente, di un potere. Forse qualcuno oltre lo scrittore aprirà gli occhi. Ma voi, cercate di camminare a passo lento, riscoprite il gesto, perdete l’uso della vana parola. Giono riesce a far scorrere l’acqua nelle crepe, a tingere di verde il rosso liquido della crudele ambizione umana. Ridimensionarsi per diventare assoluti, spogliarsi dell’essere degli uomini per riscoprire davvero la missione che il divino, o se preferite… la vita, ha dato alle nostre mani e ai nostri spiriti. Una lettura schietta, una lettura non adatta a chi ricerca tante parole o intrecci e orpelli. Giono è la ghianda da cui può iniziare a fiorire la varietà più grande della pace espressa nella comune presa di responsabilità del mondo intero… ma partendo sempre da un piccolo sguardo attento, da una mano che leggera si posa su ogni cosa.

“CHI AVREBBE POTUTO IMMAGINARE, NEI VILLAGGI E NELLE AMMINISTRAZIONI, UNA TALE OSTINAZIONE NELLA PIÙ MAGNIFICA GENEROSITÀ?”

 

Ph Francesca Lucidi

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martedì 12 gennaio 2021

LA RIVOLTA DEGLI SCHELETRI NELL'ARMADIO

 di

 J. R. FORBUS

Illustrazioni di Giorgio e Matteo Franzoni, Martina Gianello, Ramadan Ramadani

Progetto grafico interno e impaginazione

 di Sara Calmosi

Edito da Aliribelli Edizioni

Disponibile in formato cartaceo, ebook e audiobook

Ph Francesca Lucidi

L’AUTORE

Jason Ray Forbus non ci dice chi è ma cosa fa… e questo ci dice irrimediabilmente chi è. Forbus sogna a occhi aperti; è continuamente spinto verso l’orizzonte, anzi, verso ogni orizzonte possibile. Ama leggere, scrivere; fantasticare è una necessità, è insito nella natura dell’autore e per capirlo basta addentrarsi in uno dei suoi libri. Sì, le pubblicazioni targate “Forbus” sono tante come anche i riconoscimenti in ambito letterario.

Ph Francesca Lucidi

LA CASA EDITRICE

Parto dall’ultima pagina del libro, e iniziare dalla fine non è strano in un volume che racchiude l’assurdo, ma è un improbabile reso possibile dalla proiezione continuamente attuabile verso il nostro mondo, la nostra storia. La Mission di Aliribelli è fatta di visioni, forme editoriali multiformi, di volontà, appunto, proiettive verso luoghi meravigliosi dove poter far giungere i lettori. Una piccola casa editrice indipendente in crescita, una realtà che vuole abbracciare tutti: piccoli e grandi verso le dicotomie del reale e dell’immaginario. Aliribelli è un sogno reso tangibile da storie di libertà, diversità, voglia di esplorare ogni pertugio per poi, magari, scivolare sull’erba umida e trovarsi in una radura sconosciuta, sotto milioni di stelle.

Questa paginetta dedicata a intenti e “politica” trova perfettamente posto in un libro che parla di diritti, statuti, documenti di diritti richiesti a gran voce. Partire dall’”obiettivo sogno” vi può aiutare a sintonizzarvi su una frequenza distorta. Abituare le orecchie alle onde anomale può far ascoltare delle verità di cui abbiamo bisogno, verità che abbiamo la necessità di ricordare.


LA RIVOLTA DEGLI SCHELETRI NELL’ARMADIO

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Mano sul cuore:

“Giuro eterna alleanza alla Sacra Libertà, fedeltà alla Ragione e amore alla Democrazia!

La tirannia non incatenerà mai il mio spirito; lotterò con ardore, ma senza odiare; resisterò, ma senza fare ad altrui male.

Io giuro nella fratellanza universale!”

Pubblicato nel 2016, il libro in causa (beh, qui di cause ce ne saranno: legali, di quelle degne di apparire in qualche programma superseguito più per morbosa curiosità che per spirito di giustizia)… sì, il libro qui presente non è recente ma è una vera e propria bandiera per la casa editrice e l’autore. Un volume ben strutturato e lavorato nella grafica in ogni minima sfumatura di diversità e cura.

Una storia di oppressione smuove le acque, finanche quelle che ospitano il povero Nessie. No, non siamo in Scozia ma in Inghilterra, più precisamente a Wolverhampton. Una cittadina nota per i primi semafori che ora è fissa sul rosso allarme!


APRIAMO L’ARMADIO: CENNI SULLA TRAMA, ANALISI E CONSIDERAZIONI

L’economia va fatta girare, la politica è un affare anche più grosso. La crisi ha visto saltare teste e test di valutazione del mercato. Ma si sa che nel disastro c’è sempre qualcuno che prospera, strisciando di soppiatto e raccattando le ultime provviste; facendosi ossessionare non dal problema ma dalla soluzione che viene dal problema stesso. “Sir” Desrius ha una onorevole carriera di venditore di sabbia nel deserto; i suoi genitori pare siano valsi molto, come esseri umani? Beh, Desrius ha a cuore gli umani, ma solo perché sono la merce più preziosa sia per vendere sia per investire. Che idea! Un Parco degli Orrori: veri mostri soggiogati da promesse non mantenute, malpagati, sfruttati e invischiati nelle catene della speranza di una pensione dignitosa. I mostri hanno sogni, lo credevate? Dopotutto non sono tanto diversi da noi, ve ne accorgerete.

Ossogrigio sogna di fare il ballerino, il licantropo Walt cerca l’anima gemella, Frankestein è in eterna lotta con la mania di colmare il bisogno di una figura paterna… ed è un filosofo. Desrius assume chi ha sogni; pare che chi ha sogni alti non pretenda di essere pagato il giusto, e pare che chi è convito di essere diverso si accontenti di quello che gli arriva. È un meccanismo sottile e malato: irretire, ghettizzare, privare; incutere paura in modo sorridente e mellifluo. Dai al cane gli scarti, distrailo mentre ti pappi tutta la polpa. La sciocca tronfia sicurezza di chi vive senza “amore” non tiene conto di quanto i sogni non muoiano mai, anche se si è già morti: scheletri, fantasmi, zombie o vampiri. C’è il fuoco di un cucciolo di drago rosso che riuscirà a mantenere il calore dove l’amicizia e il coraggio troveranno la loro voce e la loro forza, tra continui capitomboli, sgambetti e ridicole situazioni zeppe delle stranezze di ogni “attore”. E qualcuno morirà, una seconda volta. Le streghe volano in aria, divise tra vessate e ricompensate: chi si vende guadagna un premio, chi resta fedele patisce ma ancora ha speranza…

Lo Spazio è un posto dove l’uomo ha portato la guerra e l’illusione, gli extraterrestri sono ridotti ad emigrare sulla terra. I centri di accoglienza sono un business che concilia quei due mostri veri che ho già citato: economia e politica. “La paura è un sortilegio davvero formidabile”, il diverso qui ha varie forme, sgradevoli ma autentiche: oltre ai mostri abbiamo creature di altri pianeti che vendono calzini, anche perché i soldi destinati dallo stato per il loro aiuto fa giri pindarici e chissà come mai torna in picchiata assai ridotto; ci sono animali su cui la scienza ha lasciato un marchio, il marchio della deformazione. Ogni diversità è ingigantita dalle dicerie, dal foraggiare fortemente la paura di ciò che non si conosce. Questo libro parla di ogni parte costituente una società, dal lato malsano e dal lato giusto e fiorente. I mezzi di comunicazione; i politici che puntano dita un po' qua e un po' là, perché ricordiamo il sortilegio che tutti ci tiene sopiti e rabboniti. L’unione dovrà lottare contro la divisione ben architettata dai poteri forti. Amicizia, padri e figli, ricatti e redenzioni. Per arrivare alla conclusione forse avrete il mal di testa, a me è venuto! Ma ascoltate:

“Leggete e non perdetevi d’animo se non capite. Nella vita non importa capire tutto, quel che conta è rispettare anche ciò che non si conosce (e se lo dice Frankenstein potete fidarvi).”

Un romanzo allegorico, un fantasy dai tratti gotici che cambia abito ad ogni possibile apertura di armadio. Dietro un sacco di baccano ci sono i sani valori di una comunità giusta.

“TUTTI NOI ABBIAMO IL DIRITTO DI SENTIRCI PARTE DI QUALCOSA, MESCOLARE IL NOSTRO AMORE, E DIVENIRE UN TUTT’UNO CON LE STELLE.”

Ph Francesca Lucidi

AVVERTENZE

Diciamo che il mal testa è dietro l’angolo. La grande foga nel voler dar voce alle diversità porta a una caratterizzazione esplosiva: ogni personaggio o gesto è correlato di particolari espressi senza freni. A volte questa ricchezza tende ad affaticare la lettura, che deve star dietro davvero a molteplici cose che per brevi tratti si possono avvertire come troppe. Magari al prossimo sfogo di libertà doserei leggermente di più i suddetti particolari.

BENEFICI

L’effetto ormesi è dietro l’angolo: un piccolo danno all’organismo che scatena un meccanismo stimolo-risposta positivo. Il mal di testa ci aprirà la mente verso le connotazioni che spesso ci sfuggono, verso le “droghe” innocenti che ci vengono somministrate ogni giorno dall’informazione, dalla comunicazione pubblica; dalle abitudini che ci tengono immobili tra il bisogno di sicurezza e la necessaria libertà.

Il testo si presta a una lettura didattica per i giovanissimi che vivono ogni giorno la xenofobia e il pregiudizio; il loro livello cognitivo può essere sbloccato attraverso emozioni, risate e lacrimucce. I grandi riescono a cogliere perfettamente le allegorie e i rimandi alla nostra storia reale, alla nostra storia sociale, politica ed economica: un senso di riconoscimento e rivalsa potrebbe farci finalmente camminare a due zampe!

“Invito tutti voi a riflettere su questa semplice considerazione: se il mio vicino ha di che vivere (o non-vivere) ed è soddisfatto, allora vi sono buone probabilità che non invaderà la mia casa; d’altro canto, se il mio vicino è povero e infelice, è probabile che sarà costretto al furto. La tirannide arricchisce uno per impoverirne molti; ci tiene divisi e in costante lotta gli uni contro gli altri”.

PICCOLA CHICCA: in allegato al libro una mappa molto speciale! Un bel poster per i piccoli e un elemento visuale stimolante per gli adulti “viaggiatori”.


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sabato 9 gennaio 2021

IMPRONTE

 UNA RACCOLTA POETICA 

di SIMONE CHIANI

Ph Francesca Lucidi

INFORMAZIONI SULL’AUTORE

Simone Chiani nasce a Viterbo nel 1997, si forma in campo umanistico con una laurea in Lettere moderne e applica vocazione, erudizione e passione nel suo lavoro come giornalista e scrittore. Nel 2018 pubblica la raccolta poetica Evasione, Prosimetro.

INTRODUZIONE: ATTRAVERSO LA MISSIONE DEL POETA

Edito da Ensemble, nel 2020.

“IL MONDO CHE HAI INTORNO NON VALE QUELLO CHE HAI DENTRO”

Dal sottotitolo dell’opera partiamo con un interrogativo sulla nostra visione esterna, immediatamente identificata come limitata, oscurante il mondo interiore. Ciò non deve far pensare a un rifiuto del reale; il poeta propone una riappropriazione del tutto, come? Attraverso una nuova concezione dell’elemento che maggiormente regola, ingabbia, il sentire e il vivere: il tempo. Chiani non rifiuta la relazione con il mondo, e specialmente con l’altro; è esattamente il contrario. Ciò che viene posto in discussione è il meccanismo delle nostre fisiologiche rappresentazioni del reale, così intrappolante nella corsa del tempo che fugge; che contiamo, che subiamo nel senso perenne del cammino come proiettato verso una fine, non verso un futuro che si costruisce in attimi.

La poesia è vista come il mezzo per avvicinarsi al cosmo, specialmente quello interiore. Il “sentimento poetico” viene chiamato in aiuto, per riunire un’umanità definita “dispersa” perché lontana dalla consapevolezza del sé: priva di un sano dialogo interno, anche se tumultuoso ma autentico. Convivere con il prossimo, comprenderlo, fare comunità… azioni dipendenti dall’insegnamento del sé con il sé. Partire da cerchi più piccoli, riappropriarsi da ciò che a noi pare minuzia: l’attimo.

Il tempo può non essere subito se ogni attimo dell’esistenza viene visto, riconosciuto e incarnato con potenza. Si può creare un tempo “personale”; perché la vita, come il reale, è mutevole e sfuggente. Il rapporto causa-effetto ci invischia in ricerche che si perdono perché tutto ciò che possiamo vedere al di fuori di noi è sempre diverso. L’unitarietà anelata nel livellamento delle contraddizioni è impossibile da trovare, anche solo scorgere. Anzi, le contraddizioni sono ciò che l’artista restituisce all’umanità; non per lanciar dubbio, ma per fa sì che quel dubbio diventi naturale, finanche bellezza.

L’Impronta è il simbolo di questi concetti: esse mutano, sono dipendenti dall’azione momentanea che la genera. Il calco, il passo e ciò che è calzato determina una sequela di attimi, vissuti, stasi e movimenti che sono irripetibili; ma coerenti in quella sfuggevolezza che vuole che ogni passo quasi annulli il precedente; non per cancellarlo ma per rinnovare, sempre.

Poesie, impronte e momenti di vita sono un tutt’uno per spingersi verso l’incarnazione delle proprie, uniche, verità. Il sottotitolo non sminuisce il reale ma ci fa ripartire dal nostro interno; rendendoci liberi da un punto di vista che risente delle cose che sfuggono, cambiano e muoiono al di fuori di noi.


LA STRUTTURA

IMPRONTE riprende la precedente opera, EVASIONE. Questo per riprendere la mutevolezza, per togliere i punti fermi e riaprire il flusso, lo scorrere. La presente racconta è divisa in tre sezioni: “Passo Sbadato” che in una non omogeneità, nella semplicità di una forma che riprende la scrittura automatica, vuole mimare un certo tipo di impressione sul suolo del vivere, e dell’esperienza di lettura; “Passo Spedito” dove le linee si fanno più definite e la razionalità è uno degli appoggi; “Passo Calcolato” in cui il calcolo domina ogni aspetto. In questo ultimo caso l’autore ci parla di un lavoro “dispendioso”.

I tre modi sono tre approcci, sono tre forme della poesia e altrettante incarnazioni del reale e dell’esperienza di lettura, per chi vorrà affrontare la sfida di una pacificazione con il tempo e la bolla più grande dove viviamo in tante bolle più piccole.

Chiani riprende le forme canoniche della poesia della grande tradizione: il sonetto, l’ottava… poi troviamo strutture più libere abitate da versi, però, sempre canonici.


ANALISI E CONSIDERAZIONI: CALCANDO LE IMPRONTE

Il primo “Passo” ci accoglie nella fuggevolezza e nell’intangibilità; ciò non è bloccante ma genera il muoversi dell’esistenza. Questa parte inziale  si avvia con brevità che inneggiano alla follia, all’intuizione di un momento fatto della visione di un filo d’erba. L’amore, la donna e lo stare insieme che dilata il tempo, e per un frangente pare vincerlo. Nel sentimento con la femminea insegnante, colei che ferma e dilata, ecco che il poeta si sente esistere; perché in quegli attimi vissuti intensamente… è proprio lì che l’esistenza abita. Così l’uomo si attacca alla sua donna, ma in questo primo passo si “sfoga” e rinasce in poesie a lampi, a fiammate. Il poeta si fa fenice, grazie al suo vestire il vuoto per scrollarselo con il bruciare del vivere completo. Il vuoto completa; cosa non paradossale per le filosofie che riuniscono gli opposti.

Lo sfogo del poeta, però, non deve essere un abbandono alla tempesta: questo concetto ci accoglie nella seconda parte, la quale il Chiani ci aveva spiegato come più razionale. La prima lirica “Idilliaco Momento” pare un respiro più profondo, dopo gli stralci brevi e le sferzate caustiche o sentimentali della parte iniziale della raccolta. Un incontro con la donna amata, la natura, un tutt’uno che segna un’unione dove le brutture sono solo lontane; poi arriva il pensiero cosciente tra l’estasi, giunge il distacco e tutto è ricordo.

“C’È BISOGNO DI ORIZZONTI” è, a mio avviso, uno dei momenti più alti della raccolta. Proprio perché mantiene le promesse introduttive, dove l’erudizione vuota deve lasciar spazio ad altro, nonostante una sapienza nel maneggiare i materiali della tradizione e le conoscenze sulla poesia. In realtà, in alcuni momenti, ho avvertito la pesantezza della conoscenza, della formazione tecnica del poeta; mi sono sentita distaccata dal sentimento che nella terza parte pare abbandonarmi, ma qui ci troviamo ancora nel “Passo Spedito”; godiamoci questi versi, insieme:

“C’è bisogno di orizzonti

per sapere dove andiamo,

remoti e inviolati

devon sempre rinnovarsi:

 

se conosco il traguardo

non ha senso la strada;

acquisiamo un senso

quando ci lasciamo al caso.”

Qui ho avvertito davvero il mantenimento e l’esplosione della missione del poeta; che poi sa anche affilare il suo coltello e mostrare le aberrazioni di una comunità di pecore sopite. Ma chi veglia e vede? “l’uomo d’adattamento”.

Ciò a cui siamo abituati, il far come la rondine che non si gode la primavera perché pensa all’inverno, non è l’adattamento che per noi può essere sopravvivenza:

“Smettiamo di vivere quando

in un istante non ben definito

iniziamo a pensare al dopo

lasciando alla morte tutto ciò che rimane

e precludendo l’istinto al futuro.”

Questi, tra i versi che più mi hanno fatto sentire l’impatto dell’invito a vivere a pieno. Ma il poeta non si calma, a volte vaga. Il coinvolgimento sentimentale può inciampare su termini aulici, desueti; il cammino ci introduce alla terza parte dove le fulminee comparse di un “sentimento nero”, le fiamme che sanno incendiare una città spenta; Il “come” che rivendica il suo trono usurpato dal “quando”, ci abbandonano e sento la formazione umanistica del Chiani prendere il sopravvento.

Il “Passo Calcolato” mi ha trovata persa in sonetti ben calibrati, ma forse, a mio parere, appena un po' troppo lontani dal poter coinvolgere quella società dispersa la cui capacità di attenzione non resiste neanche con la benedizione di Dante o “Giacomo”. Tra queste pagine, però, un titolo: “QUANTISTICAMENTE IMPERFETTO”; tra i versi ritrovo il senso e…

“Tutto ciò che occorre sapere

non è dato saperlo

piuttosto il conosciuto

non occorre di certo.

È così deciso: da sempre

in qualsivoglia caso

avremo l’inutile

e mancherà il necessario;”

[…]

Le stesse parole del Chiani possono dar voce a impressioni che ho avvertito nella terza parte, e hanno trovato ristoro in liriche come quella da cui vi ho estratto questi versi giusti. E non parlo di conteggi ma di coerenza tra intenti, spinte e reazioni sperate e su questo tono raggiungibili.

Al temine di IMPRONTE, il camminare porta sotto la luna; lì dove mi sento a mio agio, e dove anche il poeta pare trovare una muta risposta che riconcilia.

“giova più

folta lode d’immeritati inganni

o a te

modesto elogio di tersa realtà?”

Credo che il poeta si stia interrogando anche su di sé, sulla poesia e non solo su quell’esteriorità per la quale conoscenza e ridimensionamento ci accompagnano. Cosa risponderà la luna? Sta a voi scoprirlo, scegliendo di leggere IMPRONTE; alimentando ancora il popolo di chi vuole la poesia e rivendica l’alto sconvolgimento dell’animo in visioni intime, che però possono essere di tutti.

Ringrazio Simone Chiani per avermi gentilmente donato la sua opera.


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mercoledì 6 gennaio 2021

LA VECCHIA DEI CAMINI. Vita pubblica e segreta della Befana

 

Di CLAUDIO LAPUCCI (Saggistica Breve per Graphe.it Edizioni)

“Viene la Befana,

vien dai monti a notte fonda.

Com’è stanca! La circonda

neve, gelo e tramontana.

Viene viene la Befana”

(Dalla poesia LA BEFANA di Giovanni Pascoli)

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE AL SAGGIO

Edito nel 2018, un piccolo saggio che propone un discorso sui significati e le tradizioni dell’Epifania, ormai sempre più legata alla figura della Befana e meno identificata esclusivamente con il valore che riveste per la Cristianità. Il tutto in meno di cinquanta pagine. Un breve sguardo per i curiosi, per gli amanti della storia; o semplicemente per gli affezionati della nostra cara Befana. C’è chi crede nella magia, o chi la vuole confutare… beh tutto questo gruppo di lettori variegati può trovare non pochi spunti dalla nutrita bibliografia. Le pagine di Lapucci sono un inizio, uno sguardo multidirezionale che può farci giungere in case di Orchi o in boschi “infestati” dalle fate (sì, infestati). Una lettura che si interrompe per un rumore furtivo o un’ombra che sfugge da un pertugio. Vecchi rancori della storia per chi fece del male, o non fece del bene, e forse diventò la Befana. Si cita la nonna di Nerone, Il Cireneo; la moglie di Pilato che espiò anch’essa. A proposito… molti monti della Alpi portano il nome di Pilato, c’è chi dice che proprio lì trovò esilio. Attenti alla buona cura, anche verso gli animali: essi tra loro parlano e svelano le nefandezze dei padroni, alla Vigilia di Natale e per altri nella notte dell’Epifania. Le filastrocche raccontano di consuetudini, timori e insegnamenti che all’uomo servono e che la Befana circondano per farne il vessillo; e vi riporterò spezzoni presi dal testo, mi sono piaciute immensamente queste interpolazioni: l’odore del folklore e del camino che ti entra nel naso, mentre il pane riempie l’aria e le cose di una volta tornano a parlare con forza. Un merlo, un gatto o un moscardino… da vicino il mondo che non notiamo ascolta e vede; sta a noi esser giusti e gentili. Dopotutto il dolce sapore del dono ricevuto fa lo stesso effetto di quando si masticano parole gentili o si portano alla bocca le mani degli altri per accoglierle e baciarle, anche simbolicamente.

Documenti storici e “Befanotti”, burle e vendette per il tirchio. Aria di Carnevale… e no è un caso. Portiamo in trionfo la Vecchina, il simbolo dell’eredità, del rinnovamento e del bilancio; la giustizia umile, il dono e il monito. Credere nell’invisibile aiuta a non abituare gli occhi solo a quello che ci si para davanti, a non essere schiavi di un progresso che priva di retaggi o di consuetudini che permettono aggregazione, insegnamento e, perché no, una bella dose di divertimento. Ma voi sapete dove abita la befana? Pare che in Toscana qualcuno sia stato a casa sua, ma una volta visitata la casina “magica” è impossibile ritrovarla. Il luogo, quasi esatti, ve lo svelerà la lettura.

LA BEFANA: GUARDANDO DA OGNI LATO, ASCOLTANDO OGNI ANTICO BISBIGLIARE

La Befana è un essere antico, una forza ancestrale che nasce come personificazione della natura, nelle apparenze più povere, semplici. Dall’amabilità delle tradizioni contadine inizia a prendere i connotati bonari: una vecchia che porta i doni di notte, e conosce le verità dei cuori e trascina via con sé feste ed energie dell’anno passato. Una nuova opportunità, seguita a un monito che può avere la sostanza del carbone, l’odore dell’aglio o della cipolla, l’inconsistenza penetrante della cenere.

È innegabile che siamo affezionati alla Befana; alla sua soppressione della festività, decisa nel 1977, la gente non reagì bene… nel 1985 fu ristabilito “l’ordine naturale” e la Befana tornò.

Ma come è fatta la Befana? Sappiamo che veste mucchi di panni rattoppati, ciabatte o scarpe rotte. Ha il naso adunco e la pelle rugosa; è piegata dagli anni ed è schiva e silenziosa…  ma badate che tutto vede e ascolta, sempre. Meglio non sorprenderla durante il suo lavoro: oltre a scappare non tornerebbe mai piu! E qui la tradizione è una legge, non una diceria. Nella sua umile solennità, la vecchina è accompagnata da un bastone o gerla; si serve di una scopa o un ciuchino per attraversare lo spazio e caricarsi di doni o oggetti simbolici. Vive in luoghi remoti, per lo più in cavità delle montagne, nei boschi… e per questo è amica dei boscaioli. Frequenta le carbonaie ed è sempre ricoperta di fuliggine. Lei sa che nell’uomo non alberga solo il bene; pare, addirittura, che durante l’anno cammini sui tetti delle case, di notte. Lei ascolta e conosce le azioni dell’uomo, non solo dei bambini. Questa energia perpetua, che lei rappresenta, porta con sé l’anima pagana della ritualità naturale: ogni cosa vivente si spoglia della vecchia vita.

Non è un caso che sia legata al focolare; c’è da dire che anticamente le case erano molto basse e le canne fumarie potevano permettere a un uomo alto di trovarsi con la testa nel cielo e sotto le stelle.

Il saggio ripercorre tradizioni passate di porta in porta, da focolare in focolare; perché è proprio quest’ultimo luogo a rappresentare il cuore della famiglia, la sacralità della casa, e l’agente magico e purificatore delle mura domestiche.

Molte altre sono le usanze legate al fuoco; è da ricordare il CEPPO: la parte del tronco che sta tra le radici e la parte dell’albero che si dirama. La simbologia richiama il punto di unione tra cielo e terra. Si soleva scegliere un ceppo e bruciarlo alla Vigilia, per alcuni doveva durare fino a Capodanno, per altri doveva arrivare fino all’Epifania. Questo pezzo di legno veniva persino benedetto o ornato; il saggio cita numerose consuetudini legate a località disparate, anche lontano dall’Italia. In alcuni angoli della Francia si soleva conservare parti del Ceppo: nel caso si fosse cambiata abitazione, schegge venivano bruciate nel nuovo focolare e altre parti venivano sepolte lungo i muri esterni. Da noi è conosciuta persino una AVEMMARIA del Ceppo. Fuoco e cenere, vecchiaia… il senso e il significato della morte sono fortemente legati alla magia purificatrice e istruttiva che circonda il folklore di molte notti di festività.

E Gesù Bambino? Il suo culto fu introdotto nel XII secolo; anche in questo caso si pensava potesse proteggere le case, e un bambinello veniva sotterrato nelle fondamenta delle abitazioni. Ma il ruolo della Vecchina pare il più antico e longevo: nella COROGRAFIA FISICA, STORIA, STATISTICA DELL’ITALIA dello ZUCCAGNINI il bambinello non compare nella veste di portatore di doni; contando che il trattato è vastissimo e copre il periodo che va dal 1835 al 1845.

Neanche I RE MAGI hanno offuscato la funzionalità della figura della befana e le sue simbologie: i fantocci a forma di vecchia bruciati come buon auspicio; ciò nel corso del tempo, dato che prima si facevano solo dei grandi falò e la direzione del fumo veniva ben guardata per prefigurarsi il raccolto futuro. La befana è un sacrificio della vita, è anche energia che si estingue per ritornare. È eredità, simboleggiata dai doni; è il raccolto che l’uomo fa di ciò che ha prodotto durante l’anno in termini di azioni buone. I MAGI rappresentano più la regalità del divino, la Befana la vita semplice e la povertà; non dobbiamo stupirci che le genti si siano maggiormente riconosciuti in essa. RE portatori di doni e Vecchina hanno in comune la capacità di fare un viaggio lungo in breve tempo; è da ricordare, però, che i Magi hanno impiegato tre giorni per giungere al Salvatore e numerosi anni per tornare a casa. Lapucci ci indica come più completa storia dei Re Magi l’opera di GIOVANNI HILDESHEIM, carmelitano tedesco del XIV sec.

LA BEFANA E IL CARNEVALE: CORTEI E MASCHERATE

Le celebrazioni popolari raccontano di numerosi cortei, di trionfi grotteschi. I fantocci del Carnevale e le “vecchie” da bruciare; in entrambi i periodi si prefigura un ordine nuovo e una diversa stagione. Lapucci ricorda la descrizione delle feste legate alla Befana dell’Abate Gaetano Buganza che, nelle POESIE LATINE (1786), racconta delle strade di Firenze zeppe di gente che canta, urla e fa schiamazzi; mentre una Befana viene portata in trionfo su una sontuosa carrozza. Le persone brandiscono una scopa, e la “nobile” figura sorride.

Il saggio ci parla di cortei, in alcune località ancora praticati, nei quali comitive mascherate battevano le vie paesane, le case poderali, le fattorie; anche i luoghi dove si lavorava anche di notte, come i frantoi. Questi gruppi cantavano e portavano allegrie e buon augurio; manifestazioni associabili alle questue della notte della Vigilia di Natale, con differenziazioni per territori e periodi storici. La Befana spesso accompagnava questi figuri mascherati, tutti recitavano esilaranti scenette nelle quali la trama era quasi sempre la stessa: una giovane deve maritarsi, la Befana vuol rubargli l’amato e nasce una baruffa che porta la Vecchina a un malore o addirittura alla morte. Interviene il dottore che prescrive salsicce, dolci e vino… ed ecco che avviene la resurrezione con annessa raccolta dei beni salvifici. Non essere visitati era quasi un affronto, non rispondere alla “bussata” implicava reazioni verbali niente affatto gentili. L’Italia centrale lascia diverse testimonianze in merito a questa usanza; la bibliografia chiarifica fonti interessanti.

CHI ERA LA BEFANA? NOMI FAMOSI ED ESPIAZIONI

Si narra che Ponzio Pilato e sua moglie, Claudia Procula, andarono in elisio nelle Gallie o sulle Alpi. Lui morì e la donna espresse la volontà di espiare la colpa del consorte che mandò a morte il Salvatore con la sua indifferenza. Claudia divenne la custode delle anime dei bambini non battezzati, che sarebbero rimasti con lei fino al Giudizio e oltre, in un giardino fiorito. In Alto Adige si racconta che la consorte di Pilato fosse diventata una specie di fata, chiamata Frau Brechta. In altre tradizioni religiose si parla di un pentimento di Pilato, il quale è anche stato fatto santo dai Copti, i Cristiani d’Egitto.

Il Saggio cita diverse “trasformazioni” in qualcosa di simile alla Befana. È chiamata in causa anche la nonna di Erode. In Trentino, invece, la consorte Erodiade pare si fosse trasformata in fata; viene chiamata Redòsega o Redòsa, dal numero “dòdese” (dodici) perché pare appaia a mezzanotte.

Elementi che intrecciati tra loro avrebbero contribuito a formare e arricchire la figura della Befana, con le sue caratteristiche.

L’ELEMENTO MAGICO

Nel MALMANTILE (1668) di Lorenzo Lippi, Il Minucci nelle note parla della Befana come di uno spauracchio usato per spaventare i bambini. Addirittura, pare esistessero due figure: una buona e una cattiva.

Il Nieri ci parla di fate, lontane dall’immagine fiabesca a noi nota. Le fate possono essere buone o cattive, passano per le abitazioni e non amano le persone poco gentili. In Abruzzo, nella cittadina di Penne, si narra di una fata vestita di celeste con un cappello a cono sulla testa… attenzione, non fa magie ma si siede su di voi mentre dormite per rubarvi il respiro. Le fate della tradizione hanno un viso rugoso e non affascinante, e sono piuttosto vicine al mondo delle genti, osservando.

La Befana pare una strega, ma ha mantenuto i connotati assolutamente buoni e positivi. Come una strega vive da emarginata. In Toscana si narra che un filo di fumo si possa intravedere tra monti e cime degli alberi; la tradizione locale è chiara: la Befana abita a Coldevento. Piccole tracce, modeste entrate; se si fa attenzione si può accedere alla casupola della Vecchina, posto che presenta anche un magazzino colmo di giocattoli e carbone. La leggenda, però, racconta che se si vuole ritrovare l’abitazione della Befana una seconda volta resteremmo delusi, è impossibile. Dimenticavo che la Befana ha altresì fieno e stalle per nutrire e accogliere i ciuchini che lavorano per lei.

In merito agli animali si sussurra molto: le spie della portatrice di doni o rimproveri silenti sono molte. Corvi, merli, gatti e topini; queste bestiole sono spesso associate anche alle streghe, nel nostro caso fanno da informatori per distinguere i buoni e i cattivi. Una leggenda narra che alla Vigilia di Natale, o nella notte dell’Epifania, gli animali parlino tra loro. Sempre in Toscana, i bovi direbbero così:

«Biancone!»

«Nerone!»

«Te l’ha data la ricca cena il tuo padrone?»

«No, non me l’ha data»

«Tiragli una cornata!»

L’origine della credenza sarebbe da attribuire a una distorsione popolare delle profezie messianiche che la Chiesa legge nella liturgia natalizia. In particolare, quella di Isaia (11-6,8):

“Il lupo dimorerà con l’agnello;

il leopardo si sdraierà accanto al capretto;

il vitello e il leoncello pascoleranno insieme

e un piccolo fanciullo li guiderà.

La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;

i loro piccoli si sdraieranno insieme.

il leone si ciberà di paglia, come il bue.

il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;

il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso”.

Il saggio è acquistabile ad un prezzo di un euro e novantanove, se vorrete avere spunti curiosi il testo potrebbe essere una breve lettura stimolante.

Vi lasci con la parte finale di una canzone sui Magi e l’Epifania, raccolta nel Mugello:

“Buona gente, è qui finita

questa storia se è gradita,

tocca a voi or farvi onore

per la festa del Signore.

 

Gira, gira padroncina,

la dispensa e la cucina,

anche voi girate, sposa,

e donateci qualcosa

per far festa in allegria

per la Pasqua Befania.”

 

L’elemento Pasquale non può che richiamare la rinascita auspicata da tutte le tradizioni che hanno amato, e amano, celebrare la morte invernale della natura.