domenica 10 maggio 2020

“TOTUS MUNDUS AGIT HISTRIONEM

IL TEATRO ELISABETTIANO E GIACOMINIANO

E

 IL “GLOBO” RAPPRESENTATO DAI DRAMMI SHAKESPEARIANI

TOTUS MUNDUS AGIT HISTRIONEM

Img. Pixabay

Shakespeare emerge come autore all’interno di una galassia semantica e culturale complessa.
Oggi i modi scenici sono profondamente cambiati, come anche le condizioni caratterizzanti il lavoro del palcoscenico. È naturale pensare i personaggi muoversi e dar vita al testo secondo ciò che conosciamo. Il teatro ai tempi del “Bardo di Avon” era un cosmo diverso dagli scenari che nella mente ci costruiamo e mettiamo in movimento leggendo un suo dramma, e lontano da ciò che i nostri sensi vivono in una rappresentazione contemporanea.

I testi stessi di Shakespeare furono condizionati dalle convenzioni del teatro elisabettiano e giacominiano. Per comprendere quei testi, per afferrarne a pieno i modi e i contenuti, dobbiamo situarli in uno specifico ambiente artistico e fisico. La configurazione spaziale, temporale e culturale fu ciò che permeò ogni dramma dalla concezione, alla realizzazione… alla resa e percezione.

Il lasso temporale parte dal regno di Elisabetta I (1558-1603), attraverso quello di Giacomo I (1603-1625)… fino alle profonde crisi politiche, sociali, spirituali e anche culturali del regno di Carlo I (1625-1649).

Fare teatro era “rivoluzionario”, era un’attività che infastidiva molti e fu soggetta a molte regolamentazioni: ricordiamo che nel 1642, alla fine, arrivò la chiusura dei teatri dopo anni di intolleranza da parte della borghesia puritana; questo alla vigilia della Prima Rivoluzione Inglese.

Il primo teatro  ̶  vicino a quello che oggi potremmo considerare tale  ̶  fu costruito nel 1576 fuori dal centro storico di Londra: il The Theatre. Poi venne il The Globe che sfortunatamente andò a fuoco, per un incidente, nel 1613, e fu ricostruito poco lontano dal luogo originario solo tre secoli dopo e inaugurato nel 1996.


SHAKESPEARE “UOMO DI TEATRO”

                                                            William Shakespeare, John Taylor (?), inizio XVII sec.

Negli anni ottanta del 1500 sono riscontrabili le prime testimonianze dello “Shakespeare attore” presso la compagnia Lord Chamberlain’s man. Come drammaturgo ci è noto dal 1592… i suoi drammi sono quindi il frutto della sua esperienza come professionista della scena. Shakespeare era anche tra i proprietari del Globe Theatre, e di quest’ultimo come del BlackfriarsTheatre era anche azionista: sharer.

Allora non esisteva il copyright e i copioni venivano venduti alle compagnie alle quali il drammaturgo cedeva l’opera per un forfait. Ciò non significa che Shakespeare non fosse attento al lato economico: aveva da perdere sotto molti punti di vista da un fallimento… a ragione della sua presenza a tutto tondo nella scena del teatro elisabettiano. A tale proposito ci sono molte testimonianze riguardo cause legali verso inquilini morosi: Shakespeare aveva molti interessi economici che curava con dovizia.


LA FRUIZIONE DEI DRAMMI

Shakespeare sposava in toto le ragioni della scena per rendere le opere accessibili a tutti: dalla ricchezza intellettuale e retorica apprezzabili da una ristretta cerchia, alla presa in considerazione delle condizioni e delle modalità di istruzione delle masse e all’attitudine delle percezioni di quest’ultime. L’istruzione presso le grammar schools, presso cui aveva studiato anche Shakespeare presso Statford, predisponeva ai modi della retorica… specialmente si aveva bene a mente le strategie e l’importanza dell’elocutio: della persuasione. Anche i sermoni religiosi erano piuttosto lunghi quindi si può dire che nel periodo storico dove i teatri, nonostante mille difficoltà, diedero vita alle messe in scena più note e fondanti si era mentalmente e sensorialmente pronti a spendere una grande quantità di tempo per “ascoltare”qualcosa.

Si usava dire “Hear a play” ossia “ascoltare un dramma”; si puntava così a soddisfare non solo l’occhio ma anche a coinvolgere le orecchie degli spettatori. La poesia e l’azione scenica vengono così a compenetrarsi e a influenzare i testi e le scelte dei drammaturghi e dello stesso Bardo.

Ogni pagina scritta nasceva in relazione alla compagnia e alla struttura scenica di destinazione.


TEATRO COME DOMINIO DELL’ATTORE

I personaggi stessi inventati dal drammaturgo venivano pensati per specifici attori, nel caso di Shakespeare per determinati personaggi dei Chamberlain’s Men o dei King’s Men. Amleto fu scritto, cesellato e cucito per l’attore Richard Burbage.

Anche lo spazio fisico era una condizione tenuta in considerazione con molta attenzione, in primo luogo il teatro “pubblico”, all’aperto, appartenente alla compagnia di Shakespeare.

La forma del teatro pubblico elisabettiano incise sugli aspetti esteriori e meccanici dell’intera messa in scena, a partire dal numero dei personaggi fino alla loro disposizione. Le ragioni profonde della drammaturgia shakespeariana risiedevano proprio in tutto questo.

Harold Bloom sostiene che Shakespeare abbia inventato “l’uomo moderno”, così, tout court: l’esplorazione della soggettività umana, in realtà non sarebbe stata possibile senza quel particolare veicolo teatrale.

Il soggetto era AL CENTRO. Ogni gesto, intonazione o uso della voce, costume... ERANO LO SPETTACOLO!

Era tutto nell’azione: ogni battuta costruiva il personaggio e l’ambiente e il tempo. Nel teatro elisabettiano la scenografia era pressoché assente e spettava all’attore la costruzione del contesto, le suggestioni materiche di qualcosa che materialmente era quasi invisibile.

Tra attori e pubblico vi era un tacito patto: i segni teatrali erano il simbolo di una realtà immensamente più vasta.


LA STRUTTURA

Il palco era aggettante: il thrust stage era, relativamente, senza ostacoli. Gli unici aspetti fissi erano la frons scenae, il fondo della scena, ornato di pitture… e al cui interno si aprivano due o tre porte di ingresso e uscita; i due pilastri di legno che simulavano colonne di marmo che sostenevano il tetto sopra il palco. Forse tale organizzazione era l’evoluzione degli spazi informali di piazze e cortili delle taverne, utilizzati in precedenza per le rappresentazioni e che richiamavano aspetti del teatro greco-romano.

All’attore era destinata l’intera responsabilità di essere la FONTE dell’attrazione del pubblico. Il teatro era un teatro di AZIONE SCENICA e di PAROLA. Il lavoro del drammaturgo concepiva la poesia che acquistava braccia e gambe attraverso la “possessione” dell’attore. Anche se le genti erano avvezze all’ascolto, come già detto, le rappresentazioni erano brevi rispetto ai tempi contemporanei: la durata di uno spettacolo era di circa due ore e ciò era reso possibile da tagli e una certa rapidità di recitazione aiutata dall’assenza di scenografia.


IL TEATRO COME IL MONDO, IL MONDO COME UN TEATRO

Ciò che caratterizzava i teatri ai tempi di Shakespeare era soprattutto la MULTIDIMENSIONALITÀ.

Il Globe era largo circa 15 metri e profondo 8: una straordinaria ampiezza di certo. Queste misure erano il contenitore abile a ospitare tutti gli attori di un dramma che spesso si dovevano trovare in scena contemporaneamente… perché il tempo e lo spazio si sovrapponevano in una disposizione che oggi avremmo difficoltà a comprendere ma che all’epoca era consueta e straordinariamente funzionale.

Ricostruzione del Globe Theatre, realizzata da Joseph Q. Adams nel tardo XIX secolo. P
Ph. by Folger Shakespeare Library which was uploaded on February 7th, 2017.

Una compagnia poteva essere composta dai 14 ai 18 attori. A volte personaggi che erano in “luoghi” diversi si trovavano sul palco in contemporanea. Solo il tiring house, lo spogliatoio, era l’altro luogo in cui gli attori si avvicendavano nell’alternanza delle entrate e delle uscite.

I plays elisabettiani non erano divisi in atti e scene: ciò era determinato dall’avvicendarsi dei personaggi sulla scena. I gruppi di attori in entrata e in uscita erano invisibili tra loro… e questo era assolutamente consueto per chi assisteva, e per chi doveva scrivere la storia… che nel caso di Shakespeare è diventata “storia” nel senso più ampi del termine.

In Hamlet, nella scena quarta del primo atto, il fantasma conduce Amleto lontano da Orazio e gli altri presenti uscivano da una porta per rientrare subito da un’altra entrata. Ogni porta era un “passaggio” non solo spaziale ma ideologico e narrativo.

Anche la DIMENSIONE VERTICALE aveva un ruolo fondante e assai suggestivo e stuzzicante.

Il palco era sollevato di circa un metro e mezzo e vi era, quindi, un sottopalco. Questo particolare probabilmente era un retaggio dei pegeant… carri tardomedievali utilizzati per la performance in piazza dei morality plays e dei mistery plays: in entrambe le rappresentazioni il sottopalco aveva una finalità simbolica. Quell’area sottostante era per così dire… OFF LIMITS: vi abitavano diavoli e spiriti maligni che entravano e uscivano tramite una botola. La sopravvivenza della simbologia religiosa nel teatro laico è innegabile. Gli attori elisabettiani continuavano a battezzare la zona come HELL (inferno), anche dove non aveva un ruolo diretto. Il soffitto del palco, decorato con costellazioni e pianeti, veniva invece familiarmente chiamato HEAVEN (paradiso).

Il dramma shakespeariano rappresentava l’uomo nel suo dibattersi tra il “cielo” e la “terra”… sospeso tra “inferno” e “paradiso”.

Il nome del secondo teatro della compagnia di Shakespeare, THE GLOBE, allude alla nozione di THEATRUM MUNDI: un teatro del mondo intero era lì dinanzi allo spettatore, all’uomo. Su quelle tavole si poteva viaggiare nel tempo e nello spazio e tutte le tipologie umane e psicologiche potevano essere rappresentate, da uomo a uomo… da bocche parlanti a orecchi attenti.

Il motto sovrastante la porta del teatro di Shakespeare recitava: “TOTUS MUNDUS AGIT HISTRIONEM”… e per capirne la traduzione simbolica e non letterale… basta ascoltare le parole di Jacque in As you lik eit: “tutto il mondo è un palcoscenico”. Il globo gioca a fare l’attore… o il globo crea l’attore?


PICCOLI RIFERIMENTI

Amleto è attanagliato dal dubbio sulla natura dello spettro paterno… si potrebbe pensare che non  si dovrebbe aver timore e provare solo gioia nel rivedere un “caro estinto”… beh così non era per le credenze dell’epoca e nello specifico ci interessa ciò che suggeriva la messa in scena. All’inizio del dramma Bernardo si accingeva a narrare la comparsa del fantasma avvenuta prima, dopo ovviamente l’invito agli spettatori a sedersi e a guardare in alto… lo spettro si manifestava attraverso la botola.

Shakespeare giocava magistralmente con le percezioni del pubblico e con le convenzioni del teatro… e tutto creava emozioni disturbanti che non sempre possiamo rievocare leggendo le parole del “Bardo” su un volume… e oggigiorno si sa quanto sia libera l’interpretazione della realizzazione di un testo teatrale.


In questo caso specifico, credo che conoscere questi particolari storici possa davvero farci apprezzare le sapienti “prese in giro”… assolutamente serie…  che Shakespeare utilizzava per uno studio psicanalitico non solo dei personaggi ma degli stessi spettatori. 














giovedì 7 maggio 2020

Il TAO TE CHING di Lao Tzu

IL CORPUS DEL TAO TE CHING 
LA FIGURA DI LAO TZU

 Ph. Francesca Lucidi. Il Tao te Ching edito da Feltrinelli nella Collana Spiritualità.

Il Tao te Ching di Lao Tzu è un dono per l’umanità.

Il titolo in realtà è ambiguo e di difficile traduzione e ciò ha molto a che fare con il Tao.

Tao non ha un equivalente nella nostra lingua; viene avvicinato al concetto di via o espresso in “modo in cui opera l’universo”. Il Tao in realtà è un profondo mistero. L’universo e la vita stessa hanno un’origine: la profondità di quest’ultima ci sfugge perché va aldilà della nostra compresione… perché? Perché il Tao è “prima di tutte le cose” e quindi anche dei concetti utilizzabili per una razionalizzazione,  che nulla ha a che fare con il Tao.

Il corpus del Tao viene attribuito a Lao Tzu.

Lao, secondo la leggenda, era il custode degli archivi imperiali dell’odierna Cina, sotto la dinastia Chou, circa ventisei secoli fa.

Durante un periodo di disordini, egli decise di allontanarsi dalla civiltà e di andare, da solo, sulle montagne.

Un giorno si presentò alle porte della città e fu fermato da una guardia… l’uomo appreso cosa Lao si apprestava a fare… gli chiese di lasciare degli insegnamenti per le genti, così Lao scrisse il Tao te Ching.

È più probabile che  il corpus sia stato sviluppato nel corso di due o tre secoli da diversi saggi. Alcuni di essi furono donne… e il “materno” ha molto a che fare con il Tao.

Alla fine poco importa quale sia la vera storia filologica, ciò che importa è l’enorme risonanza di questo canto che si scaglia contro i mali del mondo, di certo non considerando il “male” nel senso convenziale, e che i suoi insegnamenti sono di una portata enorme… e profondamente balsamici ancora oggi.

La contemporaneità non dovrebbe poter fare a meno di ciò che il Tao te Ching spiega, anzi mostra.

È da ricordare che il Taoismo di Lao Tzu, risalente al VI-V secolo a.C., è differente da quello, ad esempio, religioso che si incarna in diverse sette e organizzazioni. Il Taoismo filosofico va seguito attraverso l’andamento perpetuo delle sue radici che hanno raggiunto arte, poesia… pensiero, in Oriente e non solo. Ad esempio, un grande regalo del Tao è quel movimento Ch’an, in seguito conosciuto come Zen. Le pratiche taoiste affiancano e permeano i germogli e le luci di altre religioni e tradizioni.

Il Saggio del taoismo è ancora oggi la forma “umana” più auspicabile per un equilibrio salubre, interno ed esterno al mondo e alla persona.


GLI INSEGNAMENTI DEL TAO te CHING

La natura del Tao

Il Tao è indefinibile perché è prima di tutte le cose:

“Il Tao è aldilà delle parole
e aldilà della comprensione.
La parole possono essere usate per parlarne,
ma non possono contenerlo.
Il Tao esisteva prima delle parole e dei nomi,
prima del cielo e della terra,
prima delle diecimila cose,
liberati dei nomi,
dei concetti,
delle aspettative, delle ambizioni e delle differenze.
Il Tao e le sue innumerevoli manifestazioni
sorgono dalla sua stessa fonte:
la sottile meraviglia dell’oscurità misteriosa.
Questo è l’inizio di ogni comprensione.”


È la sua grandezza a renderlo incomprensibile… ma il Tao non va compreso. La cosa fondamentale da capire è che il Tao, come tutto ciò che ne scaturisce, è esperienza.

Il Tao non è un Signore che domina sulle genti: non è un monarca anche perché non è una persona. In molte religioni monoteiste la divinità è associata a una “persona” e in particolare a un essere maschile.

Il Tao non ha caratteristiche di genere perché le contiene tutte; però è avvicinabile a un “potere femminile” perché il Tao è il ventre del mondo, l’origine e fonte di tutte le cose. Le facoltà femminee del Tao non lo avvicinano però a una Dea.

IL TAO NON SI PREGA PERCHÉ NOI STESSI SIAMO IL TAO

Il Tao non si prega perché noi stessi siamo il Tao, siamo parte di esso e dentro di esso… e il Tao non è un ente che programma o gestisce; non si prega perché si dà spontaneamente e non potrebbe essere altrimenti. Ciò che conta non è la nostra capacità di volere fortemente o pregare qualcosa: il nostro potere è nel riuscire a fluire in modo armonioso nel processo del Tao, sapendo di non essere indispensabili e di essere un’energia che nel suo ciclo segue delle fasi fondamentali che non si possono fermare. Questo però non è il destino… che noi identifichiamo con la nostra professione, la nostra felicità, la nostra posizione sociale: il flusso è la vita stessa che va avanti e ha un suo mistero eterno assolutamente lontano dagli “scopi” che intrappolano e confondono. Si sta parlando di qualcosa ben al di sopra di una bella o una brutta giornata, sopra i dolori e le gioie perché oltre ogni definizione. Si parla di qualcosa di indistruttibile che nel complesso rende indistruttibili anche noi.

Il Tao non si prega perché come tutte le cose naturali non è sentimentale:

“Il cielo e la terra non sono sentimentali;
nulla considerano indispensabile.
Nemmeno il saggio è sentimentale;
egli considera ogni cosa effimera e transitoria.
Il Tao è come un mantice:
vuoto , eppure inesauribile.
Più lo utilizzi, più produce.
Ma se ne parli troppo,
la tua comprensione si esaurisce.
Semplicemente rimani al centro del circolo.”


Il concetto di Vuoto

Siamo abituati a pensare al vuoto come assenza, e all’assenza come qualcosa di negativo… e tutto ciò nel Tao non ha significato, o meglio non ha funzione. Il Tao ci dona la vita: non per ottenere uno scopo ma perché emana se stesso perché la sua natura è vuota. Per cercare di avvicinarci al Tao possiamo pensare alla sua natura come al ventre di una donna: vuoto perché ricettivo, in potenza creazione e spazio accogliente per l’essere.  Il vuoto ha una funzione fondamentale, anche se non possiamo vederla… e il Tao sta al mondo come il centro vuoto del mozzo sta alla ruota:

“Trenta raggi si riuniscono in un centro vuoto
ma la ruota non girerebbe senza quel vuoto.
Un vaso è fatto di solida argilla,
ma è il vuoto che lo rende utile.
Per costruire una stanza, devi aprire porte e finestre;
senza quei vuoti, non sarebbe abitabile.
Dunque, per utilizzare ciò che è
devi utilizzare ciò che non è.”

E mantenendo a mente queste metafore possiamo parlare anche del concetto di centro. Se restiamo aperti siamo nel centro che è il Tao stesso. La quiete dell’abbandono di ciò che è fuori ed è spesso vissuto in modo spasmodico e con senso di possesso. Va coltivato un centro aperto… vuoto e abile a colmarsi. “Rimani al centro e sarai sempre a casa”, “resta nel Tao e il mondo viene a te”.  Rimanere nel centro significa seguire la “via del Tao” dalla quale ci si allontana quando ci si riempie la testa e il cuore di idee, di preconcetti, di definizioni, di aspettative e paure e differenze.


La brama del possesso

I desideri fatui sono il veleno dell’umanità, specialmente dell’uomo moderno: ognuno considera il mondo come la scena della propria conquista. Inseguire qua e là il possesso ostacola la crescita: l’uomo si illude di dominare e alla fine si ritrova in mano un mucchietto di sabbia sfuggente… perché l’universo che è il Tao ha il suo processo di cui si può far parte, di cui per natura facciamo parte, ma che non si può dominare nel senso egoistico a cui siamo abituati:

“Dominalo e lo rovinerai, afferralo e lo perderai.”

Questo atteggiamento ha inquinato il nostro rapporto con la natura esteriore, divenuto distruttivo. Non riuscendo a fluire e stando immobili nella gabbia degli scopi l’uomo è insoddisfatto e proietta la propria insoddisfazione all’esterno. Il conflitto interiore diventa conflitto globale, guerra. La quiete, il vuoto e il centro sono un’unica cosa. Siamo stati istruiti a non poterci vedere piccoli, ma quella piccolezza è un’eterna grandezza… anche perché ogni “misura” del Tao si mantiene nell’equilibrio. La vera conquista sta nel non agitarsi: ciò, per chi è avvezzo a queste conoscenze, non è lontano da molti insegnamenti e “cure” dei metodi della psicologia. Lasciar andare è un’opportunità unica: cercare di non ottenere con la violenza di una chiusura mentale che ci soffoca e limita la nostra evoluzione e la nostra salute come esseri viventi.

Tutto ciò che è prima o poi deve tornare alla sua radice, che è la propria radice e la radice del Tao. È ciò che avviene sia con la morte naturale sia con la meditazione di quiete. Il ritorno alla radice è il movimento del Tao, che non può essere fermato. Gli eccessi sono quindi i nemici dell’essere… se una cosa viene esasperata in fretta è destinata ad esaurirsi con altrettanta celerità. La nostra bramosia è una forma di violenza potentissima e il non violare la “natura” è la prima regola del Tao:

“Non violentare le cose, o ne sarai violentato.”

Tutto ciò non può non portarci a riflettere sul carattere globale della violenza umana sugli elementi naturali: interni… ed esterni.

“Chi dimentica se stesso, non viene mai dimenticato”. Il vuoto non è immobilità ma un CENTRO DI ATTRAZIONE.


La conoscenza

La mente moderna è abituata a un dualismo che è esclusione. La mente a volte diventa un potere raggelante che tenta di immobilizzare e cristallizzare ciò che per natura è in movimento. L’uomo innaturale non scioglie i nodi ma parcellizza e rende gli angoli più taglienti. La conoscenza deve essere aperta e partire dal concetto di vuoto. Quando siamo persi nelle definizioni perpetriamo un sapere artefatto. L’unica conoscenza possibile e naturale è la conoscenza contemplativa e soprattutto PARTECIPATIVA. La via taoista è un togliere e non un aggiungere.

“Comprendi senza conoscere.”

Quale affermazione può essere così difficile e quasi spaventosa per noi, oggi.

Nel Taoismo si parla di “notte spirituale” che non è assenza ma ricettività, umiltà e unione con il tutto. Da tempo, ascolto i video di un noto psicanalista che invita all’esercizio della grotta: un cammino verso il profondo che nel buio non ci faccia trovare la paura ma la visione distaccata e chiara di noi, delle emozioni… senza giudizio alcuno. Il giudizio è qualcosa che ci uccide in silenzio… che ci soffoca e immobilizza. La purificazione è nell’accettazione nel fluire: come l’acqua di una grotta oscura che penetra e raggiunge… che scompare per poi riaffiorare.

“Chiudi la bocca. Blocca la porta. Acquieta i sensi… Sii come polvere e penetra nell’unità originaria.”

L’annullamento non è scomparire: IL SAGGIO NON PUÒ MORIRE PERCHÉ È GIÀ MORTO. La morte è spaventosa perché è frutto della paura nata dal desiderio di possedere e definire, e toccare con mano e razionalizzare ogni cosa. L’Io viene concepito come un oggetto qualsiasi da possedere… quando invece nel flusso delle diecimila cose del Tao l’eternità è già compresa nel suo essere e non essere.


La non- azione e il Wu-Wei

Anche il bene e male sono concetti molto ostici se raffrontiamo la nostra cultura con il Tao; se ci sforziamo di fare il bene non è detto che questa forzatura porti ad un bene reale.

Sembra terribile leggere che il Tao invita a eliminare la rettitudine e la morale… questo perché non vi è teoria del Tao ma solo azione. Non stiamo parlando di un invito al caos; infatti come il Tao governa e dirige l’universo, così l’uomo deve governare la terra: senza possesso e scomparendo nell’equilibrio e nell’accettazione degli opposti. Un mondo senza dolore è impossibile… ma mantenere un equilibrio tra poliziotti e ladri è il modo migliore per ottenere durevolezza. Il capo migliore è colui che scompare, che guida e seguendo al via del Tao fa credere al popolo di essere il fautore del buon governo: l’ESSERE PARCECIPATIVO è un punto sul quale si insiste molto. Il governatore deve essere un saggio perché se il suo palazzo è pieno di tesori e i granai sono vuoti il territorio sarà lo specchio del suo agire. Paradossalmente l’equilibrio interviene anche nell’affermazione che “più leggi ci sono, più si moltiplicano i furfanti”. Sia chiaro che qui stiamo solo raccontando il Tao… e a mente aperta e vuota si ascolta… senza dire che sia meglio questo o quello.

È affascinante la concezione del rapporto tra il capo e i suoi sudditi come quello che esiste tra il corpo e le membra:

“Quando il governo è rilassato e tranquillo, il popolo è sano e bonario.”

Il buon governante illumina ma non abbaglia. Il buon capo riesce a utilizzare la forza degli altri. L’ingerenza politica deve essere equilibrata, sia nella vita fiscale sia nella vita privata dei cittadini. Qui entra in campo quella NON-AZIONE già menzionata.

La NON-AZIONE, o WU-WEI, è quell’atto naturale che non nutre ambizioni egocentriche e riesce ad adeguarsi flessibilmente. Per questo si parla di “via” non come meta ma come cammino. Saper vedere e ascoltare è il regalo dell’emancipazione da un’azione bramosa desiderosa di governare e sottomettere… e anche qui la natura del Tao ci viene in aiuto.


Dinamismo: Complementarietà e Dualismo

Il Dualismo è qualcosa di costitutivo per il mondo, ma mentre per noi diviene spesso un ostacolo nel Taoismo è un motore evolutivo che mira a ricomporre tutto nell’unità: un’unità dinamica e fatta di complementarietà.

Se siamo in grado di riconoscere che una cosa è bella o che è buona, necessariamente introduciamo anche la categoria del brutto e del cattivo, del suo opposto complementare. I significati in questo caso non hanno una volontà di definizione qualitativa, appunto per l’accettazione della relazione tra le cose: che senso avrebbe parlare di luce se non ci fosse il buio?

Alla fine anche una semplice piantina ha fisiologicamente bisogno di una dose equilibrata di sole, di notte… di acqua o aria secca. La natura viene spesso costretta, specialmente la natura interiore e psicologica. La rosa non si chiede perché è una rosa e non si sognerebbe di diventare una quercia, noi siamo in grado di vivere in questo modo “naturale”? E badate bene non significa non migliorarsi ma non forzare, non violentare e di conseguenza non annientarsi uscendo dal cammino, dal processo.

Gli opposti complementari sono in un continuo rapporto dinamico tra loro. Tutto fa parte di un’unità originaria che contiene entrambi gli elementi di una dualità. Il movimento ciclico, poi, fa sì che una cosa scivoli nell’altra… e da lì ancora l’importanza dell’equilibrio.

Quando un processo raggiunge il suo culmine è fisiologicamente spinto verso la discesa… verso la trasformazione del suo contrario; quindi cosa fare? La MODERAZIONE è la chiave. Evitando gli estremi e “avvertendo” il corso degli eventi, ascoltando… possiamo affrontare le future cose difficili quando sono ancora facili. Ovviamente non possiamo pensare di diventare veggenti, ma abbiamo la naturale attitudine per essere dei SAGGI.

Ciò che è equilibrato si mantiene facilmente, e se guardiamo fuori, intorno a noi:

“Una tempesta non dura tutta una mattina,
uno scroscio di pioggia non dura un giorno intero.”


Yin e Yang: Maschile e femminile

Il Tao ha delle “costanti” riconoscibili allo spirito aperto. Identificare le costanti significa avvicinarsi al Tao; l’osservazione delle suddette è illuminazione. Una delle leggi del Tao è che esistono due polarità: una che potremmo definire femminile (Yin) e l’altra che potremmo definire maschile (Yang). La seconda è positiva e la prima negativa ma non con un significato morale (cose queste… che poco appartengono al Taoismo). Nessuna delle due è superiore all’altra. Lo Yin  è il ricettivo, la madre, l’inverno, il freddo, l’ombra, il morbido, la passività; lo Yang  è il creativo, l’attività, la razionalità, il duro, il caldo, il fuoco, la luce. Entrambi i poli determinano il mondo così com’è. Anche all’interno del corpo umano possiamo distinguere queste parti: nella medicina cinese la parte destra è lo Yang, la sinistra lo Yin, ed entrambe devono essere in equilibrio... se un lato manca di energia l’altro va in iperattività con conseguenze sulla funzionalità del corpo e della psiche, in modo interdipendente.

“Conoscere il mascolino e tuttavia affermarsi al femminile significa essere il ventre del mondo.”

Tutto questo non può non suggerire dei collegamenti con la psicanalisi…

Per guidare noi stessi, o i popoli nel caso dei governati, è bene riscoprire entrambe le polarità.

L’energia scorre in un circolo di equilibri: l’agopuntura ad esempio punta proprio all’armonizzazione di questi processi; ormai si è studiato abbastanza sull’efficacia di questa pratica che ricordiamo è praticabile in Italia solo da personale laureato in medicina.




In conclusione

Il Saggio accetta le cose come vengono, e anche il Governante-Saggio tiene sottocchio le leggi del Tao da una parte e l’interesse GENERALE dall’altra.

L’auspicio è quello di conservare l’armonia: nel rapporto con la natura e con i poli dinamici del Tao; lo scopo-non scopo è “aiutare tutti gli esseri a diventare se stessi”.