IL VERISMO E LE SUE MANIFESTAZIONI
CENNI BIOGRAFICI
Giovanni Verga nasce il 2
settembre del 1840 e viene registrato all’anagrafe di Catania. Vi è una curiosa
congettura che ipotizza come data di nascita reale il 31 agosto. Secondo questa
idea lo scrittore sarebbe, in realtà, nato a Vizzini, cittadina al confine
meridionale della Provincia di Catania. Non vi sono documenti ufficiali ma solo
piccoli indizi.
I Verga sono proprietari terrieri
e a Vizzini hanno molti possedimenti. Le origini del cognome sono molto antiche
e sarebbero riconducibili a lontane radici spagnole. I Verga appartengono a un
ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca. La madre dello scrittore è Caterina
di Mauro e fa parte di una famiglia borghese di Catania. Le ipotesi sulla fittizia
nascita di Giovanni a Catania sarebbero, quindi, riconducibili a motivazioni
legate alle origini della madre… e anche all’eventuale maggior pregio di una
nascita cittadina piuttosto che provinciale. Vizzini è comunque impressa nel
sangue dei Verga: il nonno fu addirittura deputato presso il parlamento
siciliano, proprio per la cittadina.
Verga compie gli studi primari
presso la scuola Francesco Carrara; gli studi secondari vengono portati a
termine presso la scuola di Don Antonio Abate, fervente patriota.
La figura di Don Antonio diventa
molto importante: Verga viene coinvolto dal suo sincero e ardente patriottismo…
mentre le letture di Dante, Petrarca, Manzoni e Ariosto foraggiano un interesse
letterario sempre più vivo.
Nel 1854, Verga deve rifugiarsi
in campagna per sfuggire a un’epidemia di colera. Vi resta per quasi due anni.
Questa esperienza va ad aggiungersi alle altre maturate durante i suoi studi:
il tutto va nutrire il terreno da cui si caratterizzerà tutta la futura opera
dello scrittore.
Giovanni Verga scrive il suo
primo romanzo all’età di quindici anni. Don Antonio sembra apprezzare il lavoro
del giovane e brillante allievo; il professore di latino è molto più scettico e
l’opera, alla fine, viene lasciata in fondo a un cassetto.
Nel 1858 l’iscrizione
all’Università di Catania, alla facoltà di legge. Il richiamo delle lettere è
per Verga troppo forte: lascia gli studi e inizia a dedicarsi completamente
alla scrittura, partendo dal lavoro di giornalista. In realtà, nel 1861 spende
tutti i soldi della retta universitaria per la sua prima pubblicazione: I
carbonari della montagna.
All’amore per la scrittura è
sempre legato il patriottismo e il vincolo con la Sicilia; lo scrittore,
infatti, finisce anche per arruolarsi nella Guardia Nazionale di Catania.
Verga tenta più volte di far
sopravvivere un suo giornale, senza successo.
La scrittura giornalistica resta,
però, un punto fondamentale da cui partire per osservare e comprendere la
tecnica narrativa che impiegherà Verga.
Nel 1865 muore Giovan Battista
Catalano, il padre dello scrittore.
Dopo la morte del genitore, Verga
si trasferisce nella capitale del Regno d’Italia: Firenze. Lì conosce Luigi
Capuana. Nel 1871 esce il romanzo Storia di una capinera.
Nel 1872, Verga pubblica il
racconto Nedda, che narra degli stenti di una raccoglitrice di olive
siciliana: la conversione all’impostazione e ai temi veristi, a quel
punto, è completata.
Dopo l’unità, l’Italia appare
estremamente frammentata sia culturalmente sia economicamente. Il sud della penisola
è particolarmente attanagliato dalla piaga del lavoro minorile… e proprio
riguardo alla realtà lavorativa in Sicilia il Parlamento decide di avviare
un’inchiesta. A quel punto, è chiaro a Verga come il tema principe delle sue
opere debba essere la terra natia, con i suoi dolori e i suoi paesaggi così
selvaggi e meravigliosi.
Dal germe delle origini siciliane
dello scrittore nascono i capolavori che segneranno la storia della
letteratura. Del 1880 è la raccolta di novelle Vita dei campi,
incentrata sul tema della lotta per la sopravvivenza; un anno dopo esce il
primo romanzo intimamente verista dello scrittore: I Malavoglia, opera incardinata
sulla rovina di una piccola famiglia di pescatori che tenta di intraprendere
un’attività commerciale. Nel 1882 esce una seconda raccolta di novelle
intitolata Novelle Rusticane, basata sul tema della “roba”.
Durante il 1889 viene pubblicato
il secondo romanzo dello scrittore: Mastro Don Gesualdo.
Verga decide di tornare in
Sicilia. Nel 1893 è a Catania.
Lo scrittore inizia la redazione
de La duchessa di Leyra, ma non riesce a proseguire nel progetto. I
Malavoglia, Mastro Don Gesualdo e La duchessa di Leyra,
insieme ad altri due romanzi, dovevano entrare a far parte di un unico
progetto: Il “Ciclo dei Vinti”; l’idea iniziale, purtroppo, non verrà mai
portata a termine dallo scrittore. L’ispirazione artistica di Verga si
esaurisce… e lascia spazio alla depressione e alla solitudine.
Giovanni Verga è un individuo che
preferisce vivere da solo, non si sposa e non ha figli. Ha una visione molto
particolare del matrimonio: lo considera una gabbia per topi dalla quale quelli
che son dentro vogliono uscire, mentre tutti gli altri vi girano intorno per
entrarvi. Lo scrittore intraprende una relazione importante: Verga si lega con
Giselda Fojanesi, moglie del poeta catanese Mario Rapisardi. La relazione viene
scoperta dal marito tradito che ripudia la moglie.
Un’altra donna riesce a entrare,
in tutt’altra veste, nella vita dello scrittore: Dina Castellazzi. La Castellazzi
resta un’amica fedele, per tutta la vita di Verga.
Verga sceglie per sé una vita
ritirata; non manca, però, di occuparsi dei tre figli del fratello morto
giovane.
Nel 1920 arriva la nomina di
Senatore del Regno, che lascia il Nostro piuttosto perplesso e non
particolarmente entusiasta. Verga, però, apprezza sinceramente il discorso di
intitolazione tenuto da Luigi Pirandello.
Giovanni Verga muore a Catania
nel 1922.
L’ACCOGLIENZA DEL PUBBLICO
La prima uscita de I
Malavoglia non raccolse molti consensi. Verga incontrò diversi problemi
finanziari e un po' di ossigeno venne dalla trasposizione teatrale della
novella Cavalleria Rusticana, testo facente parte della raccolta Vita
dei Campi. La prima rappresentazione della versione per il teatro si tenne
a Torino il 14 gennaio del 1884. Per ottenere i compensi dovuti lo scrittore
dovette rivolgersi a dei legali che curassero i suoi interessi. Sulla scia del
successo della mia trasposizione, Pietro Mascagni decise di creare dalla
novella un melodramma, rappresentato per la prima volta a Roma il 17 maggio del
1890.
Nel frattempo, nel 1889, venne
pubblicato il romanzo Mastro Don Gesualdo, presso l’editore Treves.
Intorno alla casa editrice milanese si andava delineando il gusto letterario di
fine Ottocento; infatti, sempre nel 1889 fu pubblicato anche il primo romanzo
di Gabriele D’Annunzio: Il piacere. Ecco che due poli diversissimi si
trovano a contendersi l’attenzione del pubblico: da una parte la narrazione
della realtà italiana attraverso uno sguardo oggettivo in cui l’autore e il
narratore scompaiono a favore dei fatti raccontati, dall’altra la
rivendicazione dell’eccezionalità del singolo all’interno della società
massificata. Il lavoro di D’Annunzio attira l’attenzione della borghesia e
vince la battaglia delle vendite. Mastro Don Gesualdo, comunque, riesce
a vendere millecinquecento copie in pochi giorni. Evidentemente, le classi che
leggono si indentificano meglio negli slanci d’dannunziani piuttosto che nelle
dure denunce proposte da Verga.
Luigi Capuana e Giovanni Verga
fanno una scelta non facile: raccontare la realtà, il mondo e l’Italia alla
maniera dei naturalisti francesi.
LA NARRAZIONE REALISTICA
Voler raccontare il mondo in
maniera fedele implica la scelta di rappresentare i fatti in modo verosimile.
Gli eventi realmente accaduti o
che potrebbero accadere realmente sono il materiale per la costruzione di una
narrazione realistica. I luoghi sono reali e non figurati; la collocazione
temporale è ben definita e spesso si racconta usato i tempi verbali del
passato. Il narratore non interviene nei fatti e non propone alcuna
interpretazione. A fare da collante ai contenuti e ai modi vi è la forma: il
linguaggio scelto deve essere coerente con il contesto rappresentato; ciò va
tenuto bene in considerazione nell’uso del discorso diretto e indiretto, i modi
dell’autore per riportare le parole dei personaggi.
Il narratore è nascosto ed
esterno; anche la focalizzazione è esterna e gli eventi sembrano raccontarsi da
sé. Tutto ciò è l’estremo opposto del narratore onnisciente che va a produrre
un testo con focalizzazione zero, riuscendo a vedere ogni cosa e a imporre la
sua presenza nell’interpretazione di personaggi e situazioni che vengono
filtrati attraverso l’occhio di chi racconta, e che tutto sa.
Nella narrazione realistica si
osserva e non si interpreta.
La rappresentazione del mondo
tenendo conto della storicità e delle manifestazioni sociali ha radici
profonde. Lo stesso Decamerone del Boccaccio ci fornisce un quadro della
società mercantile e delle dinamiche relazionali ed economiche del tempo. Ma è nell’Ottocento
che il realismo si afferma attraverso un fedele affresco della realtà, con
metodologie peculiari. Da questa impostazione prende corpo la corrente
letteraria del Naturalismo.
IL NATURALISMO
La corrente letteraria del
Naturalismo cresce in seno al clima Positivista.
Il Positivismo era una tendenza
di pensiero e azione che promuoveva una visione della conoscenza strettamente
legata alla scienza e ai suoi progressi, con piena fiducia.
In ambito letterario, l’approccio
che privilegia una visione sperimentale e oggettiva mostra le sue forme
dall’opera di Gustave Flaubert, che parla di questo nuovo tipo di narratore il
quale “Deve essere nella sua opera come Dio nella creazione”. Flaubert pubblica
nel 1857 il romanzo Madame Bovary, ritraendo efficacemente la piccola borghesia
francese attraverso lo sfacelo a cui vanno in contro le cieche e ridicole
ambizioni della protagonista.
Il romanzo diventa il mezzo di
una rappresentazione oggettiva, “fotografica” della realtà. L’arte si prefigge
di essere lo specchio fedele del mondo, senza alcuna contaminazione da parte
dell’autore. In tutto questo processo c’è la convinzione che si possa, in
questo modo, dare un contributo al progresso dell’umanità.
I risultati della letteratura
mirano a valori pratici, non prettamente etici o morali.
Il caposcuola fu Émile
Zola (1840-1902). Il comportamento dei personaggi di Zola è determinato dal
contesto: fisiologia e psicologia sono il prodotto dell’ambiente, del momento
storico e dell’eredità sociale di un individuo.
Nel 1880, Zola pubblica il saggio
Il romanzo sperimentale: il manifesto del Naturalismo. Secondo la
visione espressa da Zola lo scrittore è un osservatore e uno sperimentatore.
Chi redige un testo letterario non è più un interprete ma una sorta di
scienziato che prende dei personaggi e li mette in un contesto a reagire con
tutte le componenti sociali e ambientali. L’osservazione si completa con la
sperimentazione che è l’applicazione di un “metodo” vero e proprio che possa
permettere, poi, la registrazione dei fenomeni in modo impassibile. Le cause
del comportamento sono viste come determinate in modo univoco. L’autore lascia
“reagire” i suoi materiali umani e redige ciò che è riscontrabile in maniera
oggettiva. Le riflessioni morali che possiamo trarre da questi testi non
vengono accese dal lirismo, o dalla pietà di una scrittura che sia mossa dalla
volontà di colpire i sentimenti o gli animi. Ciò che avviene nel lettore è un
altro prodotto determinato dal contesto: dal nostro approccio a un testo e ad
elementi con cui siamo messi a reagire. Spesso si parla dei testi del
Naturalismo come di accuse morali; non vi sono accuse ma solo le fotografie di
situazioni reali che hanno una loro voce autonoma, che riesce a ingenerare in
noi riflessioni. Non siamo portati a pensare o ad avere pena o considerazioni
perché l’autore ci propone un insegnamento (come ad esempio accade in Manzoni).
Ciò che è reale è ciò che viene raccontato; ciò che viene raccontato è solo la
realtà, di un esperimento fatto di cavie umane.
Il termine Naturalismo
potrebbe trarre in inganno facendoci pensare che le trame raccontino la natura
in senso stretto… in realtà, l’attenzione è in primis sulla società, che
determina la natura umana.
La natura umana non è il soggetto
primario e puro, in senso romantico, ma è un oggetto preso in esame attraverso
un’analisi sperimentale.
IL VERISMO
Il rinnovamento dei meccanismi
narrativi proposto dal Naturalismo viene ripreso in Italia da Luigi Capuana e
Giovanni Verga. Sia nell’approccio francese che in quello italiano è
riscontrabile il rifiuto del precedente romanzo storico, il quale celava un
intellettuale di ceto agiato che mostrava un certo pietismo verso personaggi ed
eventi; il tutto con il tocco evidente di un narratore che conosce ogni cosa…
ma non la mostra in modo diretto scegliendo di filtrarla attraverso la propria
onnisciente presenza.
In Italia vengono ripresi i mezzi
dell’impersonalità e dell’oggettività. Verga, nella prefazione de L’amante
di Gramigna, scrive che l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. È
quindi evidente l’adesione ai temi della realtà, scegliendo di mettere il
narratore al di fuori degli eventi raccontati. Mentre si diffondeva lo sguardo
naturalista, l’Italia si avviava verso l’unificazione. L’unità della Penisola
chiamava a una presunta accelerazione del progresso: in realtà le classi più
umili vivevano ad una velocità assai lenta, come lenta appariva la crescita del
loro benessere. Il contesto storico non può non giocare un ruolo nella
traduzione italiana del Naturalismo, e ciò è coerente anche con i principi di
quest’ultimo.
Come nel modello francese le
opere letterarie vengono portate avanti con la volontà di non mostrare il
processo di creazione. Ma cosa traspare se si confrontano le due modalità di
narrare la realtà? Se si legge Verga è innegabile la presenza di un impegno
morale, anche se non dichiarato. Lo scopo di una denuncia sociale traspare, in
modo evidente. Rispetto ai romanzi francesi, che raccontavano di personaggi
appartenenti alla borghesia su vari livelli, e di ambienti cittadini, il
racconto realistico verista è lo specchio della realtà contemporanea ad autori
e personaggi. Nel Verismo si prediligono gli ambienti regionali, piccoli e di
campagna; anche perché era quella l’Italia di fine Ottocento.
Verga racconta la sua Sicilia con
un forte pessimismo sociale fatto di riscatti mancati, di una condizione
miserabile agghiacciante. Questo tipo di approccio stride con la fiducia
positivista che permeava il Naturalismo. Se osserviamo i personaggi di Verga
pare mancare totalmente la possibilità di un reale progresso individuale e
sociale. Lo scrittore verista non fa lo scienziato perché non c’è effettivo
distacco. Verga condivide lo stesso DNA e la stessa specie dei suoi soggetti…
gli ambienti sono gli stessi, anche se le classi sociali di appartenenza sono
differenti. L’autore mostra partecipazione… perché è, appunto, della stessa
specie delle cavie messe ad agire nel loro ambiente per essere osservate.
IL VERISMO IN VERGA
L’attività giornalistica di
Giovanni Verga lascia una profonda impronta nella sua scrittura: la parola
tende all’oggettività e i pensieri e le parole dei personaggi vengono riportati
fedelmente, senza epurazione. Le espressioni dialettali infestano testi che
parlano da soli; però, la presenza dell’autore, come si è già osservato, non
resta totalmente in disparte. La durezza dell’inchiesta sociale di Verga ha nel
cuore i valori patriottici che si sentono feriti guardando a una popolazione
che dopo l’unità non appare coesa, libera o migliore. Lo sguardo borghese
dell’autore vede sfumati gli ideali di uguaglianza e progresso, e ne diventa il
portavoce scegliendo di non abbellire o “romanzare” ma di riportare,
descrivere, mostrare. Con un occhio puntato alla biografia di Verga, e l’altro sulla
critica verso l’immobilità delle classi sociali e verso l’istituzione
matrimoniale riscontrabile nelle sue opere, siamo obbligati a riunire i due
punti focali. Molti elementi delle narrazioni dello scrittore sono gli stessi
che hanno caratterizzato la sua esistenza, compreso il perenne senso di
solitudine. A partire dalla geografia reale ed emozionale percorsa
attraversando luoghi fisici e sociali che Verga ha realmente vissuto, e che
hanno indubbiamente ingenerato in lui una compassione che non resta pietas
pura e semplice… ma diventa denuncia. La visione di Verga è amara e non
prospetta alcuna speranza. La sua ricerca non è asettica osservazione di
contesti e “reazioni” ma è una fusione: lo scrittore entra nel parlato e nel
mondo dei personaggi, nelle loro debolezze… e lo fa profondamente. Negli
scritti di Verga, i ricordi dell’infanzia vengono passati attraverso il
setaccio dei nuovi modi del narrare appresi negli ambienti letterari milanesi, diventando una cronaca che ha nel sangue versato anche il sangue dello stesso
autore.
ROSSO MALPELO E ALTRE
NOVELLE di Edizioni LA SPIGA
L’edizione presa in esame è datata
2013 ed è a cura di Moreno Giannattasio. Le illustrazioni sono di Marco
Lorenzetti.
La nota introduttiva è una sorta
di avvertimento su ciò che saremo portati a vivere: le novelle di Verga saranno
le mani attraverso le quali vestire determinati panni e provare sentimenti segnati
dalla fame, la rabbia e la paura. Vengono citati i demoni che siamo destinati a
incontrare: la gelosia, la superstizione, la vendetta e l’avidità. Questa
pagina di “benvenuto” non manca di far notare come saremo costretti ad
ascoltare e imparare una nuova lingua, che è quella dei personaggi. Il libro
promette, però, di portarci per mano… e questo si può avvertire nell’estrema
cura di ogni dettaglio. Il pensiero finale, prima della lettura del materiale
vero e proprio, è una riflessione sul grande valore della buona scrittura,
quella che nutre la conoscenza.
Il volume prende Rosso Malpelo,
La lupa e Jeli il Pastore dalla raccolta Vita dei Campi; La
Roba e La libertà dalla raccolta Novelle Rusticane.
Rosso Malpelo è il duro
racconto della terrificante realtà del lavoro minorile. I temi della condizione
sociale italiana post-unitaria e della bestialità umana, tanto cari a Verga,
sono i cardini dove si regge lo scricchiolante portone di una storia che non
conosce il senso della casa e del conforto. Malpelo è una creatura nata con un
destino segnato: è rosso di capelli e quello determina il suo nome e la sua
natura. Il narratore non riflette sulla veridicità della pessima considerazione
che la gente ha del protagonista, Verga riporta i fatti come vengono visti dai
personaggi. L’incipit è noto ed esemplificativo:
“Malpelo
si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era
un ragazzo malizioso e cattivo, che promettere di riuscire un fior di birbone.”
Malpelo riesce a guadagnarsi il nostro
sgomento e il nostro odio… e qui sta la magnificenza della scrittura di Verga. Leggendo
questa novella ci si trova davanti a un disprezzo della vita che forse ci fa
riuscire a guardare le stelle con uno spirito diverso. Una creatura della
miniera guarda al cielo come a un estraneo… la luce non è contemplata nella
vita di Malpelo e degli operai del sottosuolo. I cani rosicchiano le carni putrescenti
di un asino morto, una madre piangerà un povero figlio vinto dalla malattia…
Malpelo osserva e non avverte speranza alcuna. La rabbia è il veleno più
insidioso dell’esistenza.
La Lupa è una storia di
donne, ma non è la vicenda di femmine ispiratrici e combattive o pure. La novella
è contesa da una donna che è una bestia selvatica avvinta dal fuoco degli
istinti incontrollati, e da una giovane che si piega all’unico altro destino
che sembra toccare a un personaggio femminile. Una è una poco di buono e l’altra
sarà solo una moglie che sforna figli e inghiotte rospi amari.
Le due donne sono madre e figlia…
e nel mezzo? Nel mezzo il pezzo di carne che la Lupa vuole spolpare: Nanni.
Nanni è un giovane che pare
riunire in sé le virtù dell’uomo ligio, e grande lavoratore. Il giovanotto
vuole prender moglie e la vuole graziosa, pacata… e ne avrà una, e avrà tanti
figli; come è deciso che sia, sempre.
Nanni cerca di resistere alla
tentazione proveniente da neri capelli e seni brucianti, da una bestia che schiuma
di voglie sommesse, su un pagliericcio messo a terra. Nanni cederà? Cosa può
diventare l’uomo che cede agli istinti e si scontra contro il sottile vetro che
separa onore e dovere e desideri e istinti bestiali?
La roba è una storia che non è fatta di azione ma di elenchi. Veniamo accompagnati attraverso territori bellissimi e fecondi… ma non riusciamo a godere di bellezze e profumi, iniziamo solo a sentire il peso del lavoro, dell’avarizia, della vita senza godimento… e ancora di lavoro e di sacchi di grano infiniti. Questa novella è la storia di Mazzarò, e Mazzarò non ha una storia vera e propria o una vita: quest’uomo è la sua roba. Gli elenchi delle terre e dei beni sono la pelle, le braccia e il sangue di Mazzarò. Potremmo pensare che un onorevole lavoro ben ripagato sia un ottimo esempio da raccontare: niente di più sbagliato. La storia di Mazzarò è fatta sì di lavoro ma anche di furberie, di prevaricazione e mania. Se la vita di un uomo diventa soppesabile non nello spirito e nelle gioie ma solo nei numeri e nei pesi stilati in un elenco… cosa succede quando quell’uomo muore? Se Mazzarò è la sua roba e la roba pare essere solo di Mazzarò… cosa resta? La roba che valore ha per voi? Questa novella è un modo per riflettere su cosa sia il benessere, il progresso e il riscatto.
La libertà è la versione
romanzata di fatti realmente accaduti. Nell’agosto del 1860 ci furono delle lotte
sanguinose presso Bronte; il problema dello sfruttamento delle terre demaniali
avevano fatto “imbestialire” il popolo che si scagliò ferocemente sui galantuomini,
ma anche su donne e bambini. Chiunque non fosse della stessa umile razza dei
rivoltosi veniva ucciso a colpi di ascia, per schiacciamento… veniva massacrato
come nel giorno in cui si uccidevano i maiali.
Il Comitato di guerra creato da
Garibaldi inviò a Bronte un battaglione di Garibaldini guidati dal generale
Nino Bixio. 150 persone furono giudicate nel giro di poche ore e cinque persone
furono condannate a morte. Tra i giustiziati anche due innocenti: il pazzo del
paese e un uomo che aveva avuto la colpa di essere stato nominato dai rivoltosi
come possibile sindaco; quest’ultimo era un avvocato (un altro galantuomo
ucciso, però, dalla giustizia). Bixio si piegò al suo dovere provando fastidio,
fatica e disprezzo; in una lettera inviata alla moglie scrisse:
“Che
paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che
bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli
civili!”
In questa novella la libertà non
solo non appare possibile, dato che quando si calmarono le acque tutti gli
umili si sentirono persi senza i galantuomini, ma non è nemmeno adatta a
quegli ignoranti che conoscono solo soprusi, privazioni e odio, subiti e gentilmente
restituiti. L’ignoranza è ciò che rende l’uomo della terra incapace di
comprendere e riscattarsi.
Proprio l’ignoranza è una delle “virtù”
del protagonista dell’ultima novella Jeli il pastore. La scelta di
inserire per ultima questa storia è davvero intelligente. Jeli racchiude nella
sua vicenda personale tutte le miserie e le sferzate della vita come la
racconta Verga. L’incapacità di emanciparsi davvero dalla propria, e
miserabile, condizione… le falsità e i dolori che caratterizzano l’istituzione
matrimoniale; neanche l’amicizia, che inizialmente sembra rischiarare questa novella,
riesce in alcuna missione, anzi. L’ignoranza di Jeli e il suo animo fondamentalmente
buono si riassumono in un foglietto che il pastorello porta con sé: quel foglio
ha sopra il nome “Marta”; la scrittura non è, ovviamente, di Jeli. Il protagonista
comprende più le sue bestie che gli altri suoi simili, anche perché i suoi
simili sono diversi da ciò che la loro natura li chiamerebbe a essere. Ma
dopotutto cos’è l’uomo? Forse la vera umanità non sta nel non cedere alle tentazioni
e nel non incontrare i “cattivi” sentimenti; forse l’umanità sta nell’accettare
il lato bestiale: comprenderlo e saperlo gestire. In fine, l’umanità animale di
Verga si consuma nello sfacelo perché non sa chi è, non conosce altro che il
lavoro e la fatica… le braccia e la testa e il cuore non hanno un qualcosa che
li possa conciliare e armonizzare.
Alla fine del volume ci sono
degli apparati molto interessanti, rari da trovare in un’edizione per adulti.
Ciò che è estremamente apprezzabile delle versioni didattiche è la missione di
informare su autore e contesto storico in modo semplice, diretto e pertinente.
Forse un giorno si smetterà di pensare che gli adulti non hanno bisogno di
essere formati ma solo imboccati di nozioni.
Devo dire che sono ben felice di aver acquistato questo libro. Se volete leggerlo anche voi potete approfittare della mia AFFILIAZIONE AMAZON, e acquistare cliccando QUI: si aprirà la pagina Amazon del prodotto, e se sceglierete di prenderlo con voi il blog potrà avere la possibilità di avere una piccola percentuale, da reinvestire in tanti altri libri sui quali discorrere insieme. Buona Lettura!