venerdì 4 settembre 2020

LUCERTOLA di BANANA YOSHIMOTO

 

CHI È BANANA YOSHIMOTO


Mahoko Yoshimoto nasce a Tokyo il 24 luglio del 1964. Suo padre, Takaaki Yoshimoto (noto con il nome Ryumei Yoshimoto), fu un importante critico e filosofo nipponico. La sorella di Mahoko è Haruno Yoiko, una famosa disegnatrice di manga.

Lo pseudonimo Banana viene alla mente della scrittrice durante l’università: “carino”, “androgino”… nomignolo assai adatto a una scrittrice delicata ma forte, buffa ma attenta e abile a diventare la voce di uomini e donne. Uno pseudonimo volutamente androgino è assolutamente perfetto per chi racconta le storie di tutti. E lo sa fare molto bene.

Banana studia arte all’Università di Nihon, e si specializza in letteratura.

Nel 1987 Inizia a lavorare per un golf club; intanto scrive, e dà alla luce il suo primo libro, Kitchen, l’anno successivo. Il libro riscuote grande successo e diventa anche materiale per piccolo e grande schermo, prima in Giappone e poi ad Hong Kong.

La produzione della scrittrice è viva e ricca. Banana si dedica ogni sera alla scrittura e vive questa sua professione con la naturalezza inquieta tipica dell’animo contemporaneo giapponese.

Si sposa con il musicista Hiroyoshi Tahata.  Nel 2003 dà alla luce suo figlio Manachinko.

Banana conosce bene l’Italia, ammira profondamente Dario Argento… e nei suoi romanzi si rivolge amorevolmente al Bel Paese nei piccoli spazi di conversazione dei POSTSCRIPTUM.

L’Italia viene definita come un luogo di bellezza, e fa strano leggere tanti ringraziamenti sinceri da parte di una scrittrice così famosa, e “lontana”. Banana è così: al livello di tutti, perché tutti siamo interdipendenti (sono parole sue, ed io concordo).

Una scrittrice riservata, essenzialeoriginale… bizzarra, coraggiosa, consapevole. Banana è una medicina per l’anima perché non fa finta che va tutto bene: con lei si guarda in faccia all’inferno… sapendo che dall’altra parte esiste un paradiso. Ci si tiene in equilibrio, imparando a camminare anche su terreni accidentati, con un peso sulle spalle.

Banana racconta Tokyo, ma anche la vita e la quotidianità che in tutti i posti del mondo si manifestano in esperienze contrastanti: gioie e dolori, separazioni e unioni profonde, cadute ripide e rinascite.


LUCERTOLA

INTRODUZIONE: CONTESTO, STILE E ANALISI

Ph. Francesca Lucidi

Uscito nel 1993 e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995, Lucertola è una raccolta contenente sei racconti: GIOVANI SPOSI, LUCERTOLA (da cui prende nome l’intero libro), SPIRALE, SOGNO CON KIMCHEE, SANGUE E ACQUA, STRANA STORIA SULLA SPONDA DEL FIUME.

I punti di vista sono interni: i personaggi novellano, ricordano. I dialoghi danno vivacità a spaccati di vita brevi ed efficaci, indipendenti ma parte dell’ampio discorso sulla vita che caratterizza questa come le altre opere della scrittrice. 

I racconti sono storie di uomini e donne, di coppie e relazioni… che trapassano la norma, i generi, e le etichette. Il tutto diviene ancor più forte perché vien fuori da una società giapponese ambivalente: così intrisa di tradizioni e convenzioni, credenze, ma anche così impregnata di piccole rivoluzioni, inquietudini e stranezze

Img Pixabay, edited

Tokyo fa da sfondo, insieme ad altre località che sanno di magico. La metropoli assume, però, il ruolo di personaggio a sé stante: è il luogo dove tante vite si intrecciano inconsapevolmente, un posto dove il caso rimescola carte ed energie in un tutto disarmonico che ha una tipicità che Banana Yoshimoto sa vedere e narrare. Il Giappone è presente in ogni gesto, anche nel lessico nel quale campeggiano una serie di tipici termini che raccontano storie e abitudini; un glossario finale è la guida ideale per questo viaggio nella cultura nipponica, che riesce però ad ampliarsi nell’opposto movimento dello stringersi negli animi e nei cuori dei protagonisti. Occhi che assumo una vita quasi indipendente dal viso che li ospita, capelli che cambiano a seconda delle età e delle personalità… sorrisi che parlano in una compostezza tipicamente giapponese. Anche il movimento di un cappotto riesce a determinare un carattere, una persona.

Attraverso questi racconti, Banana Yoshimoto parla di tutto ciò che l’universo umano ed energetico contiene: vita, morte, amore e corporalità, salute e malattia (anche e soprattutto interiore); incontro e scontro, disillusione e ferite, assenza di speranza e rinascita. Nel corso delle narrazioni si ritrova la caoticità di Tokyo, così occidentale, così presa dal fascino delle cose dell’altra parte del mondo. Una calma di gesti e abitudini che si rifugia troppo spesso nell’alcol, e negli eccessi, riesce a far emergere i pensieri dei personaggi in modo semplice. Banana è abilissima nel parlare delle cose più difficili, semplicemente dando voce alla gente, e alle esperienze di vita più disparate. Gli individui che guardiamo in questi racconti sembrano familiari: l’empatia risulta agevole perché, anche se una vena di magia attraversa ogni cosa, tutto è assolutamente quotidiano nella sua imperfezione, nelle paure e anche nei comportamenti fuori dalla norma che possono raccontare di tradimenti, di sesso, di rapporti carnali di gruppo o relazioni extraconiugali. Bisogna però sapere che Banana è una scrittrice educata, pacata, riflessiva: anche se si parla di eccessi non si arriva mai sulla sponda dello shock. Tutto è sempre accennato, dolce anche nell’amarezza; il modo di raccontare è intriso di profonda cura e rispetto.

L’epopea intima e metropolitana di Yoshimoto è moderna, ma anche filosofica e ancestrale. Ho citato l’energia: sì, le energie sono un elemento importante di molte delle credenze e dei modi di fare e pensare orientali. Ogni personaggio è il prodotto delle proprie radici, anche se spesso nasce discostato dall’albero principale per germogliare in un tronco esile che si affaccia al mondo cercando di capire come adattarsi all’habitat che lo accoglie. Le radici sono la famiglia, elemento presente in ogni racconto sotto forme diverse. Ogni personaggio si trova a ripercorrere la ferite passate, i segreti familiari, i vuoti disorientanti che hanno causato diverse corse nel nulla alla ricerca di quel senso di appartenenza che, però, a suo modo arriva. L’autrice ha un romanticismo tutto suo: si guarda ai rapporti con senso critico, con sincerità… non c’è la fiaba ma c’è la forza prorompente della liberazione, che può avvenire solo dopo lo scontro e nello scorrere. Le energie universali non sono mai immobili, e il nostro corpo fa parte di un flusso che potrebbe essere percepito se ogni cosa viene vista come “processo”.

«Non si tratta di scegliere quale è buona o cattiva, giusta o sbagliata, ma di riconoscere che le idee di inferno e paradiso prendono forma nel corso di un processo ininterrotto che chiamiamo “io”. È soprattutto questo processo ininterrotto che qui mi interessava descrivere.»

(Banana Yoshimoto dal POSTSCRIPTUM a Lucertola)

Ogni storia è intrisa di piccoli oggetti, di rituali, e di metafore che non sono aeree ma materializzate in cose semplici come una zuppa, un fiume, la voglia di un espresso da bere fuori casa.

La trasformazione è il vento che attraversa ogni pagina della raccolta. Nessuno, però, resta fermo. I personaggi sono persone fatte di segreti, cicatrici e insicurezze… ma riescono a passare all’azione perché ognuno di noi è parte del destino cosmico.

La via di un famoso tempio di notte è deserta e fa quasi paura… al mattino i colori si accendono e il profumo di cose buone avvolge l’aria. Ognuno di noi è solo: la solitudine è l’altra entità misteriosa che guarda i personaggi, come fa Tokyo. Ma l’oscurità si alterna alla luce, la morte è intesa come “vita futura”. Il nostro tempio personale non è una fotografia immobile ma un luogo vivo che si riposa o si adombra; può far paura… ma è popolato di tante cose oltre noi. Siamo abitati dal nostro passato, dalle nostre esperienze, dal nostro retaggio. Ma capendo che siamo soli non dobbiamo credere che tutto ruoti intorno a noi, siamo noi a ruotare e cambiare verso la nostra “naturale destinazione”, in “interdipendenza” con persone… palazzi, monti e forze invisibili e visibili.

Tra queste storie senti addosso i gesti preparatori al rituale del bagno, impari che i giapponesi non sono soliti urlare… che le donne imparano a ridere con la mano davanti alla bocca. Certo, però, molti personaggi escono dalle regole. C'è sorpresa e scoperta, ovunque.

Imgs Pixabay, edited

Un foroshiki[1] può contenere l’idea della casa e della famiglia, come anche delle verdure, e un segreto. Un involucro non è solo un oggetto… qui tutto parla e racconta in una sintesi piacevole che avvolge la solitudine del lettore per profumarla di speranza; sembra quasi di avvertire, qui con me, un sentore dolce di obanyaki[2].


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Grazie e buona lettura!

 



[1] Furoshiki: quadrato di tessuto, generalmente di seta dai colori vivaci, usato per avvolgere oggetti. I quattro capi sono annodati in modo da rendere agevole il trasporto. (Dal Glossario a fine volume).

[2] Obanyaki: focacce dolci farcite di marmellata di fagioli azuki, prima cotte al vapore e quindi arrostite su una piastra. (Dal Glossario a fine volume).

lunedì 31 agosto 2020

IL GRANDE LIBRO DI NEIL GAIMAN




Ph. Francesca Lucidi

Qui ci troviamo di fronte a una raccolta di racconti a fumetti assai strana… ma non potremmo aspettarci nulla di diverso, basta leggere i nomi che svettano sulla copertina. Neil Gaiman e un piccolo nugolo di illustratori, noti agli appassionati del genere, ci accolgono tra pagine inquiete, tinte forti o sfocature… ma tutto è ricondotto a un immaginario pregno di orrore ma anche di sentimento; a un universo in fieri che si modifica a seconda dei ruoli interpretati; a un' umanità che può essere più spietata dell’inferno.

Il volume è edito da Magic Press Edizioni, ed è datato 2016.

All’interno troviamo quattro storie, di cui una divisa in due microstorie. In ordine: Mistero Celeste, di Neil Gaiman e Graig Russell; Il San Valentino di Arlecchino, di Neil Gaiman e John Bolton; Creature della notte, di Neil Gaiman e Michael Zulli; Le vicende relative al caso della scomparsa di Miss Finch, di Neil Gaiman e Michael Zulli.

Credo sia il caso di analizzarle singolarmente, per assaporarne bene la carne fibrosa e ricca di una macabra vitalità. 

MISTERO CELESTE

La storia trae origine da un racconto di Neil Gaiman apparso per la prima volta nell’antologia Midnight Graffiti nel 1992, e successivamente incluso nelle raccolte Angels e Visitations e Smoke and Mirrors. Graig Russel ne cura l’adattamento a fumetti nel 2002 per la Dark Horse.

Per la biografia di Neil Gaiman cliccate QUI: verrete indirizzati a un precedente contenuto del Penny Blood Blog.

GRAIG RUSSELL

Philip Graig Russel, illustratore, sceneggiatore e fumettista statunitense, nasce il 30 ottobre del 1951 a Wellsville. Si laurea in pittura all’Università di Cincinnati e mostra da subito un’attitudine poliedrica e scarsamente mainstream.

 Lavora per la Marvel Comics nella realizzazione degli albi di nicchia Killraven e Dottor Strange; collabora, poi, con la DC Comics, in alcuni numeri della seria a fumetti scritta da Neil Gaiman Sandman. Ciò che mostra il suo ampio immaginario culturale è l’adattamento di materiale inusuale come Il flauto magico di Mozart, Salomè di Strauss, e L’anello del Nibelungo di Wagner. Tra le sue opere è da annoverare la versione a fumetti di alcune fiabe di Oscar Wilde.

Il suo legame con Neil Gaiman è forte e si manifesta con gli adattamenti di Coraline, American Gods, Il Figlio del Cimitero… e pare sia atteso anche un lavoro su Miti del Nord: l’ultimo articolo a riguardo, che ho potuto reperire, risale dall’aprile del 2020, adesso non sono riuscita a comprendere a che punto sia l’edizione, a causa del grave momento che sta vivendo ogni realtà di questo mondo.

ATTRAVERSO MISTERO CELESTE

Il racconto inizia da un ricordo, da una rimembranza scaturita da un uomo comune, quasi di mezza età, infelice e distaccato da una vita apparentemente perfetta in cui non si riconosce; il tutto non nel modo consueto della psicopatica società contemporanea… c’è qualcosa di più: c’è un vuoto, un ricordo forse incompleto, un dono non richiesto. Vivi, morti e immortali strappano via esistenze senza motivi che possiamo conoscere in modo certo.

Qui bisogna fare uno sforzo di fede, in Gaiman, e forse nella nostra capacità di trarre insegnamenti da giochi sadici o ben congegnate messe in scena dei significati celati dell’universo: sia esso visto nei suoi piccoli e oscuri anfratti, sia nella magnificenza del suo tutto.

Dalla normale quotidianità di una creatura infelice, umana, imperfetta si passa agli esseri perfetti per eccellenza: gli angeli.

Ci troviamo nel luogo dove governa “IL NOME”; appena oltre una grande città di luce… solo le tenebre. Gli angeli lavorano alacremente alla costruzione dell’universo, secondo il disegno del NOME.

Ma come si arriva da Los Angeles, in California, ai tempi prima dei tempi? Forse un uomo… forse due donne e una bambina…

Al primo ricordo spezzato si somma il ricordo lucido di qualcun altro.

L’angelo Raguel viene richiamato alla sua funzione: la vendetta. Un suo fratello è stato trovato morto, e il Primo Angelo, il comandante delle milizie del Nome scuote Raguel dalla sua cella… irradiando della sua luce dissimile da quella di qualunque altro essere celeste. Lucifero non è ancora caduto ma camminerà un po' oltre la luce, il Nome si cela e un corpo esanime chiede giustizia. Carasel si è tolto la vita compiendo il gesto più estremo nei confronti del creato? Dovremo attraversare il tempo della creazione delle grandi cose del mondo come l’Amore, la Morte… noi saremo costretti ad interrogarci, come forse anche gli Angeli che lavorano senza sosta per cesellare grandi cose sconosciute anche a loro stessi. Gli esseri celesti non hanno esistenza al di fuori della loro funzione e non hanno sesso.

Alla fine, i due ricordi avranno ragione di essere affiancati?

Qualcuno non ha di certo mai smesso di fare il suo lavoro.

Luci e ombre si mostrano ovunque in questo racconto, con tutta la loro forza. Si passa dalla descrizione di una pratica sessuale consumata in modo squallido all’amore più puro che si possa concepire. Il tratto di Russell riesce a vestire l’uomo e la contemporaneità fino dar vita ad angeli talmente meravigliosi e vigorosi da sembrare i principi di qualche fiaba illustrata di un altro secolo. Gaiman mescola crudeltà e delicatezza, fiaba e orrore, vuote bassezze e metafisica. Russell è l’architetto perfetto per un progetto dai confini non delineati, e questo mi ricorda qualcosa…

Il SAN VALENTINO DI ARLECCHINO

Anche in questo caso ci troviamo di fronte un volume pubblicato, primamente, dalla Dark Horse.

JOHN “MIRABILIS” BOLTON

Come per gli altri illustratori, la raccolta della Magic Press riporta in coda la biografia del creatore delle immagini di questa storia assai inquietante. La differenza la fa un intervento di Neil Gaiman stesso, inserita dopo la fine de Il San Valentino di Arlecchino. Un autoritratto di Bolton campeggia tra le pagine, con il volto coperto da una maschera antigas rossa; sullo sfondo un’indefinita sfumatura di colori, dove si poggia una postura tra il composto e il misterioso: le mani sono dietro la schiena, gli occhi sono coperti da particolari della maschera che presentano un’altra macchia di colore su un occhio… e sull’altro un bulbo oculare da pesce impagliato, morto… potremmo pensare “è solo una maschera”, in realtà quell’immagine è il preludio all’esoterismo che circonda la figura di Bolton. Gaiman racconta di un artista-evocatore, di un uomo legato alla Massoneria, a strane tradizioni, oggetti e compiti. Lo studio del fumettista è come una cripta, e più o meno lo è… senza il “come”. La maschera antigas non è un orpello scelto per un autoritratto surrealista, è l’oggetto rituale che Bolton DEVE indossare prima di mettersi a lavoro. L’oscurità scende e le candele vengono accese: dai bagliori e dall’oscurità qualcosa uscirà e reclamerà vita, dettagli, materialità. Gaiman parla di Bolton come di un personaggio delle sue magiche e oscure storie… si arriva a parlare di “morti che seppelliscono i morti”, di paura, di strani legami indissolubili di interdipendenza con l’ignoto. Di certo è sempre, forse, una buona precauzione avere un coltello con sé. Gaiman si allontana dallo studio di Bolton e tra gli alberi qualcosa osserva… ma è bene ricordare che spesso “NON È SAGGIO GUARDARE TROPPO DA VICINO”.

Sono da ricordare le collaborazioni di Bolton con lo sceneggiatore Chris Claremont (autore di X-Men), e con Clive Barker per la versione a fumetti dell’horror Hellraiser (romanzo e film di Barker). Ha lavorato con Neil Gaiman anche per la miniserie a fumetti The Books of Magic.

L’ARLECCHINATA

Nel suo intervento extra-storia, Gaiman non parla solo di John Bolton ma anche della figura di Arlecchino, che penseremmo meno nota oltreoceano.

Siamo abituati a collegare la figura di Arlecchino al Carnevale, all’allegria, alle risate. Gaiman tenta un’etimologia del termine e ci troveremo di fronte a termini come “elfo”, “spiritello”“inferno”. Ciò che nell’Antica Roma era burla e nella Commedia dell’Arte scherzo, ribaltamento e simbolo, nella seconda metà del diciassettesimo secolo trova il suo doppio oscuro in Inghilterra e poi in America. Arlecchino e altri personaggi della Commedia dell’Arte italiana, lontano dalla loro patria, diventano esseri magici. Anche Pulcinella, il vecchio eccentrico gobbo col naso adunco, muta in un assassino… e se noi associamo la maschera nera proprio a lui, pensate che nelle commedie più recenti del mondo anglosassone è Arlecchino ad avere il volto nero come la fuliggine.

Dov’è l’allegria del Carnevale?  Beh, in questo fumetto che andremo ad analizzare sicuramente possiamo imbatterci nel famigerato “ribaltamento”, però alla maniera di Gaiman.

SEGUENDO ARLECCHINO… CHE SEGUE QUALCUN ALTRO

L’Arlecchino in cui ci fa imbattere Gaiman non ha nulla di divertente: è mascherato (e ok), porta con sé un bastone e una bombetta che evocano subito il magico. Le pose di questo personaggio sono scomposte, teatrali (e ok), ma anche così contorte e innaturali che paiono attribuibili a un demonio, a un incubo che si nasconde nell’ombra di una camera da letto, a un essere strisciante che guarda e aspetta il momento giusto per colpire. Però… che bello, è San Valentino! In questa festività si danno e si ricevono doni: l’amore “impregna” ogni cosa e si va al ristorante a mangiare piatti a tema, magari di colore rosso. In questa storia accade più o meno questo… se non fosse che Missy, la “Valentina”, non troverà un biglietto attaccato alla sua porta ma un cuore sanguinante. Penserete che la ragazza sia esplosa in isteria e terrore…

Missy ha tante cose da fare, dopo aver tentato, in modo superficiale e sfuggevole, di cercare risposte al cimitero. Missy poi dovrà pur mangiare. Arlecchino la segue sempre, invisibile. Il demonietto mascherato e scavato in volto la osserva, mentre crea scompiglio tra la gente normale.

Arlecchino viene dal mondo dei morti, così dichiara. Con i morti parla e i vivi non lo vedono, almeno così lui crede.

Tutto sembra sotto controllo, tutti sono nei loro panni e nei loro ruoli. Ma il bello dell’Arlecchinata non è il cambiamento?

Scoprirete tutto leggendo, anche se è garantito lo straniamento, la perturbazione, l’effetto disturbante della confusione degli archetipi.

Bolton usa uno stile fotorealista. I personaggi sembrano veri ma i loro contorni sono tremolanti, sfocati… proviamo a mettere a fuoco ma le figure sono simili a istantanee mal riuscite, a esseri che vogliono sfuggire alla vista e alla concentrazione di un momento di analisi. Tutto si muove e tutto è fermo, allo stesso tempo. La quotidianità è grigia, il soprannaturale è l’unico colore che sembra chiazzar di sangue le vite della gente normale. Storia e immagini si fondono perfettamente in un effetto allucinatorio: Il San Valentino di Arlecchino è un Carnevale freddo, è colori sbiaditi, è psichedelia sommessa e penetrante. Molto turba, ma non si capisce se per questo effetto basti ciò che vediamo… forse Arlecchino è più vicino e più vivo di quanto lo sia una sua riproduzione?

CREATURE DELLA NOTTE
E
LE VICENDE RELATIVE AL CASO DELLA SCOMPARSA DI MISS FINCH

Gli ultimi due fumetti della racconta sono in realtà tre: il titolo Creature della Notte contiene Il Prezzo e La Figlia dei Gufi. Tutti i titoli nominati sono illustrati da Michael Zulli, che ha già lavorato con Gaiman nel contesto della grande famiglia di Sandman. Come per gli altri fumetti de Il Grande Libro di Neil Gaiman, l’edizione originale è ad opera della Dark Horse.

Lo stile di Zulli è colorato, espressivo attraverso l’accentuazione dei volti e dei modi dei personaggi.

In Il Prezzo, primi e primissimi piani si dividono tra animali, domestici e non, e lo scrittore che ritroveremo anche nelle bizzarra e inquietante storia di Miss Finch. I protagonisti sono un uomo e un gatto nero, apparso dinanzi a una casa che vede arrivare spesso gatti abbandonati che paiono spuntare dal nulla. So che state pensando alla solita storia del gatto nero indemoniato o che per lo meno promette tormenti. Effettivamente molti sono i preliminari riferimenti che non possono non far pensare a Il gatto nero di Edgar Allan Poe: un uomo racconta una storia difficile da credere, numerosi animali vengono accuditi da una famiglia che pare amorevole, un gatto nero ruba la scena e il suo pelo verrà tinto di rosso sangue. Conoscendo Gaiman, ed essendo arrivati a questo punto alla metà della raccolta (supponendo una lettura), si è già inteso che i paradigmi vengono ripresi dallo scrittore solo per essere smentiti, guardati da un lato diverso… reinterpretati per onorare il disfunzionale, che è però autentico. La superstizione è sì chiamata in causa, come ne La figlia dei Gufi, ma è combattuta con l’amore che Gaiman è solito costruire: insolito, fuori dagli schemi, oltre la paura e i limiti. Il gatto nero sembra legato alla fortuna della famiglia che lo accoglie, una cantina diventa il punto di svolta per una riflessione sulle coincidenze… ma non credete che un diavolo in forma di gatto nero sia troppo scontato per Gaiman?

La figlia dei Gufi è una di quelle vecchie storie che signori dell’alta società possono raccontarsi in salotti immobili e avvolti dai fumi di sigari costosi. Si parla di una storia che forse è vera, qualcuno l’ha riportata. Molte leggende nascono da un bambino abbandonato. In questo caso si tratta di una bambina, ciò che la distingue non è una copertina ricamata o una strana voglia sulla pelle, come accade nelle fiabe: quel batuffolo d’uomo racchiude tra le minuscole dita una borra di gufo. La borra è un rigurgito di cibo indigesto, caratteristico di determinate specie di uccelli. I gufi sono dalla notte dei tempi associati all’oscurità e quindi al male. Le leggi degli uomini erano, o forse sono, spesso intrise delle leggi della paura… e quindi, quale sorte ci si aspetta per l’orfana? Primamente si può pensare che già aver salva la vita possa essere un gran regalo per la piccola creatura sfortunata; non sempre vivere e diventare bellissime può destinare alla felicità. L’uomo che si veste di ferrea morale spesso nasconde il demone del desiderio represso…

Ma cosa significa essere una “figlia dei gufi” se non poter sorvolare le tenebre, siano fatte di aria o carne. Un rapace agisce all’improvviso, è un predatore che non lascia nulla della sua vittima perché porta via, rapisce, come farebbe un alato angelo dell’oltretomba.  

Le vicende relative al caso della scomparsa di Miss Finch inizia al tavolo di un ristorante: tre amici mangiano sushi riflettendo se sia il caso di raccontare a qualcuno l’orribile e incredibile faccenda nella quale sono stati coinvolti poco prima, anzi, che ha “avvolto” principalmente Miss Finch (anche se questo non era il suo vero nome). E poi… come era bella Miss Finch.

Il punto di vista esterno alla storia è in realtà interno perché occhio, memoria ed esperienza dello scrittore già conosciuto in Il Prezzo. Non ci è dato di sapere se sia davvero la stessa persona, ma l’involucro è lo stesso.

Lo scrittore parla con i due commensali, amici che pare conoscere da tempo: una donna dai capelli rossi, giornalista capace e vorace; un uomo di bell’aspetto che si barcamena tra mille progetti dopo aver esordito in un talk show.

La scena si sposta dal ristorante verso le ore precedenti, sospese in un ricordo che pare un’allucinazione. In effetti il narratore racconta la sua storia, a parte, e l’illustratore ci mostra il ricordo di qualcosa che sa di senso di colpa ma anche di immenso stupore e meraviglia.

Tutto parte dalla fine della vicenda, dal ristorante, per poi ricominciare in una camera d’albergo di Londra, città dove lo scrittore era volato per lavorare. Una telefonata dai due amici costringe l’uomo a una serata di distrazione che sarebbe iniziata con un teatro per poi dirigersi verso il famoso ristorante di sushi. C’è solo un piccolo fastidio: la rossa giornalista Jane deve portare con sé un’amica, che è in Inghilterra solo per pochi giorni. Miss Finch è una biogeologa avvolta in abiti neri, fascianti, che la nascondono. La donna appare subito una anomalia in un mondo colorato e caotico, che ingurgita parassiti da cibo crudo alla moda… e che si diverte con macchine di tortura per animali come i circhi. Questi sono i pensieri di Miss Finch, che non si esime dal rimarcare il suo distacco e la sua disapprovazione verso la maggior parte delle cose che sembrano non avere importanza per i tre amici che cercano solo l’effetto ludico di una serata all’insegna del disimpegno e del divertimento, così come tutti lo concepiscono. Il teatro salta e il gruppo si dirige a un circo: non si tratta del solito spettacolo di acrobati e animali (Miss Finch non sembra però rassicurata). L’intrattenimento attende la comitiva nei sotterranei di Londra. Ecco che un circo dell’orrore accoglie una moltitudine ristretta di persone alla ricerca di una fuga dalla noia. 

Gli artisti sono personaggi inquietanti che paiono tristemente osceni solo perché truccati male, eccessivamente: così vengono descritti dal punto di vista dei normali tre che cercano divertimento ma nel disincanto non godono e non comprendono a fondo tutte le “messe in scena” imperfette, ma anche ben congegnate che a loro si presentano. Si parte cercando di generare paura, ma l’uomo contemporaneo pare troppo distratto anche per spaventarsi… ma si sa che la paura è una componente importante per la sopravvivenza. Quale altro forte sentimento attanaglia l’uomo insieme alla paura? Il desiderio. Chissà che qualcuno possa finalmente sbocciare e abbracciare la propria agognata natura repressa. Miss Finch non esce da quelle umide, e infinite, stanze sotterranee… ma chi ne resta più turbato?

È da far notare un fugace riferimento al musicista Alice Cooper, la star dell’horror rock che ha fatto del weird e del trucco sbafato il suo marchio. Michael Zulli e Neil Gaiman sono stati i creatori del fumetto che include tra i personaggi proprio il musicista, questo perché l’opera è la trasposizione in immagini e parole del concept album di Cooper The Last Temptation. Il fumetto porta lo stesso nome… e devo dire che questi continui rimandi e sassolini, che percorrono la raccolta qui presentata, sono un intrattenimento che può aprire porte dell’immaginario abili a legare a Gaiman anche i neofiti.

CONCLUSIONE

IL GRANDE LIBRO DI NEIL GAIMAN è un percorso a stanze, proprio come quello presente in Le vicende relative al caso della scomparsa di Miss Finch. Passo dopo passo ci si alterna tra voli altissimi tra le vette dello sconosciuto, oltre i confini dell’universo, e si scende a picchiata, a tratti, sui marciapiedi di una vita fatta di malvagità gratuita e bassezze tipicamente umane. C’è il perdono, c’è la collera ma anche la giustizia. Ci si spaventa e si prova disgusto per un gesto infernale fatto da un demonietto invisibile e ci si gira dall’altra parte per non restare a guardare i preliminari crudi di un rapporto carnale; ci si commuove tra la purezza di concetti filosofici che si fanno carne, piume e passione. Angeli, animali, donne sole e sfiorite, fanciulle indifese che nascondono una forza innaturale; sciocco disincanto metropolitano e vegetazioni che spuntano dal nulla per ricondurre l’uomo superbo con i piedi a terra, o con tutto il corpo a terra.

 Gaiman è un narratore, un imbonitore e un arlecchino; i fumettisti sono una squadra perfetta di sceneggiatori dell’impossibile, e biologi delle nascoste disfunzioni della creatura umana: nata sì con il peccato, ma sempre più disconnessa dalle essenze primigenie che crearono il bene e il male per il grande dono del libero arbitrio. Avete timore, è comprensibile… non so se un gatto nero spuntato dal nulla possa farvi compagnia, dopotutto le superstizioni che prende in prestito Gaiman sono il pretesto per far cadere il sipario delle sciocche sovrastrutture umane che negano una visione più sviluppata, che sia in grado di scorgere nelle tenebre quanto l’apparenza possa ingannare e nascondere il riflesso malvagio che la duplicità insita in ogni cosa nasconde.  

 

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Grazie e buona lettura!

 

 

mercoledì 26 agosto 2020

NEW YORK 1941 di Luca Giribone

 

L’AUTORE

Luca Giribone nasce a Torino nel 1975. Fin da giovanissimo si dedica alla scrittura, collaborando con La Stampa di Savona nell’inserto giovanile Il Menabò. Si trasferisce a Milano e segue la sua passione per il mondo della comunicazione: proprio per questa sua attitudine inizia a lavorare nel mondo pubblicitario come copywriter.

 SITO UFFICIALE DELL’AUTORE

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NEW YORK 1941. FORSE

Ph. Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

L’opera qui presentata è stata pubblicata da Europa Edizioni nel 2017. Partendo dalle informazioni in quarta di copertina, New York 1941. Forse è un breve romanzo dichiarato come “noir, sapientemente hard boiled”; si promettono colpi di scena, si preannuncia che nulla è quello che sembra e, sempre nelle informazioni preliminari concesse al lettore, si citano i protagonisti e una questione legata alla corruzione dell’uomo più potente di New York. Fin qui niente di strano… se non fosse che questi dettagli sono relativi solo a metà del romanzo. Questa particolare “falla” finisce per trasformare in qualcosa di poco chiaro i potenziali punti di forza e i gorghi affascinanti in cui si trova avvinto il lettore. Partiamo dalla storia…

TRAMA E STRUTTURA

Img Pixabay Edited

Frank Logan è un giornalista del New York Daily, talentuoso e arrivista, sicuro ma spezzato. Sono proprio i suoi pensieri confusi a darci il benvenuto in una lettura che sicuramente mantiene la promessa relativa ai colpi di scena. Frank ci accoglie in un dormiveglia, anche se non si può parlare di quella situazione in senso stretto… le sensazioni però sono simili ma nulla è identificabile con certezza. Fin da questo primo incontro con il protagonista ci approcciamo alla struttura “doppia” del romanzo: i fatti raccontati dal narratore onnisciente sono riportati in tondo, e questo “Dio” creatore viene interrotto in maniera sommessamente potente dai pensieri dei personaggi, dai loro ricordi e dalla narrazione in prima persona di ciò che vedono, vivono e ricordano; i narratori invadenti interrompono la scrittura usuale con un corsivo marcato che suggerisce subito una rottura, potremmo dire una “falla” nell’intreccio apparentemente ben congeniato e diretto allo scopo del suo compiersi in maniera impeccabile.

Il ricordo… questo elemento è forse la chiave che il lettore dovrebbe cercare, dato che non c’è!

Ogni attore di questa storia psichedelica (ma non si era detto noir?) ripercorre alcuni momenti della propria vita fino a dover sbatter su un nome che non si riesce a ripescare nella mente, un data, un seguito a qualche vicenda che sicuramente sarebbe impossibile dimenticare per pura rimozione difensiva. Lo smarrimento del non ricordo viene avvertito da ogni personaggio: siamo partiti da Frank… ma ciò è vissuto anche da Dorothy.

Dorothy è un’affascinante avvocatessa originaria del sud, vive con Frank un amore intenso ma diviso tra la preoccupazione costante per le sorti del suo amato cacciatore di scoop e una risolutezza che fa splendere la donna, tra una sigaretta accesa e un rimprovero al suo amato troppo dedito all’alcol. Frank si sente perennemente colpevole davanti a Dorothy, sia per le sue piccole manchevolezze e debolezze che per l’effettivo pericolo a cui si espone ogni giorno… trascinando con sé la sua donna, che naturalmente risponderebbe di ogni passo falso, o oltre, di Frank.

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Questa volta la questione è davvero gigantesca e potenzialmente, molto potenzialmente, senza via di uscita… come le profonde fondamenta di un grattacielo approvato e voluto da tutti, ma che nelle strutture della sua costruzione nasconde parecchi cadaveri caduti per la crescita di qualcosa di più importante solo perché socialmente riconosciuto.

Il Sindaco Richmond ha saputo farsi strada distribuendo caramelle allucinatorie fatte di promesse, piccole necessità soddisfatte, sorrisi e apparizioni ben studiate su giornali improvvisamente felici per un’uscita inaspettata dal deficit finanziario. Frank ha fiutato il tipico odore della corruzione: un misto tra acqua di colonia costosa, fumo di sigaretta, e morte. Chi aiuterà Frank in questa suo assalto suicida? Potremmo pensare che l’amico poliziotto Jim Ross sarà l’aiutante prescelto.

GIMME THE BALL JIMMY!  

Jimm Ross è un segugio, o almeno da qualche parte deve pur esserci un animale da cerca in un corpo da ippopotamo ingurgita gelato.  Jim, come gli altri personaggi, non è di New York. La storia di Jim parte da lontano, da una casa abitata da altre persone dalla corporatura molto robusta… e la cosa non impedisce a Fleur Ross di occuparsi di quasi tutte le case dell’alta società di Boston, compresa quella dei Flynn, dove il capostipite Ross ha un bel da fare con quelle mani che sanno fare proprio tutto! Della famiglia Ross fa parte anche Bobby, un ragazzo disabile che ama alla follia suo fratello Jimmy. Fleur è una donna risoluta, la sola cultura accademica che Jimmy memorizza tra una definizione sprezzante sul mondo e la promessa solenne di badare SEMPRE a Bobby. Purtroppo, la vita di strada crea legami forti legati dalla voglia di fare branco, ma il branco ha la maledetta potenzialità di riversarsi violentemente sul membro più debole. Jimmy contravviene alla “grande promessa”; Jimmy “la palla”, perché è così che tutti lo chiamano, viene ingannato da un amore grande e apparentemente necessario e va contro sé stesso come se una forza dall’alto guidi la sua stupida e prevedibile vita fallace.

Jim Ross, ormai poliziotto, forse per rimediare a qualche senso di colpa, incontra Frank. Una panchina e una brioche con il gelato… un appuntamento misterioso dato al giornalista Frank Logan tramite un ennesimo biglietto anonimo. Il risoluto giornalista ha paura, ha capito e cerca come può di sopravvivere; se non per lui stesso… per Dorothy.

L’appuntamento è alle dieci di sera a Staten IsIand. Questo luogo in realtà non è solo il posto più adatto per venir uccisi tra le nebbie e le ombre della brulicante malavita degli anni Quaranta… Staten Island è un “PUNTO DI VISTA”. Sì, vi siete affezionati a questa storia? Sicuramente potreste darmi una risposta affermativa: chi non vorrebbe giustizia per la vedova Marley? Adesso, però, dovete dimenticare tutto, stracciare la quarta di copertina e prepararvi a un vortice che risucchia i multipli punti di vista della narrazione per fare in mille pezzi il presunto bel romanzo noir e far esplodere tutt’altro.

Frank sicuramente è destinato a patire la punizione per il solito “aver ficcato il naso”, qualcuno magari interviene, come nelle più rosee aspettative. Jim un ruolo alla fine lo assume… anche perché sa decisamente molto di più di quello che si potrebbe mai aspettare.

Un convento di suore, la speranza di Frank di aver trovato un “informatore”; Bobby che nella notte accoglie un poliziotto e un giornalista da romanzetto d’appendice per portarli nel profondo della... consapevolezza?

Bobby? Sì, Bobby è il classico individuo così puro e sensibile da poter essere il tramite per mondi, o verità, che non riusciamo a percepire perché persi nel vacuo quotidiano chiacchiericcio.

A questo punto devo essere onesta e dirvi che arriva la fantascienza, il futuristico, il metafisico… il metanarrativo.

Il romanzo, noir mezzo hard boiled, vedrà Frank attraversare una porta che lo obbligherà a una vista obbligata che fa male agli occhi e alla testa, e la morfina che ha preso prima dell’incontro con Bobby non può bastare.

Ho parlato di un autore che gioca a fare Dio: Frank dovrà scegliere se compiere un atto di fede per cercare di scoprire il significato della vita e della morte, e soprattutto penserà a Dorothy, a quanto deve a lei almeno un tentativo.

Negli anni Quaranta il mondo è duro e fatto di armi, silenzi e bocche cucite sapientemente: tutti vogliono vivere nella totale superficie di un apparente benessere, se non realmente presente almeno in potenza (il Sogno Americano!). La guerra, nel 1941, ancora sembra una cosa che non riguarda le casette ricolme di famiglie ben assemblate e nascostamente crepate all’interno.

Ed è tutto un mondo limitato a una morale appassita e alla vita quieta di una coppia felice di non esssere capace di pensare al significato della vita stessa, o di essere, al contrario, capace di non pensarci.

Potreste dire che da allora non sia cambiato poi molto il quadretto sociale, il punto è proprio questo: passato, presente e futuro a volte si manifestano in lapsus che ci fanno credere di aver dormito troppo poco, Frank dovrà svegliarsi e decidere di cedere alla non decisione. In fine…

Bastava solo stare lì ad aspettare.

ANALISI E RECENSIONE

Ripartiamo dalla quarta di copertina:

Un romanzo noir, sapientemente hard boiled, parrebbe al lettore.

Questa storia ha, inizialmente, tutte le caratteristiche del noir metropolitano: New York fa da protagonista con i suoi intrecci, le sue ferite, il suo benessere parziale misto al martirio delle fasce più deboli. La componente sociologica che distacca il noir dal semplice giallo deduttivo si distribuisce tra i personaggi positivi in lotta con il crimine. Si sa, però, che la parte dei buoni non è così edificante in storie di questo genere… il protagonista è un personaggio ambiguo che si trova a svolgere il suo ruolo non per una volontà di giustizia per una malsana ricerca di risposte, dettata anche e soprattutto da motivazioni personali.

Sarà. Ma i giornali campano di sventure. Forse col tempo ti abitui al fatto che una tragedia è uguale a un buon numero di copie vendute. E finisci per essere contento quando un treno deraglia e muoiono trenta persone.

Nel noir il protagonista finisce per essere la vittima, non c’è un solo delitto da decifrare ma un’intera collettività marcia da affrontare dal punto di vista di una vita dissoluta, disordinata e che procede con un piede nel lato della malavita stessa. In questo caso non abbiamo il classico detective privato con un passato turbolento nella polizia ma un giornalista… lo stigma viene però recuperato nel passato di Frank: il padre era un poliziotto che sembra incarnare meglio i dettami dell’hard boiled, in esasperazione.

Come è morto tuo padre Frank?

Rispetto al noir, l’hard boiled è invaso di azione; in questo romanzo si passa da sommessi movimenti e storie poco confortanti fino a un’azione preceduta, però, dai tipici climax del thriller. Nel mezzo una voragine…

Ci si abitua ad una storia, che potremmo dire scontata per quanto sia ben dentro i suoi panni, ma quella storia così ben delineata in quarta di copertina… ad un certo punto implode.

Fin qui non possiamo non apprezzare la scrittura perfettamente studiata dall’autore, anche se sfuggono piccole imprecisioni come delle virgolette alte poco attenzionate o un sindaco declassato ad assessore. Sviste editoriali facilmente risolvibili.

Nella prima parte del romanzo mi sono concessa un innamoramento folle nei confronti dei personaggi, grazie alle confessioni “corsive”. Queste sono le parti a cui il lettore deve fare particolare attenzione: i nomi che sfuggono, i ricordi che sfumano nel nulla nonostante gli sforzi dei loro deboli detentori… cosa succede? Come è possibile che il nome di una sorella morta o il decesso di un genitore sfuggano come il numero di telefono di un conoscente utilizzato poche volte?

La storia di Jim e del fragile Bobby ha riempito il mio spirito di rabbia e commozione: in poche pagine la storia dei reietti di una città che promette meraviglie, la saggezza della strada mista alla sua indicibile e spietata rabbia.

 Niente, a un certo punto siamo nella storia, siamo a Staten Island e dobbiamo gettare tutto a mare.

Sicuramente viene ben mantenuta la promessa di stupire e, nonostante lo straniamento iniziale siamo costretti ad andare avanti totalmente avvinti dalla necessità di capire; anche il protagonista prescelto deve capire, anche se non “crede”.

Buttate via il noir, l’hard boiled… qui arriva la fantascienza.

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Ecco il punto caldo. Il lettore vuole essere stupito ma non va mai tradita la sua fiducia. Mettiamo il caso che io acquisti un libro che in quarta di copertina promette storie di vita quotidiana… che “non sono quello che sembrano”. Si sfiora l’eventualità che le storie possano generare brividi o inquietudine, ma non si cita espressamente l’horror. Mettiamo anche il caso che io odi l’horror, che questo genere non faccia proprio per me… pensate al mio stato mentale quando, a metà delle pagine del mio volume, mi trovo in una bella storia horror con tutti i crismi. Come dovrei sentirmi? Potrei andare avanti se la storia ormai mi ha coinvolta, o posso rimettere il libro sugli scaffali abbandonando qualcosa che non avrei voluto per me.

In New York 1941 si citano il noir e l’hard boiled in quarta di copertina, si chiama in causa lo stupore del lettore, in modo quasi tautologico; poi se abbiamo la curiosità di leggere la biografia dell’autore siamo informati del fatto che il libro sviluppa “temi fantastici”, tutto qui.

Siamo chiari: questo romanzo parte dal noir, si sposta sull’hard boiled (perché comunque i duri fanno sempre il loro effetto), e poi è nettamente fantascienza, sfociando nella metafisica. Le mura del genere che si evoca come principale cadono e resti tra le macerie. Badate bene, il libro è scritto bene e la storia è fatta per stupire… e forse, proprio qui, si è andati appena un po' oltre.

Il tuo Dio è il tuo autore. Il Dio che potrebbe far morire è l’onnipotente padrone del tuo destino scritto su un foglio di carta.

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Nella storia ci troveremo davanti a questa frase, e nulla sembrerà più vero.

La fase oltre gli eventi, la svolta metafisica che propone una serie di mirabili riflessioni metanarrative è assolutamente potente… riuscendo a coinvolgere anche un’allergica alla fantascienza come me.

Qui lo shock iniziale allarma e fa temere un sensazionalismo puntato all’emersione di un mostro marino letterario vorace. Alla fine, Luca Giribone sa quello che fa, ma dovrebbe considerare che anche i lettori sanno quello che fanno.

New York 1941 può essere oltrepassato nel successivo romanzo dello scrittore: TRYTE (il quale parrebbe un seguito, che però non posso assolutamente immaginare).

Secondo voi da cosa dipende la vita di un personaggio? Conan Doyle tentò di uccidere il suo Sherlock Holmes, sappiamo tutti chi reclamò più volte il suo primato: il lettore.

Il Dio del personaggio è l’autore o il lettore? Il Dio dell’autore chi potrebbe essere?

Io preferisco pensare tutto in termini meno assolutisti: collaborazione questa parola mi piace.

Consiglio la lettura di questo romanzo perché sicuramente è qualcosa dalle immense potenzialità; basta solo che questo potenziale non ceda, in futuro, alle lusinghe del “nuovo” e del “mai visto prima” in modo eccessivo fino a sbatterci contro il viso ben rasato. Il film Matrix lo abbiamo visto un po' tutti… ma le copie dei gialli di Agatha Christie non smettono di attrarre un gran numero di voraci lettori.

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Buona lettura!

 

 

domenica 23 agosto 2020

IL GATTO NERO DI EDGAR ALLAN POE

ANALISI DEL RACCONTO ORIGINALE 
E
 PRESENTAZIONE DELLA VERSIONE GRAFICA 
DI 
NINO CAMMARATA 
PER 
NPE EDIZIONI 

Ph. Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Edgar Allan Poe pubblica il racconto Il gatto nero nel 1843.

Poche pagine, infinite sfaccettature della mente e dell'animo umano, follia o lucida malvagità, orrori interiori che esplodono in comportamenti violenti. Una coscienza deformata, un rimorso mutilato… demoni che non sono mitologia ma realtà. La prospettiva di Poe è quella di un analista dei lati oscuri: non vi è in questo perversione o sensazionalismo ma metodico scandagliare. I racconti dello scrittore appaiono così asfissianti perché mettono a nudo le inconfessate pericolosità insite in ognuno, le perversioni, il lato predatorio che la società cerca di reprimere senza comprendere; l’altra faccia di una mela che mostra una lucida superficie da davanti e dietro nasconde un piccolo buco nero, che può espandersi e far marcire ogni cosa…  quel buco è la putrescenza potenziale di ogni essere umano. Abbiamo più paura della morte, e dei racconti di morte, che delle infinite declinazioni che offrono il libero arbitrio e le scelte alle quali la vita invita in ogni singolo istante. La domanda importante è “come potremmo morire?” o “come potremmo vivere?”.

I racconti di Poe sembrano reclamare un diritto di cronaca sulle mostruosità messe “sotto chiave”, quelle che nelle profondità covano e si riproducono. Abbiamo paura del nostro simile e invece di cercare l’autocoscienza e la coscienza sociale ci si chiude in illusorie immagini immobili fatte di convenzioni, saluti cortesi o di forconi e forche: sì, quelle erette con molta facilità e scarsa comprensione e responsabilità.

 Il “vicino” ci fa paura… ma chi non ricorda la famosa frase “salutava sempre” che accompagna sempre le rocambolesche interviste post tragedia inaspettata?

Nel 1995, grazie allo psicologo e giornalista David Goleman prorompe l’espressione “intelligenza emotiva”. Questo concetto era già stato espresso in precedenza con diverse terminologie o riflessioni… ma il fatto che nel decennio della grande rivoluzione tecnologica e mediatica queste due parole diventino famose è assai importante. Spesso si parla di QI, quoziente intellettivo… ma è stato dimostrato che questo aspetto influenza la performance e lo status di un individuo o di una collettività in una percentuale intorno al trenta percento… il resto da cosa è influenzato? Dal QE, il quoziente di intelligenza emotiva. La funzionalità cerebrale fatta di processi di calcolo e immagazzinamento non basta. L’intelligenza emotiva è la capacità di connettersi e dirigersi verso sé stessi e gli altri, di comprendere le emozioni e gestirle; è anche il saper guardare alla paura potendola usare come mezzo di consapevolezza, addirittura di evoluzione.

 La frase “salutava sempre”, di cui abbiamo parlato, cosa mostra? Sicuramente la volontà di dare una definizione agli altri, il più possibile rassicurante; il rimarcare a sé stessi e all’interlocutore che un tale orrore è inspiegabile; il porre una realtà pensata come verità… anche se gli eventi suggerirebbero una presa di coscienza a ritroso. Se ragioniamo sul fatto che in comunicazione le parole occupano una percentuale di importanza intorno al sette percento, quante cose ci sfuggono? O meglio… di quante cose scegliamo di non farci carico? L’intelligenza emotiva spinge alla coscienza, in primis verso sé stessi e poi verso l’altro. Non possiamo essere obiettori di coscienza davanti alla coscienza stessa. La mission dovrebbe essere comprendersi e comprendere, entrare in empatia con il nostro Io (non con l’Ego iperstrutturato), per poi compiere il nostro ruolo condiviso di cucitura e rifinitura del tessuto sociale, COLLETTIVO. L’empatia non è una cosa da Hippie ma una seria responsabilità. Non è la compassione… o almeno non solo. Avere empatia significa entrare in connessione con l’altro (ma prima sempre con sé stessi).

L’Horror che ruolo ha in tutto questo? La paura è un fisiologico sentimento che ha immense potenzialità per la nostra conservazione e sopravvivenza; è anche vero che è, allo stesso tempo, uno dei blocchi più potenti nel percorso esistenziale. È sempre la consapevolezza e il movimento a fare la differenza. Posso comprendere e superare solo ciò con cui mi confronto. Se Carl Jung ci dice che ciò a cui opponi resistenza persiste… forse prima di opporre resistenza all’orrore dovremmo capire come funziona, CHI è, porre dei rimedi il più possibile realmente efficaci. Bisogna essere proattivi verso il problema, non sordi e ciechi. Da piccoli ci parlavano del diavoletto e dell’angioletto che dividendosi le nostre due orecchie ci sussurrano cose: mai metafora più azzeccata. La scelta… Poe ci pone davanti uomini che hanno scelto la voce del male. Non sono dei pazzi, sono dei lucidi scienziati della malvagità, della vendetta e dell’autodistruzione. Il prefisso auto è potente, sempre. La follia viene chiamata in causa dalle prevedibili considerazioni esterne. Nel caso de Il gatto nero il protagonista specifica di non essere pazzo; magari leggendo potremmo pensarlo perché così si archivia il problema e si dorme tranquilli (più o meno).

L’Horror simula il male in potenza che può proliferare dentro e fuori dalle mura. Certo, alcuni prodotti sono esagerati e quasi comici… ognuno ha il suo stile. Edgar Allan Poe è realismo psichico; a volte è troppo per essere sopportato. Basta però leggere i saggi dell’autore o le sue poesie per rendersi conto di quanto lui fosse dotato di intelligenza emotiva.

Poe è lo scrittore del QE, ci fa vedere la paura, ci fa accarezzare il ragno che ci terrorizza… ci fa buttare nell’acqua che temiamo e con cui non vogliamo bagnarci. Poe compie anche delle sottili opere di autocoscienza: inserisce qua e là demoni a lui familiari, cita malanni e dolori che conosce in prima persona e ha dovuto ben guardare per poterli narrare così bene e, soprattutto, in modo credibile. I fantasmi sono dubbi che insinuano i pensieri del doppio sé, la vendetta è spesso l’urlo della solitudine inascoltata per anni, l’amore è morboso e disfunzionale. Oggi si parla di femminicidio, e molti sono anche infastiditi da questa “nuova parola”: Il gatto nero è una storia vera, mettiamola così. Io voglio pensarla così perché i filosofi (come dice anche l’autore) chissà se possono spiegare il tutto; chissà se un prete può esorcizzare quel demone, aggiungo io. Siamo noi i portatori della nostra coscienza, e siamo anche i cittadini della coscienza sociale. La letteratura non è solo svago: leggere è un processo di immagini, le immagini influenzano il pensiero e poi l’azione.

Ovviamente se non vi piace il genere non significa che state facendo un peccato mortale… di certo posso invitare alla curiosità e alla riflessione, sempre. Soprattutto a considerare che le cose sono sempre molto di più di ciò che sembrano.

 

TRAMA e RIFLESSIONI

Il racconto è la narrazione di un uomo che sa di dover morire il giorno successivo. Non è esattamente una confessione perché non c’è volontà alcuna di assoluzione o discolpa; si parla sì di “liberazione dell’anima” ma andando avanti nella storia si capisce il significato di questa espressione. Il rimorso non è un motore di redenzione ma quasi uno dei demoni che tirano i fili del male, della violenza. Guardare un “occhio” attraverso il quale ci vediamo colpevoli quali reazioni può provocare? Non dobbiamo rispondere in modo soggettivo ma con quella intelligenza emotiva consapevole di cui vi ho parlato.

Il protagonista/narratore ci mette davanti al “racconto più straordinario, e al medesimo tempo più comune”: le primissime parole usate per avviare la storia sono una chiave di comprensione, a mio avviso.  

Un essere docile può trasformarsi in un crudele torturatore e in un assassino? Saremmo portati a dare una rassicurante risposta negativa… ma purtroppo qui si parla di una “serie di casi domestici” (altra chiave sbloccante il senso). Poe non è uno scrittore del fantastico tout court: è un analista.

 L’autore ha vissuto la sofferenza, gli eccessi, il rifiuto e la dipendenza dall’alcol. Tutti questi elementi reali sono presenti in questo spaccato di finzione che è, però, la testimonianza di come il male possa nascere inaspettatamente in ognuno di noi. Si implora la pretenziosa sapienza della filosofia, si cerca di appellarsi al senso comune: in realtà il senso comune qui non dona risposte ma dovrebbe farsi un esame di coscienza, dovrebbe fermarsi a guardare ciò che può nascondersi in ogni luminosa fotografia di apparente normalità.

Il protagonista è solo un uomo che ha vissuto una solitudine giovanile riempita dall’affetto degli animali: un affetto che riconosce valoroso, incondizionato, differente dall’amicizia umana definita “insignificante”. Qualcosa però accade. Forse quella solitudine ha covato in una mente labile, fino a creare un transfert che andrà a scagliarsi in primis con gli inermi soggetti della compagnia che fu balsamo per l’indole docile e asociale del protagonista. O forse forze oscure hanno dall’esterno corrotto un uomo fondamentalmente buono?

Questo condannato a una morte di cui all’inizio non conosciamo ragione, o precedenti, racconta di essersi sposato con una brava donna, con cui è riuscito a condividere la passione per la cura degli animali più disparati. Il prediletto? Un gatto nero.

Si dice che i gatti neri siano streghe travestite, lo dice la moglie del protagonista perché lo dice il senso comune.

Tutto si svolge in una tranquilla convivenza domestica, mentre il gatto nero segue dappertutto il protagonista con devozione ammirevole.

Negli ingredienti comuni di una realtà nella media tranquillità ecco che l’alcol arriva a spezzare qualcosa, o a far accade qualcosa. C’erano avvisaglie o punti di cedimento che precedentemente non si sono visti o non si sono voluti avvertire? Il protagonista diventa ciò che non è mai stato: duro, crudele, indifferente e perverso.

Si dice che i mostri peggiori dormano sotto al nostro letto: in questo caso animali domestici e consorte devota ne avranno la prova.

L’uomo inizia ad essere violento, salvando in apparenza solo il gatto nero. Ma proprio il felino prediletto sarà il bersaglio delle più atroci azioni: mutilazioni e soluzioni definitive per far tacere un rimoso martellante. Un occhio mancante diviene il baratro in cui un’anima perduta sente il peso del proprio vuoto.

Leggere questo racconto è pura sofferenza. Dobbiamo però consolarci pensando alla funzione edificante della paura ben gestita. Ogni cosa troverà il suo modo di vendicarsi o di posizionare gli eventi verso l’autodistruzione di chi ha deciso vita e morte di creature innocenti.

Ciò che non si riesce a comprendere viene scansato o definito barocco, e anche Poe usa questo termine quando il narratore si rivolge ai lettori nelle prime battute. Dopo un incendio e un’apparizione mostruosa qualcuno esclama “strano!”, “singolare”: ecco il senso comune…

Qui si parla di mostri, mostri veri, in bi-direzionalità. Chi ha una mente corrotta vede nel mondo esterno una mostruosità di riflesso, un rinforzo continuo per gli impulsi incontrollati del lato malvagio della natura umana. Chi è colpevole cerca negli altri la giustificazione alle proprie azioni, e prova potere ma al contempo disgusto per gli oggetti quieti e sofferenti che sopportano il dolore inflitto dal mostro originario.

Poe parla della perversione come di un allettante gioco in cui si cade per il puro piacere di far qualcosa che non si deve fare. Lo scrittore non usa mai mezzi termini e come potete vedere non regala sconti alla verità, alla cronaca e alla perquisizione del corpo nudo dell’umanità.

Il protagonista racconta e non riesce a generare alcun tipo di compassione, neanche nel momento dell’auto-sabotaggio del mostro.

Alla fine, il doppio dell’uomo incontra il doppio della vittima, purtroppo molti morti vengono lasciati sul cammino di questa testimonianza. Si può far sì che questo sacrificio non sia nullo… riflettendo, imparando a perpetrare l’allerta verso il male ogni giorno. Dobbiamo denunciare, ascoltare, creare protezione in un mondo dove le vuote cortesie devono lasciar spazio alla caccia al mostro con metodo, non con superstizione; un racconto del 1843 ci è riuscito, con i mezzi a disposizione.

La violenza domestica è una realtà tremendamente attuale: empatia, consapevolezza, ALLERTA! OCCHIO APERTO… e proprio gli occhi sono uno dei tratti distintivi del romanzo grafico che vi vado a presentare.

 

THE BLACK CAT di NINO CAMMARATA, Edizioni NPE

Questo romanzo grafico è il primo che non ha generato in me nessuna perversione: nessuna tentazione di mettere a confronto il racconto primitivo con l’interpretazione data da sceneggiatura e immagini. L’introduzione assai apprezzabile del volume parla della ricerca di simmetria e riscontri tra le forme di comunicazione di una storia: “È come cercare corrispondenze esatte di forma e sostanza tra il bruco e la farfalla, tra il ghiaccio e l’acqua”. Innanzitutto, posso affermare che Poe è presente: all’inizio il volo di un corvo ci dà il benvenuto in questo orrore. In quel corvo ho visto Poe nell’epiteto a lui associato, ho visto il simbolo della morte, il fantoccio dell’ossessione e della proiezione… come quelle raccontate nella poesia omonima. Quel corvo parte nero, materico; alla fine perde spessore e si trasforma in una maschera rossa che si posa direttamente sugli occhi del protagonista. Il personaggio che racconta la storia assume in sé le sembianze della morte, e dell’autore che in lui scaraventa i demoni della sua stessa esistenza.

Ph. Francesca Lucidi 

Le parole sono ben dosate e la sintesi del testo non mi ha fatto sentire la mancanza del racconto originario non perché superiore ad esso… ma perché è altro da esso: è espressione in forme e immagini che possono mostrare un altro modo di raccontare l’orrore, e una storia che ha il potenziale per l’applicazione di una condivisa presa di coscienza.

Non dobbiamo pensare ad ambientazioni “storiche” in linea con la cronologia dell’opera originale: tutto sembra sopra il tempo e lo spazio perché i parametri sono totali, applicabili all’analisi di molte realtà e anche e soprattutto di quella contemporanea. I colori sono dosati e non evocano realismo ma simbolismo, essendo, però, in certi casi denotativi; ma in maggior frequenza connotativi. Il nero non può non essere il colore principale, con tutte le sue sfumature. Troviamo però anche il rosso dell’allarme, del pericolo.

 I disegni sono arte e sono antropologia. Teschi ed espressioni facciali raccontano la storia di uomo e di tutti gli uomini. L’evoluzione viene vista dal punto di vista di un deep side, unito alla messa in evidenza del dark side dell’universo psichico.

Ph. Francesca Lucidi

I gesti enfatici si alternano al vuoto riempito dalle variazioni dello sguardo del protagonista. Negli occhi del mostro si possono vedere tutte le sfumature della caduta, preceduta dall’alternanza di tenerezza, confusione e rara tristezza. Anche la dipendenza da alcol è assolutamente ben rappresentata nei momenti in cui quegli occhi si mostrano spenti, morti.

I primissimi piani mettono a confronto i vari personaggi e soprattutto i due combattenti, anzi tre, di una battaglia che può finire solo con l’annientamento di una delle due parti contendenti.

Nei fogli di guardia si parte da una lontananza, da due figure messe una di fronte all’altra, alla fine del volume solo un buio che fa scorgere qualcosa… per poi tornare al punto di partenza. All’inizio si può capire chi si confronterà… e una casa appare infestata: fantasmi? Morte? In fine si può intendere che il preludio avvertito come un puro vezzo grafico ben riuscito si trasforma nell’eterno ritorno del male nel ciclo dell’umanità.

Questo romanzo grafico è straordinario, dark ma non “di genere”; forte ma dosato sui reali pesi della storia. La cura materiale è eccezionale e Nino Cammarata ha, secondo me, centrato un lavoro unico e potente.

Sono presenti scene violente, in linea con il racconto originale. A voi la scelta se tentare il salto.

 

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Grazie e buona lettura!