I
DUE GIOVANNI E IL DIAVOLO
CAPITOLO
II
Parte
prima
1. La Carezza del Male
Giovanni subiva lo sguardo
fisso del grande cane. Un richiamo… un odore di sangue, e soddisfazione, fece
staccare il Conte dalla finestra. Si avviò lungo i corridoi bui di pietra: le
fiaccole generavano ombre altissime al suo passaggio… le sue spalle muovevano
l’aria che piegava le fiamme. Un suono di suole pesanti e incalzanti rimbombava
nella fortezza come una marcia. Come tamburi... “BOOM!”… “BOOM!”.
Il Festa arrivò presto nella
piazza sotto la sua dimora ferma. Nessun’altra ombra: solo quella di Giovanni.
Si mise a correre e arrivò
dove il cane era rimasto lì a seguire l’odore del suo avvicinamento.
Le suole di Giovanni, le
zampe della bestia: intrise del sangue di quei corpi ormai morti. Sui volti di
quei resti mutilati solo l’orrore. Solo lo sgomento; ma misto a una
tranquillità che faceva pensare a una “liberazione” inaspettata da un fardello
invisibile e terribilmente pesante.
Il Conte guardò a lungo
negli occhi infuocati del grande cane che stava a coda dritta, come una freccia
pronta per essere scoccata. Sentendo un inconsueto sentimento, un’intesa
macabra e sporca, tese la mano verso la bestia scura. Il cane abbassò il capo e
accolse le dita del Festa che si bagnarono intensamente dell’umidità della
notte, che su quei peli aveva versato copiose lacrime gelide. Le due ombre si
fusero in un solo, grande, possente agglomerato fumoso di spietato buio. Il
Festa si staccò dal manto fitto del suo complice, del suo servo… si chinò a
raccogliere le sacche che, tra la terra e il sangue, ancora chiamavano le
grinfie bramose del bel nobile: il silenzioso… glaciale e infuocato Conte
bramoso.
Nella boscaglia in fondo,
qualcuno era riuscito a ingannare il destino. Una figura smunta si nascondeva
in un cespuglio di more. Un mento storto come un falcetto, gocce di sudore acre
e copioso su una fronte a scale… a rughe contratte e sgradevoli.
L’uomo misterioso sentiva
fitte ovunque. Paralizzato dalla scena rossa, dalla scena “morta”… dalla caccia
conclusa e vinta.
2.
Il “Combattente”
Nell’accampamento la brace
creava piccoli ardenti schegge di fuoco nell’aria. Una tranquillità opprimente
fece trasalire Chiaretta che era seduta su un tronco secco, intenta nelle sue
preghiere. Solo lei era rimasta in quel luogo nascosto.
Iniziò a sentire un’angoscia
crescente nel respiro. Un sentore di malvagità le se insinuò nei polmoni che
presero a respirare male… affannosamente. Qualcosa era accaduto. L’odore che
riusciva a entrarle dentro, tra le ispirazioni forzate, era noto e
agghiacciante. Come dieci anni prima: l’odore della morte.
Quando Chiaretta fu portata
via dal capo dei malviventi, dieci anni prima, ebbe paura a ogni passo svelto
che percuoteva l’erba fitta della foresta. Quel fetore di sangue le confondeva
la vista e gli rivoltava lo stomaco morbido, fragile… rinchiuso. Il Capo
l’aveva presa come pegno. La”compagnia” la pretendeva come premio. L’uomo che
la portò via non sfiorò mai un solo capello della diafana sirena catturata.
Quella giovane dallo sguardo selvaggio e puro lo catturò nell’animo, nel petto
pieno di peccato… di malvagie azioni e ignominie.
La protesse come un fiore
raro… carnivoro e poco noto. Le preghiere rabbiose di quella piccola suora
celata lo riportavano a un’umanità che aveva dimenticato. Come provare Amore
tra il male e l’incoscienza? Tra la sopravvivenza e l’egoismo tagliente. A lui
bastava averla accanto, sentire la sua flebile voce. Avere la giacca ricucita
da quelle piccole mani tremanti. Chiaretta fu l’angelo e la madre benedetta di
quella “Compagnia della morte”.
Non tutti comprendevano
l’atteggiamento del capo. Le prostitute erano care, passavano di rado… il Conte
controllava le strade e scendere verso il borgo sarebbe stato troppo rischioso.
Il corpo dell’uomo a
volte è cieco e famelico, come una bestia selvaggia domata che per la prima
volta assaggia la carne vibrante e viva. Gli stranieri assassini rispettavano
il Capo che li aveva condotti alla libertà, ne avevano paura; ne avevano
rispetto. Uno solo tra tutti non perse mai la fame per il “premio”: quei
fianchi accennati nella veste che li ricopriva. Che Chiaretta smacchiava con la
cenere. Che lavava di nascosto, nella notte; e faceva asciugare in un focolare
che per lei il Capo silenzioso, la sua protezione crudele, accendeva
guardandola negli occhi senza proferire alcuna parola.
La suora così accolta nella
fucina del peccato, teneva appese quelle anime al filo sottile della Speranza.
La vita può rendere l’umanità crudele. Il Paradiso a volte viene negato “per
nascita”. Chiaretta spezzava il pane con loro. Guardava le loro mani sporche di
sangue e pregava per ciò che ella non vedeva ma teneva sulla schiena; anche per
quegli uomini, quei relitti, quei maledetti.
Nell’accampamento si parlava
poco e ci s’intendeva con un ghigno o un cenno del capo. Un gesto sotto al
mento. Dieci anni prima il Capo parlò con un tono del tutto diverso per la
prima volta, e disse: «Mi Chiamo Borja, nelle mie terre significa
“Combattente”, quale è il vostro nome?», «Chiara Francesca Beatrice L…»
L’uomo la interruppe:
«Qui nessuno ha un cognome. Qui nessuno ha un’origine. Dimenticate il “grasso
maiale”. Dimenticate il mondo. Adesso la foresta è la vostra casa. Camminate
più svelta. Dovrete abituarvi a correre. Dovrete correre quando sarà
necessario. Promettete!»
Chiaretta fece un
cenno con il capo. Lei aveva imparato a parlare senza usar la gola. Anche se
ora un nodo le stringeva sia la gola che il cuore. Mentre la mano di Borja la
conduceva nell’oscurità, per la prima volta si trovò nel giusto posto, nel
giusto passo. Iniziò a correre, a correre veloce e veloce. Suor Chiaretta
Laurenzio non aveva mai corso. Gli facevano male le ginocchia, le mancava il
fiato, le vibrava la fronte coperta dal suo velo.
Quella sera mangiarono
tutti, in silenzio, la carne di cavallo: il bottino forse più gradito
dell’assalto, dopo Chiaretta. La piccola suora mangiava di gusto come non aveva
mai fatto: quella carne gli sembrava il primo “sapore” che avesse mai
percepito. Chiaretta sorrideva con le lacrime agli occhi, divisa: libera e
stordita di meraviglioso spavento. Stretta in se stessa per il freddo
insistente della notte. Nessuna coperta, nessuna candela. Nessun lamento sessuale
del fratello, che si intratteneva nel salone con una giovane serva. Solo la
luna. Solo Dio che gli parlava per la prima volta dalle foglie cantanti. Tutto
intorno a lei il peccato di quegli uomini. La sua croce ora era vibrante,
luccicava di preziosità intangibili: di fede e forza.
Borja gli si rivolse severo:
«Promettete fedeltà e non vi verrà fatto alcun male. Nel mio paese volevano
ucciderci tutti, eravamo ribelli un tempo. Ora siamo assassini. Siamo
sopravvissuti… e siamo morti per sfuggire alla morte. Noi non ci fidiamo di
nessuno. La pietà è una zavorra che lasciammo quando diventammo fantasmi.
Promettete fedeltà alla “Compagnia”, servitela e non parlate se non siete
interrogata…»
Chiaretta era abituata
a non esprimere mai un pensiero, a non parlare. Ma ora gli era stata rivolta
una domanda. La prima domanda che sentiva avere importanza. Dopo quella che la
consacrò a Dio, quando ancora era una bambina. Poggiò la scodella in legno che
aveva svuotato con gusto, guardò Borja negli occhi e sussurrò: «Prometto
fedeltà ai miei padroni, prometto fedeltà a VOI!»
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Un uomo alto e secco, in
fondo, guardava le caviglie di Chiaretta che brillavano di sudore freddo alla
luce di una luna tagliata e spigolosa. Si inumidiva le labbra di vino mentre
fissava il Capo guardare con occhi diversi quel “pegno”. Quel puzzo di uomo che
non divenne fantasma ma nacque diavolo… scorse prima di tutti l’Amore nascere
negli occhi del Capo. Scorse la debolezza. L’individuo gobbo, con la sua testa
piccola e lunga, mancante di un orecchio e di senno… sapeva che la debolezza
porta ai passi falsi: i passi falsi portano alla distrazione… alla morte. E al
soddisfacimento di chi, acquattato attende il suo momento.
3. L’Innocenza
tra i lupi
La piccola suora timida, con il tempo, era diventata una creatura della Foresta e rimpiazzava i lembi laceri della sua veste con pelli di animale. Borja gli aveva insegnato a cucire insieme ciò che la caccia e la natura donavano. Un collo di coda di lupo era diventato il suo collare che ornava la sua doppia natura sacra e terrena. Il più anziano della compagnia era Vuk (il lupo).
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L’uomo era tozzo e bruno sulla pelle come un tronco di quercia. I capelli bianchi erano raccolti in una treccia corta e grossa. Vuk detestava il membro senza un orecchio: anche gli altri non si fidavano di quell’uomo con il mento scosceso come una rupe. Essendo la sentinella fedele della compagnia, il braccio armato e sapiente di Borja, Vuk non perdeva di vista Chiaretta. Aveva intuito che il compagno dell’est più oscuro, quello spinto verso il nord, aveva una “sete” che andava ben oltre la sopravvivenza che quella Compagnia cercava di mantenere e proteggere. Possedeva anche una crudele fame di sangue oltre il necessario crudele codice che tutti quegli uomini seguivano. Rubavano e uccidevano. Tutti avevano imparato a sopravvivere a quel mondo duro e ben più sanguinario delle loro mani ispide. L’uomo senza un orecchio aveva tolto la vita a Giovanna e Fiore. Aveva sgozzato il cocchiere. Era stato più volte bastonato da Borja per la sua voglia cieca di sangue oltre ogni limite. Quando s’intratteneva con le prostitute tagliava loro i capelli… li strappava forte. Li lacerava vicino alla carne. S’inebriava dello sguardo di terrore di quelle anime perdute, di quei corpi che lui sottometteva con vile violenza. Borja aveva promesso di proteggere tutti i suoi compagni. Ognuno era un pezzo tessuto insieme… ma quel lembo marcio iniziava a essere lo specchio malvagio, sghignazzante, in cui nessuno voleva guardarsi… riconoscersi.
Vuk riusciva a comprendere
il linguaggio dei lupi e passava con loro le ore della notte. Si rotolava tra
le foglie, si faceva annusare da quegli animali: bruni e grigi, proprio come
Vuk. Una volta Chiaretta lo scorse da lontano mentre si faceva mordicchiare la
faccia da quei lunghi denti affilati. Vuk la invitò ad avvicinarsi. I lupi si
fermarono con sguardo obliquo attendendo un cenno dell’umano. Vuk invitò la
piccola suora e disse: «Venite, non vi faranno nulla. Avete addosso l’odore
della Compagnia. Vedete… nella nostra terra ci sono molto lupi. Sono più grandi
dei vostri. Più famelici… chiari e dalla schiena curva. Questi animali sono più
piccoli ma molto più fedeli. Hanno le caratteristiche di questa terra forte,
gentile nei suoi colori e nel suo sole di Primavera. Mi manca casa… ma qui ho
trovato un angolo dove aspettare ormai la fine: la mia dannazione. Questi
animali mi fanno sentire ancora un essere degno di questa terra. Ci capiamo.
Uccidiamo insieme. E loro non provano rimorso. Invidio la capacità degli
animali di fare ciò che si deve… ma voi avete il vostro Dio. Voi avete la
vostra croce. Io ho i miei lupi!»
Chiaretta si chinò e si fece
scrutare da quegli animali, si fece sporcare da quelle fauci ancora
insanguinate del pasto di quella notte. Si bagnò dell’odore vibrante della
Natura in tutta la sua crudele bellezza. Quella notte pregò Dio per Vuk. Quella
notte non dormì pensando a come Vuk la avvertì di stare alla larga dall’uomo
senza un orecchio. Colui che non aveva mai rivelato il suo nome, e che tutti
chiamavano “Violentă”.
Continua...