martedì 17 novembre 2020

FINCHÉ IL CAFFÈ È CALDO di TOSHIKAZU KAWAGUCHI

UNA RIFLESSIONE SUL VIVERE IL PROPRIO TEMPO

Ph Francesca Lucidi

L’autore nasce nel 1971 ad Osaka, in Giappone; lavora come sceneggiatore e regista. Con il suo romanzo Finché il caffè è caldo vince il Suginami Drama Festival, ed è da ricordare che stiamo parlando di un’opera prima.

In Giappone, il romanzo diventa in breve tempo un caso editoriale vendendo oltre un milione di copie. Uscendo dai suoi confini d’origine, questa storia fantastica di storie assolutamente umane e vicine quasi a tutti conquista il resto del mondo.

CENNI SULLA TRAMA E STRUTTURA

C’era una volta, anzi molte volte in tempi diversi, un caffè centenario giapponese. Come un anziano, saggio e misterioso personaggio, questo luogo ha una sua identità, un suo carattere, delle sue regole… e si incontra con chi cerca la sua auspicale saggezza o facoltà rivelatrice. Questo perché? Il caffè permette alle persone di viaggiare nel tempo, tramite una sola sedia, seguendo rigidissime regole; il luogo ne ha viste di vite e di persone, proprio come un individuo che abbia avuto l’occasione di ascoltare e incontrare tanta gente, magari non per volontà ma perché è al mondo da molto tempo e ha la maledizione e la benedizione di un dono.

Il caffè non ha un nome, per il lettore, anche perché un nome ce l’ha ma viene celato dietro ai ricordi di alcuni personaggi che citano i versi di una canzoncina.

Tutto si svolge in presenza dentro al caffè, mentre i luoghi esterni prendono vita specialmente da rimembranze, accelerazioni e rallentamenti del tempo della storia attraverso una narrazione che sottostà alle regole come chi compie il rito del caffè. Il narratore pare empatico e freddo allo stesso tempo, questo perché la ritualità è il peso maggiore del romanzo. Alla fine, ci rendiamo conto che l’emozione e la comprensione dell’altro, dei personaggi e delle situazioni, avviene tramite i dialoghi e la nostra capacità di cogliere i vissuti presentati; se riusciamo a toglierci l’ansia del controllo e delle domande, così come devono fare i protagonisti.

L’intera storia, che comprende la possibilità di viaggiare nel tempo, seguendo un rito, sottostando a regole, riuscendo a scambiarsi di posto con un fantasma, facendosi venire la nausea dovendosi ossessionare per ogni segnale proveniente da una tazza di caffè, fa da cornice a tante altre storie che ruotano intorno a quel tavolo “magico”. È contemplata una maledizione che punisce chi non rispetta i tempi di chi occupa il posto, è assicurata la perdita del proprio essere se si indugia quando non si deve. Tutti sanno cosa può succedere in quel caffè, anche i giornali ne scrivono; in realtà, non c’è la fila per entrare… SE VAI NEL PASSATO IL PRESENTE NON CAMBIERÀ.  A questo punto pare inutile tentare, rischiare: tutti vorrebbero una facile risoluzione a rimpianti, errori del passato; altrettanti vorrebbero riuscire a dire ciò che non hanno pronunciato per milioni di motivi che sottostanno, in fine, alle leggi dell’orgoglio, dell’egoismo, e dell’eterno allenamento umano alla procrastinazione e al celamento. Parliamo sempre troppo poco e spesse volte senza dire quello che realmente pensiamo. Abbiamo paura del rifiuto e perdiamo occasioni e gioie restando nell’anticamera della nostra vita. Il vivere saggio dovrebbe essere un equilibrio dinamico tra coraggio e prudenza, tra regole e colpi di testa. In quel caffè è così che ci si ritrova ad agire, per forza di cose.

Ok, ripetiamo che il caffè è lì da più di cento anni, è piccolo e perennemente avvolto in una atmosfera color seppia; non vi sono maghi e streghe ma personaggi normali e fallibili, tra cui una cameriera poco socievole che fa da chaperon a coloro che si siedono su quella sedia. Il posto preposto per il viaggio nel tempo è occupato da un fantasma, devi aspettare che questa parvenza (in realtà fin troppo corporea) si alzi. Verrete a sapere che anche i fantasmi vanno in bagno. Bisogna avere una certa facoltà di dominio delle emozioni e della memoria: puoi incontrare solo persone entrate nel caffè, non puoi cambiare il presente, non ti puoi alzare… e devi controllare la temperatura del caffè, servito da una piccola caraffa d’argento in una tazza bianca. È stabilito che il caffè venga bevuto tutto, ma prima che si raffreddi. Cosa succede se non rispetti una delle prescrizioni? Ti verrà detto ma non vorresti sperimentarlo. La migliore delle conseguenze è l’essere riportato bruscamente nel presente: ne rimarresti con un terribile amaro in bocca anche perché avrai una certa risposta se chiederai di volerlo rifare.

Tutto sembra privo di senso. In realtà la cornice è il pretesto per arrivare al senso, il succo è disponibile per essere gustato solo dopo che siamo stati inermi spettatori di innumerevoli dolori, sfortune, tragedie, impotenti sorti.

All’inizio dovrete stare attenti a un primo magico talismano di verità, messo lì per un personaggio forse superficiale, e che al momento non credo abbia colto il peso di quelle parole… dato che tornerà.

Quasi alla fine arriva il vero carattere del narratore: saggistico, burlesco perché mascherato da semplice romanziere, filosofo; duro insegnante della verità di una vita non facile; sapiente analista della psicologia, e dei trabocchetti cognitivi dell’uomo contemporaneo così certo di sé stesso dietro un’insicurezza che non comprende la fallibilità.

L’articolo del giornale recitava così:

“In fin dei conti, che uno torni nel passato o viaggi nel futuro, il presente non cambia comunque. E allora sorge spontanea la domanda: che senso ha quella sedia?”

Che senso ha questo libro? Beh, sedia e libro una cosa la fanno… per scoprirlo dovrete aspettare che nelle ultime battute un personaggio tutto d’un pezzo si sbottoni e vi faccia comprendere una regola non scritta, che parla del vero veicolo magico del rito.

AVVERTENZE, POSOLOGIA E CONTROINDICAZIONI (fare solo una “recensione” non basta!)

Il volume si presenta in formato flessibile e confortante: colori pastello, allegri, vivaci; un’aletta che presenta una trama accattivante con elementi fiabeschi, moraleggianti, educativi e motivanti.

Ciò che si propone questa lettura è di far generare un certo tipo di pensiero costruttivo e critico sul nostro autogoverno del presente, a scapito del rimuginare sterile sul passato, gli errori, i rimpianti. Il senso di responsabilità dovrebbe generarsi già dopo il primo racconto nel racconto.

Per arrivare a sopportare l’annebbiamento dovuto alla foschia del caffè bollente dovremo sorbirci il ripetersi ossessivo delle regole, dei gesti e persino di alcune abitudini che rallentano la narrazione facendo avvertire quel sentore di smarrimento che caratterizza l’intera assunzione del libro.

Arrivare alla fine della somministrazione può provare disgusto verso il sapore del caffè per chi è abituato a berne, e nausea in chi non preferisce questo tipo di bevanda. Verranno versati inquantificabili quantità di caffè e lacrime.

Gli eccipienti scelti partono dai personaggi: Fumiko, una donna in carriera abituata al controllo talmente concentrata su sé stessa da non aver inteso la visione delle realtà e del rapporto sentimentale del suo partner; Katzu, la cameriera asociale che vive versando caffè per il rito e disegnando in solitudine a casa; Hirai, una sprezzante giovane che ha sfidato da famiglia per un egoismo che guadagnerà una punizione che cambierà tutto; Nagare, il proprietario del caffè dalla stazza imponente e la cura per ogni ingrediente acquistato per i piatti che cucina, e una vera ossessione per la miscela del caffè che non ammette repliche; la Donna in bianco, un fantasma condannato nel ripetersi dei suoi gesti perché in un determinato momento non ha saputo coordinare proprio questi; Kei, una creatura piena di saggezza del vivere a cui ci affezioneremo… e per la quale dovremo raccogliere i pezzi del nostro cuore. Al gruppo si uniscono una coppia di coniugi, Fusagi e Kotake: anche loro, come gli altri, si troveranno immersi nel dolore di una vita difficilissima e di sentimenti frantumati da un evento che cambierà tutto, o forse rischia di “cancellare” TUTTO.

Il conservante che promette di salvaguardare i protagonisti è un senso di comunità che rende il caffè una famiglia che saprà affrontare le verità, la tragedia e le responsabilità… soprattutto quelle derivanti dalle scelte.

La capsula che riesce a mantenere stabili questi instabili elementi è il Giappone, con il modus tipico di alcuni romanzi nipponici e il confronto stretto tra tradizioni ancestrali e una modernità che pare rendere tutti freddi e distaccati, fino a che non tocca tirare le fila di una vita che deve uscire dall’illusione della perfezione per confrontarsi con le luci e le ombre che la storia del mondo non smette mai di generare.

Questo percorso non è facile, se volete una lettura leggera non fa per voi; se siete sensibili e aperti avrete la straordinaria opportunità di riflettere sulla gestione del tempo, delle decisioni e, in fine, della scelta. Però soffrirete. Cercate di tenere duro e di riuscire ad andar dietro al narratore che qualche risultato lo dissemina anche prima della conclusione. Potreste non finire la lettura o magari vi ritroverete a prendere molti appunti. Di certo per un po' avrete nella testa le regole del “rito” anche mentre svuotate la lavatrice o portate a spasso il cane. Il caffè non avrà più lo stesso sapore, come anche la vita.

Se non bisogna far freddare il contenuto della tazza bianca… proviamo a generalizzare questa immagine e a capire quanto ogni istante della vita vada gustato finché è caldo, ma a piccoli sorsi.

Vi starete chiedendo se i personaggi riusciranno a farsi uscire di bocca le parole non dette, molto meno di quello che ci potremmo augurare. Il personaggio che riesce ad avere davvero uno svelamento sconvolgente è Kei: il narratore con lei ha forse perso nella coerenza di meccanismi stretti che non cambiano il presente, alla fine. In realtà ogni status dei personaggi cambierà, quasi tutti per effetto di nuove consapevolezze, solo Kei per un bonus dato arbitrariamente.

Vi voglio lasciare la vera chiave di questa lettura; della ripetizione delle regole del rito non avete tanto bisogno perché alla fine non ve le leverete più dalla testa, anche solo dopo aver letto quarta di copertina e aletta.

L’effetto auspicato passa da qui:

“Le persone non vedono le cose e non sentono le cose nella maniera oggettiva che credono. A distorcere le informazioni visive e uditive che entrano nel cervello intervengono i pensieri, le circostanze, le conoscenze, la consapevolezza e un’infinità di altri meccanismi cerebrali.”

Buona lettura! Con cautela.

 

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venerdì 13 novembre 2020

CANE NERO di LEVI PINFOLD

 UN ALLEGORICO ALBO ILLUSTRATO  CONTRO UN NEMICO POTENTE

Ph Francesca Lucidi

BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Levi Pinfold è nato nella foresta di Dean, un altopiano del Gloucestershire, in Inghilterra.

Da subito sente un legame con la lettura, sfogata su libri e fumetti. Da bambino frequenta un corso di acquerello, tecnica che lo affianca ancora oggi nell’espressione artistica.

Tra i suoi punti di riferimento spicca anche il nome di Dave McKean, artista straordinario che affianca lo scrittore Neil Gaiman in numerose creazioni fin dagli anni Ottanta.

Levi studia illustrazione presso lo University College di Folmouth. Si laurea nel 2006 e inizia a lavorare come illustratore autonomo. Con il suo primo lavoro datato 2010, Django, vince il Booktrust Early Years Award. Nel 2011 esce Black Dog, che guadagna un grande successo di critica.

Attualmente, pare che Levi Pinfold lavori e viva in Australia.

CANE NERO

CHI E “COSA”

Pubblicato da Terre di Mezzo Editore, Cane Nero è un albo impeccabile. Innanzitutto, ha un pregio apprezzabile: i risguardi sono illustrati e fanno da inchino invitante e professionale verso la dimensione immaginifica e simbolica cui siamo chiamati. Lo sfruttamento dei risguardi ripaga il costo materiale dell’operazione, dato che in una narrazione per immagini bisogna da subito coinvolgere i sensi preposti alla fruizione. In questo caso viene ripetuta l’illustrazione della copertina, ma in “apertura”; quella nebbia, che circonda una bella casina accogliente e colorata, inizia già a introdurre le visioni ingannevoli che possono scaturire da una vista offuscata da condizioni non proprio eccellenti. Poi, se ci si mettono gli scherzi della percezione e dell’elaborazione mentale, un sassolino può proiettare una montagna spaventosa, soprattutto se il vedente è richiuso e guarda da lontano, e si sparge un messaggio voce dopo voce, amplificando effetti poco edificanti, come spesso accade.

Questo libro è dedicato alle famiglie, e parla di una famiglia: ciò è apertamente dichiarato nei risguardi. In quella casina rosa, ogni membro si sveglia. Uno ad uno ci si prepara alle normali abitudini mattutine: la colazione, l’abituare la vista alla veglia, il lavarsi i denti; ma lì fuori qualcosa pare in agguato. Un enorme cane nero imperversa all’esterno dell’abitazione, ognuno lo scorge fuori dalla finestra e si appresta ad annunciare agli altri la scoperta, con una crescente tensione che si ingigantisce attraverso il susseguirsi delle descrizioni ricche di similitudini. Il passaparola sembra peggiorare il terrore, dal papà alla mamma ai due figli più grandi; qualcuno manca all’appello… la più piccola della famiglia: Small, sì, così si chiama.

Small è fuori la porta armata di impermeabilino giallo e stivaletti verdi. Tutti gli altri cercano di ricondurla al sicuro, ottenebrati dalla paura e dallo sgomento. Un momento, ho dimenticato di dirvi che il cognome di famiglia è Hope, Speranza.

Essì, la Speranza si chiude in casa, paralizzata da ciò che non si comprende, e da ciò che pare troppo grande per essere affrontato; mentre qualcosa di “piccolo” si mette a sfidare l’enorme nero animale. Small inizia a percorrere ponti e parchi giochi, infilandosi in anfratti sempre più ristretti: questi percorsi iniziano come a filtrare la spaventosa parvenza che per correre dietro a Small è costretta a rimpicciolirsi, gradualmente. Il coraggioso percorso dell’affrontare della bimba riconduce alla porta di casa… e qualcosa di inaspettato accade.

ANALISI E CONSIDERAZIONI

Uno dei maggiori esponenti mondiali della Programmazione Neurolinguistica, Robert Dilts, identifica le credenze come “forme di pensiero che plasmano la nostra mente”; ciò è evidente nelle reazioni dei personaggi. La famiglia Hope contribuisce a ingigantire un’immagine attraverso una narrazione fatta di figure sempre più grandi e spaventose, Small affronta il Cane Nero e lima la credenza attraverso un percorso che pare simboleggiare la forza della coscienza e la lucidità di un’autoefficacia inarrestabile; in questo caso il Cane Nero non può che diventare più piccolo.

Le raffigurazioni dei volti rappresentano magnificamente le reazioni dei partecipanti alla vicenda. Small quasi non si scorge nella sua dimensione ridotta e il suo vorticoso agire; il viso è sicuro e impassibile, le parole ferme e insolenti:

“Se vuoi mangiarmi devi prima prendermi!”

“Se mi vuoi seguire ti devi rimpicciolire”

“Tu hai il PANCIONE, io sono elastica,

per prendermi devi fare ginnastica!”

Fratello, sorella e genitori, invece, vengono disegnati con le espressioni tipiche della paura.

Ph Francesca Lucidi

La paura fa parte delle emozioni primarie identificate dallo psicologo americano Ekman: queste emozioni sono universali in tutto il mondo nel modo in cui vengono mostrate ed esternate attraverso la mimica facciale. Sì, dall’Africa ai ghiacci il disgusto, la paura, la rabbia, la tristezza, la gioia, la sorpresa e il disprezzo mostrano lo stesso volto. 

Ph Francesca Lucidi

Ciò sta a dimostrare quanto l’illustrazione sia una modalità potente di universalizzazione, riconoscimento ed elaborazione delle emozioni. Per questo un albo illustrato è così prezioso per i piccoli e così accogliente e curativo per gli adulti sempre più distaccati dal proprio sentire.

Alla fine, una compagnia inusitata riuscirà a integrarsi nella “famiglia Speranza”.

“Siamo stati sciocchi” disse Adeline. “Solo Small ha saputo cosa fare.”

Perché se una cosa la guardi bene…

Buona lettura!

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domenica 8 novembre 2020

IL GRILLO DEL FOCOLARE di Charles Dickens

EDIZIONE A CURA DI ENRICO DE LUCA
PER CARAVAGGIO EDITORE

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Ancor prima del Trillo Primo, quello che succedette al borbottio del ramino: sì, perché deve esser chiaro che fu quest’ultimo a cominciare, Il Grillo prese fiato durante un viaggio di Dickens in Italia. Al suo ritorno, lo scrittore confidò all’amico e biografo Forster di voler fondare un periodico: un solo foglio settimanale che contenesse racconti, osservazioni su libri e teatri. Prestando ascolto, le parole di Dickens affermarono: “Dominerà sempre l’ardente, cordiale, generosa, allegra e splendida allusione al domestico focolare e alla famiglia. Lo intitolerei IL GRILLO! Allegra creatura che garrisce sul focolare”.

Alla fine il periodico non venne alla luce e il grillo saltò nell’abitazione dei coniugi Peerybingle: nacque The Cricket on the Hearth, novella facente parte del gruppo dei Racconti di Natale che uscirono negli anni quaranta del XIX secolo (Un Canto di Natale nel 1843, Le Campane nel 1844, il Grillo del Focolare nel 1845, La Battaglia della vita nel 1846; Lo Stregato o Il Patto col fantasma nel 1848). In seguito, le novelle vennero pubblicate in un unico volume. In Italia, la prima traduzione dell’autore venne dedicata proprio ai Racconti di Natale.

La Caravaggio si ripropone di presentare autenticamente lo stile originario dell’autore, il quale ha subito nel tempo numerose epurazioni e normalizzazioni che ne hanno appiattito il guizzo linguistico e stilistico.

La bellezza di questo volume non sta tanto nella trama, assai semplice come una “favola domestica”, e infatti così è definito nel sottotitolo, ma soprattutto per la scrittura non scorrevole, saltellante e vivace come il verde ospite, che nasconde in sé una magia potente.

Ora mettiamoci ad attendere, perché un’attesa apre le porte di un casolare umile: si alza il sipario su una commedia sentimentale, tragicomica, viva nei gesti… dal più minuto al più eclatante.

CENNI SULLA TRAMA

Non pensate sia un racconto che si snoda tra le strade addobbate per il Natale, ci troviamo alla fine del primo mese dell’anno. Tutto è gelo, nebbia. Due piccoli zoccoli arrancano nella fanghiglia per riempire solertemente il secchio dell’acqua. Una piccola donna attende. La questione spinosa è quella rivolta al primato di chi cominciò. Il narratore si avverte come una vera e propria voce esterna a un palcoscenico che ha pochi scenari, definiti, caratterizzati e assolutamente sufficienti all’economia della storia.

È stato il ramino a cominciare, ossia il calderone che in passato bolliva perpetuamente nei focolari: per attendere nascite, per dar vita a una tazza di tea fumante, per accogliere qualche patata. In una piccola casa il ramino non collabora e una donna paffuta e graziosa si spazientisce; l’orologio olandese si unisce al coro… ma qui è il Grillo a segnare il tempo, e a dirigere, a fare da cassa di risonanza ai cuori duri e a quelli teneri e sinceri.

Questa è una storia domestica, di una moglie che aspetta un marito che di mestiere fa il corriere: un carro contiene aspettative e tante storie; le persone conoscono benissimo il buono e semplice John Peerybingle, e anche il cane Boxer, sempre pronto a salutare, annunciare e indagare… e soprattutto a capir tutto prima degli altri.

È una sera particolare, oltre ad esser particolarmente fredda fino a far letteralmente gelare il viso di John, il carico porta tre novità, attese, e anche meno attese perché non auspicabili o ritenute difficilmente esperibili. Il carico porta un pacchetto prezioso, tanto atteso da un altro personaggio, abile a farci sciogliere il muscolo cardiaco alla vista del suo dolce e triste guardare la figlia cieca. Stiamo parlando di Caleb Plummer, padre di Bertha; cosa è disposto a fare un padre per la felicità di una sfortunata figlia?

Il Grillo una volta parlò a Caleb:  

“Ma anch’egli aveva un Grillo nel suo Focolare, e ascoltando tristemente la sua musica quando la Bimba Cieca senza madre era molto piccola, quello Spirito gli aveva dato coraggio con il pensiero che persino la grande privazione di lei potesse essere tramutata quasi in una benedizione […]”

Caleb fa l’impossibile, soprattutto perché oltre a essere un costruttore di giocattoli è un creatore di realtà, di persone e bontà e bellezze che non esistono. Incredibile come l’amore sia generatore in tutte le sue manifestazioni. Leggendo la novella, potrete commuovervi scoprendo ciò che non c’è ma che qualcuno sente e vive dalla nascita.

I Grilli sono un po' in tutte le case, anche se qualcuno non li ascolta ma vi si accanisce, li schiaccia. Questo ci riporta a un’altra delle sorprese portate da John: una enorme scatola contenente una torta nuziale. Lieto evento? Niente di più sbagliato dato che non si riesce neanche a pronunciare il nome dello “sposo”, e Mary Peerybingle si sente quasi mancare. Il Capo, il Padrone di Caleb, il giocattolaio Tackelton, è colui che sta per sposare una donna, anzi una giovane e bella fanciulla di nome May Fielding, vecchia compagna di scuola di Mary.

l’idea di qualunque essere umano nelle mani Tackelton può certo far rabbrividire, se si pensa che quell’uomo sa solo creare giocattoli mostruosi per il puro piacere di torturare il prossimo. Un vero topos dickensiano: avaro, brutto, comico nelle sue convinzioni e massime che circondano un animo arido perché avvinto dalla solitudine e dall’incapacità di comunicare con gli altri, con sé stesso. Sospetto e macchinazioni… le armi di chi non conosce amore nel proprio cuore.

“Tackelton il giocattolaio, quasi generalmente noto come Gruff e Tackelton — perché quella era la ditta, sebbene Gruff fosse stato rilevato da molto tempo, lasciando nella società solo il nome, e, come dice qualcuno, la natura, secondo il suo significato nel Dizionario[1]”.

Le descrizioni sul Giocattolaio non lasciano dubbi sulla natura del suo animo:

“Non assomigliava molto a uno sposo, mentre stava in piedi nella cucina del Corriere, con una smorfia sulla faccia asciutta e una torsione del capo, e il cappello tirato sulla gobba del naso, e le mani ficcate in giù in fondo alle tasche, e tutto il suo essere sarcastico e malintenzionato facente capolino da un angoletto di un piccolo occhio, come fosse l’essenza concentrata di uno stormo di corvi.”

Proprio quell’occhio si posa sospettoso su l’ultimo carico misterioso della serata: un viandante sordo, silenzioso, con capelli bianchi e un viso sfuggente. L’uomo par gentile e chiede ricovero per la notte. I corvi sorvolano sul viandante e su Mary, che pare a disagio, molto a disagio.

Qualcosa accadrà, ma non prima che Tackelton si autoinviti alla consueta merenda che i Peerybingle organizzano periodicamente nell’umile casa di Caleb, che per la giovane e candida cieca è una reggia. Mistificazioni, bugie e sospetti. Chi male vive proietta un’ombra su tutto ciò che vede. Qui si parla di cattivi consiglieri, di cose giuste da fare nonostante i rischi…

Purtroppo, i malintesi la faranno da padroni, tra esilaranti quadretti e scenette che hanno per protagonisti le sprezzanti offensive massime e recriminazioni del Giocattolaio, i poetici slanci di Bertha; da non dimenticare la sbadata bambinaia Tilly Slowboy, che con tanto amore si prende cura del pupo dei Perrybingle, anche se ogni spigolo pare pronto ad accogliere il capo del lattante. E non perdetevi i discorsi della querula voce della madre di May: alla fine tutti i personaggi si troveranno a quella merenda, l’inizio dell’inizio e della fine, prima di arrivare alla vera conclusione e risoluzione.

Tackelton è ossessionato dalla sua età matura, rispetto a quella di May; dovete sapere che anche John e Mary hanno una grande differenza d’età… ma nella casa dove Il Grillo ha trovato ricovero, il canto ha dato un benvenuto rassicurante per una coppia che pare perfetta perché vive nell’accettazione delle reciproche differenze, arricchendosi nella semplicità dei ruoli ricoperti con la solerzia che i bambini adoperano quando giocano a far i grandi.

Il Grillo, però, sta a guardare. I Grilli son spiriti potenti, sono fate… appaiono quando devono, ma le risposte devono venire dal cuore di chi è coinvolto in visioni che sanno mettere alla prova, non svelare, non ancora.

Secondo voi uno stormo di corvi può fermarsi a banchettare allegramente tra ghiandaie, colombi e pettirossi? Potrebbe…

ANALISI E CONSIDERAZIONI

L’edizione della Caravaggio, curata da Enrico De Luca, ci restituisce uno stile da affrontare lentamente, anche se a volte corriamo per andar dietro a periodi che paiono indovinelli. Finte reticenze, cose da non dire che vengono assolutamente dette, dette tutte; nomignoli e descrizioni minuziose. Un voyeurismo puro e simpatico, tra le moine di Mary e l’impacciato modo di comunicare di John. Una maniacale attenzione per i dettagli, che porta ogni cosa ad avere la sua importanza e la sua voce. Non è una lettura facile perché per comprenderne la bellezza bisogna scendere a patti con un testo che si abbellisce come una ghirlanda decorativa assai carica: bella, sì, ma carica. La storia, però, a perdifiato tiene incollati, avvinti.

Rispetto ad altre traduzioni, troviamo alcune scelte coraggiose: Mary, viene definita “Piccina” non “Dot”, come spesso si può leggere in differenti edizioni. Dot sta per punto, e questo termine trova la sua ragion d’essere nel testo. Ce lo dice John, riferendosi a Mary come a un “punto e a capo”, guardando il loro figliolo. Io sono affezionata all’espressione inglese, ma è una mia personale preferenza.

La scrittura di Dickens dirige prossemica, cinetica e ogni significato come un regista preciso, all’avanguardia. Si prendono pochi personaggi, un tema vecchio come il mondo, persone non belle e non speciali: l’insieme è una sinfonia che si eleva forte e chiara grazie a un’orchestrazione di sentimenti e cose piccole piccole che creano un’epica rappresentazione della vita.

 La morale? Potete respirarla dal primo scalpiccio degli zoccoletti di Mary.

Piccina si guadagna una di quelle appassionate descrizioni minuziose che l’autore spesso dedica alle rotonde donne che abitano i suoi racconti. Descrizioni assolutamente lusinghiere.

Dalla novella si esce con un sospiro di sollievo, e con la voglia di mettere su il tea e godersi in silenzio il beneficio di avere una famiglia, o anche solo una mente capace di creare castelli da una baracca.

Alla fine del volume potete ammirare le riproduzioni di due antiche illustrazioni: sono stata stupita di vedere come ricalcassero ciò che avevo immaginato; per scorgerle dovrete decidere di leggere questa piccola edizione, che dietro ha un lavoro lungo e meticoloso.

 

 



[1] Gruff significa “burbero”


giovedì 5 novembre 2020

IL DIAVOLO SUL PONTE


Una Ballata

Testo di Valentina Lini

Illustrazioni di Alessia Ferretti

 

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Edito da Balena Gobba Edizioni nel 2020, questo albo illustrato è un’opera d’arte, è un retaggio, è un prezioso tesoro di tradizione e raffinatezza; si fruisce avvertendo un tocco di oscuro fascino.

Il volume ha un formato quasi quadrato, la copertina rigida e nera ci accoglie in un catalogo di esperienze visive, sensoriali, intense. Resti stupito anche solo guardando la copertina: è un dossier d’arte su Chagall? No, è un invito a sedersi alla luce di un fuoco, perché le fiamme ricordano l’inferno ma paiono saperci proteggere quando una storia inizia a bussare alla porta per aguzzare il cervello e far tremare la seggiola.

Ci troviamo a Venezia, dove il noto ponte di Torcello promette di rubarti l’anima… la notte del 24 dicembre.

CENNI STORICI

Torcello è una piccola isola della laguna nord di Venezia, fu sede vescovile dal secolo VII al secolo XVII. In passato fu noto per i commerci marittimi e l’industria della lana. Rispetto all’antichità, ora conta una stretta cerchia di abitanti.

Un’unica via principale attraversa l’Isola, seguendola si arriva al famoso Ponte del Diavolo, solo quest’ultimo e il Ponte Chiodo a Cannaregio mantengono la struttura originaria senza parapetto.

Il Ponte del Diavolo

Le origini paiono risalire al secolo XV, anche se alcuni studi hanno evidenziato fondazioni preesistenti riconducibili al XIII secolo. Oltre alla sua suggestiva bellezza, il Ponte offre numerosi interrogativi circa le origini del suo nome. Alcuni sostengono che il ponte portasse verso i palazzi di una nobile famiglia chiamata “Diavoli”, altri sostengono che la nobile casata si fosse solo guadagnata questo soprannome poco rassicurante; la motivazione che più ci affascina è, ovviamente, quella legata alla leggenda di un patto e di una sorta di maledizione che pare aleggi la notte di Natale.

LA LEGGENDA

La dominazione austriaca posò la sua mano su Venezia per lungo tempo, durante il XIX secolo. L’amore, si sa, non conosce confini e si dibatte sempre all’ombra dell’odio. Una giovane si innamora di un austriaco, ma la famiglia non approva. La sorte infierisce portando la morte all’uomo tanto amato dalla ragazza; diverse versioni vengono riportate riguardo questa morte, parrebbe anche che l’austriaco sia stato vittima di assassinio.

L’amore cerca sempre di soggiogare ogni altra forza, anche quella della morte. Dietro consiglio, chi dice di un amico di famiglia, chi di un’amica, l’innamorata si reca da una strega.

La strega fa un patto con il Diavolo: l’ufficiale austriaco in cambio di sette bambini, non svezzati ma battezzati. I tre si incontrano sulla laguna, la ragazza porge una moneta al Diavolo… che getta una chiave nell’acqua. Ecco che l’amato dalla morte ritorna e sta sul ponte, in attesa della sua bella.

La strega deve mantenere il suo patto. Durante la notte qualcosa accade: chi dice “ammazzata”, chi dice “incendio”; il Diavolo non ha avuto le sue anime. Così, da quella notte, camuffato da gatto nero, il Diavolo sta sul Ponte, la notte del 24 dicembre, in attesa della strega e del pagamento. Le anime che di lì passano potrebbero così finire per saldare il patto.

Sui due giovani c’è chi sussurra che son scomparsi.

IL PONTE DEL DIAVOLO

Una Ballata

Ph Francesca Lucidi

Prendere in mano una leggenda nota è rischioso, è come avere tra le dita una sfera di vetro unica nel suo genere: mille sono le sfaccettature, tutti vi si possono specchiare, maneggiarla troppo rischia di farla rompere. Qui le mani sono state sapienti, hanno filtrato l’oscurità e la storia per creare materici colori che incantano, come farebbe una magica cantilena.

Il testo balla come fiamma… è qualcosa che canta da sé, in strutture strofiche multiformi che guizzano attraverso le suggestioni sonore e le rime. Le parole diventano una voce, fatta delle tante voci che hanno sussurrato questa vicenda. Vien voglia di alzare la veste e cantare la storia di Isotta, del Diavolo, dell’Austriaco; e del Ponte e della Strega alla luce della luna. Qui ogni cosa pare poter essere toccata, grazie a uno stile grafico materico, pittorico. Sembra di guardare opere d’arte Medioevale, pare scorgere strane pitture rudimentali campeggianti in grotte dal santo nome; poi scorgi Goya, poi ti perdi nel simbolismo.

Una leggenda, nel suo passare di bocca in bocca, perde e acquista veli e orpelli. I punti più oscuri qui vengono lasciati all’oblio, o vengono raccontati scegliendo una versione delle tante. Ciò che fa la differenza è il moto di questo volume: è vorticoso grazie alle illustrazioni, ma anche nobile, composto, spirituale.

Le parole possono restar ben leggibili su uno sfondo chiaro, mentre illustrazioni passanti abbracciano le pagine. Altre volte, aperture prepotenti lasciano spazio a piccoli versi che danzano sull’onda di colori e forme ipnotiche.

Magistrale la rappresentazione del rito della strega, dove diversi momenti vengono resi nella stessa illustrazione con una moltiplicazione della protagonista che pare muoversi davanti ai nostri occhi. Ecco che avvertiamo una formula magica, e sentiamo l’aria spostarsi ai movimenti della gonna e degli strumenti della fattucchiera. 

Ph Francesca Lucidi

Poi un viso affascinante e affusolato, chi sarà? Ascoltare quell’elegante signore può costare assai caro… 

Ph Francesca Lucidi

È normale pensare alla notte della Vigilia come a un momento di presenze, di movimento sovrannaturale. La leggenda nacque mentre si affacciavano al mondo molti spettri natalizi. Ricordate Dickens, Jerome? Ne abbiamo già parlato, ma potrete ricercavi qui sul blog gli ectoplasmi di contenuti passati e non troppo lontani.

Alla fine, capirete perché di ballata si tratta: un tenebroso ritornello vi riporta all’inizio, perché accadrà, sì accadrà ancora!

Ph Francesca Lucidi

Amanti dell’arte, delle leggende, della magia… come non dirvi di regalarvi questo libro così pieno di personalità, così ben identificabile, di carattere. Io lo leggerò ad alta voce, e sono sicura che chi mi ascolterà non resterà indifferente. Sembra di vedere note che saltano nella penombra dell’imbrunire, e le forme saltano fuori dalla pagina per pregare, piangere, girare e girare.

Avete mai trovato una chiave in un corso d’acqua? Cosa mai avrà chiuso… o aperto.

Ringrazio la casa editrice per avermi dato la possibilità di avere questo libro così prezioso. Mi è piaciuto davvero molto.

 

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Grazie!

 

mercoledì 28 ottobre 2020

FANTASMI DA ASPORTO di Eva Ibbotson

 IL VALORE DELLA VITA CELEBRATO TRA FANTASMI, ATMOSFERE URBANE E LUOGHI SPICCATAMENTE GOTICI

NOTIZIE SULL’AUTRICE

Il suo vero nome era Maria Michelle Wiesner. Nacque a Vienna nel 1925, ma la famiglia fuggì a Londra a causa dell’avvento del nazismo. I genitori erano divorziati, e Maria viaggiò attraverso l’Europa per spostarsi da un genitore all’altro.

Maria scriveva, scriveva tanto e di famiglie felici e stabili; lei non ne aveva una.

Venne istruita in Inghilterra in una scuola “alternativa”. Ella visse con insofferenza l’istruzione: passava le ore di inglese a scrivere e quelle di matematica a piangere. Tutti incitavano alla libertà ma lei voleva qualcuno che le donasse una qualche normalità, un ordine.

Tanto era grande il mio desiderio di normalità che saltavo in piedi e pregavo: «Non ditemi che posso fare quello che voglio, ma quello che devo fare!»

Maria creò una sua famiglia… e non smise di inventare storie. I suoi familiari, così originali, si tramutarono in mostri e streghe e personaggi straordinari, che popolavano i racconti che l’autrice raccontava ai propri figli. Da lì nacquero mondi fantastici e strabilianti vicende crudeli e al contempo poetiche.

Eva Ibbotson morì il 20 ottobre 2010, nella sua casa di Newcastle.

FANTASMI DA ASPORTO

Ph Francesca Lucidi

INFORMAZIONI E CENNI SULLA TRAMA

Il romanzo della Ibbotson risale al 1997, io mi sono armata dell’edizione Salani del 2011.

La storia si svolge lungo 165 pagine, il formato in mio possesso è piccolo e bellissimo… un vero tesoro da tenere stretto sotto le coperte in una serata piovosa. La lettura è resa ancora più piacevole grazie alle illustrazioni di Kerstin Meyer, nere e bianche, spaventose e dai tratti esagerati che fanno anche scappar fuori un sorriso, seppur corredato da brividi.

Già dal frontespizio ci accoglie un piede brutto con intenti poco democratici: “Schiaccerò Sotto I Piedi I Miei Nemici”. Sì, così recita lo stemma della famiglia Snodde-Brittle, di cui possiamo ammirare l’albero genealogico dai nomi e dai tratti niente affatto rassicuranti. Pochi di loro hanno fatto una bella fine, anzi, possiamo dire nessuno. Se osserviamo bene, a un certo punto vediamo l’altisonante cognome, che suona in bocca pastoso e ingombrante, interrompersi. Non sappiamo perché, ma da generazioni di disgraziati morti molto male, da quello che possiamo capire dalle illustrazioni che corredano la genealogia Snodde-Brittle, spunta in calce una figuretta esile: Oliver, solo “Oliver”.

Dai secoli di storia di chi doveva schiacciare la qualunque, ma che è rimasto a sua volta assai schiacciato, ecco che ci troviamo a leggere di una brava famiglia: i Wilkinson.

Siamo in Inghilterra, c’è la Seconda Guerra Mondiale. Gli aerei nemici si stanno avvicinando, si avverte il loro minaccioso rombo fin dentro le stanze della bella e accogliente casa della famiglia Wilkinson: Villa Serena.

Maud si prepara, come anche sua madre, un’anziana signora sempre armata di un pericoloso ombrello. Henry, l’uomo di casa, un dentista, entra di corsa e inizia a infilarsi la sua divisa della Guardia Nazionale: il corpo di soldati part-time che dopo il lavoro strisciano e sparano per imparare a difendere il proprio paese. Tra loro c’è anche il brufoloso Eric, un fiero scout tredicenne con il mal d’amore.

Tutti si stanno attrezzando per andare nel rifugio situato in fondo al giardino; però le cose necessarie da prendere sono tante: il lavoro a maglia, la gabbia del pappagallino… il VELENO.

“La nonna prese il suo ombrello e la scatola della maschera antigas che però non conteneva la maschera antigas ma un flaconcino con su scritto VELENO, che la nonna aveva intenzione di bere in caso di invasione per non cadere in mano al nemico.”

Parte della famiglia è anche Trixie, la timida sorella di Maud. Una creatura assai ansiosa Trixie: a lei capitava sempre qualcosa di brutto, e pare non esser mai a suo agio, neanche in quel concitato momento. Trixie è avvolta nella bandiera inglese perché sta preparando il costume da indossare nella recita indetta dal Circolo delle Donne per gli eroici soldati. È una bella responsabilità dover interpretare lo Spirito della Britannia.

Maud pensa a Trixie e inzia a salire le scale, ma una bomba cade su Villa Serena…

“e chi s’è visto s’è visto.”

Potremmo pensare che la storia di questa famiglia inserita lì, senza apparente motivo dopo che ci siamo sorbiti graficamente le sorti della casata degli Snodde-Brittle, finisca lì; in realtà, la storia della famiglia Wilkinson inizia proprio dalla loro morte: dopo il grande botto, il grande colpo di essere diventati fantasmi. Sconcerto, timore, disperazione. Henry, il dentista membro della Guardia Nazionale, prende in mano la questione:

“Faremo come prima, Maud […]

Vivremo una vita onesta e serviremo il nostro paese.”

Stare insieme è già una grande gioia… ma ciò non è del tutto vero: Trixie non c’è.

Dobbiamo subito abituarci a una cosa, beh… al fatto che non tutte le persone diventano fantasmi, come non tutti gli animali. Non si sa perché.

Dal bovindo di Villa Serena a un negozio di mutande dai nomi equivoci. Come è potuto accadere? Quando si è fantasmi il tempo scorre lentamente, mentre il mondo va avanti, corre, ricostruisce. A un corpo fatto di ectoplasma bastano anche amabili mura diroccate, ma non è piacevole quando le persone ti passano attraverso o dicono brutte parole come “esorcismo”.

Nessuno avrebbe immaginato che Londra fosse così piena di fantasmi. I Wilkinson non lo pensano e si ritrovano in una città pullulante di cavalieri morti in battaglia, corridori stroncati dal troppo correre, ragazze straniere portate all’altro mondo da uno “sciocco” incidente avvenuto dopo una festa. Passato e presente si incontrano in un affollato mondo di fantasmi vagabondi. La Seconda Guerra Mondiale aveva fatto impennare la popolazione ectoplasmatica; adesso, dopo quindici anni… ecco le mutande. Sempre meglio del negozio di calli che ti fa sentire addosso mille malanni, come è accaduto al tedesco che pare tanto interessare alla nonna.

Prima della partenza per Londra la famiglia si è anche allargata: i Wilkinson trovano un timido fiore vittoriano senza la scarpina, la piccola Adotta; almeno così la chiamano i suoi nuovi mamma e papà, Maud ed Henry.

Nel nostro mondo quasi non si può parlare di cimiteri, figuriamoci di adozione di anime, di fantasmi.

Qualcuno, però, fiuta l’occasione, anche se è spinto dal più sincero sentimento amorevole.

Una famiglia senza casa incontrerà le sorti di un bambino senza famiglia. Beh, più o meno. Oliver credeva di non avere una famiglia, fino a che un brutto uomo con i denti gialli non va a strapparlo via dall’orfanotrofio più mal ridotto ma più pieno di amore di tutte le storie che abbiano mai nominato luoghi del genere. Penserete che sia una fortuna scoprire di avere un cognome importante, una grande eredità, una casa… una cugina. Niente di più sbagliato. Un cane a tre zampe può valere molto più di decide di stanze vuote e fredde. Credetemi, per Oliver, quelle stanze diventeranno ancora più buie, gelide e spaventose.

Uno sbaglio può essere il tocco del destino che cerca di mettersi in mezzo?

Una borsa da bagno, due malefici spiriti ingiuriosi grondanti di sangue, un lago maledetto; un maniero oscuro e zeppo di teste impagliate e cose inquietanti. E alcune lettere che non arrivano mai.

Eppure, la fortuna fa ampi giri prima di far vibrare le corde nella giusta armonia.

A volte i doni più grandi vengono a noi quando tiriamo fuori la testa dalle coperte e impariamo a non avere paura. La diversità non deve separare i cuori… e di certo delle suore non dovrebbero dover passare le giornate a sventolare rami di sorbo tra urla e lamenti, invece di pregare in silenzio.

La cosa che più indebolisce è la paura prolungata e indotta, non naturale; se ci si mette anche la solitudine… ecco che un armadio può contenere solo mostri e morte annunciata, o forse no.

Ph Francesca Lucidi

ANALISI E VIBRAZIONI

Un romanzo dalla scrittura avvincente: tratti di indicibile orrore esplicito, dolcezza, sensibilità spiccata; umorismo mai fuori posto, capacità di spostare l’occhio narrativo permettendoci di sentire sulla pelle le esperienze dei personaggi e gli stati d’animo, o d’ectoplasma.

Apprezzabilissima la varietà di ambientazioni che passano dalla provincia, al tessuto urbano, fino allo "stato gotico" con tutti i crismi.

Un arco temporale ampio che si dipana dalla Seconda Guerra Mondiale fino agli anni della viva ricostruzione manifestata in gallerie commerciali e consumi attivissimi. Un romanzo per ragazzi che utilizza un linguaggio raffinato e al contempo assai scherzoso, narrando di  temi importanti come la famiglia, la morte, la solitudine e il senso di colpa. Tra le epoche, vengono analizzate le migliori e le peggiori sfaccettature della mente, del cuore e dell’azione. Personaggi cattivi o afflitti, positivi o sbadatamente buoni.

La lettura è estremamente piacevole e invita alla riflessione tramite il racconto semplice della vita della gente, anche se questa gente, in realtà, non è più in vita. Nessuna scemaggine ma tratti di divertimento misti a commozione. Già dal titolo si intuisce la direzione dissacrante, ma mai sguaiata, badate bene.

Il valore della famiglia si esalta e diventa la spinta per la rinascita, per la rivincita. Gli eroi di questa storia sono imperfetti e per questo assolutamente credibili. Si parte dal reale, per passare attraverso eventi improbabili ma utilizzati come spunto per ragionare sull’altruismo, sul valore della “casa” intesa come luogo di protezione e proprietà non solo materiale ma sentimentale.

Riusciamo ad affezionarci a tutti, e impareremo anche il valore della pietà. La vita nell’altro mondo è presa come pretesto per riflettere sul valore dell’inconscio e della coscienza… che paiono indirizzare la nostra anima verso un destino eterno di cui ci troviamo artefici, se riusciamo a ricordare, fare ammenda, cambiare.

Tutti qui cambieranno abitazione, contesto, amici e condizione. L’importanza di questa storia sta nella ricamatura di un disegno assurdo che riesce a rendere chiari e forti i messaggi di speranza, forza e responsabilità personale. Da qualche parte ho letto, e parafraso, che un egoista batte un altruista… ma che un gruppo di egoisti non può nulla contro una comunità di altruisti.

Allora, che ognuno si metta nel suo cantuccio a riposare nella lettura di una storia di affetti, piatti cucinati male; accoglienza, dono, e coraggio di difendersi battendo la paura. Oliver riuscirà a controllare il suo respiro? Noi possiamo sperare di riuscire a guardare nel buio, senza farci consumare dai racconti di qualcuno… che vuole sfruttare i nostri timori e la nostra solitudine. CONTROLLO e UNIONE. Insieme si può!

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Grazie!