martedì 26 maggio 2020

ORIGINI ED EVOLUZIONE DELLA LEGGENDA DELLE "JANARE"

LA JANARA

Henry Fuseli (Johann Heinrich Füssli), The Three Witches ( post 1783); The Royal Shakespeare Theatre, Picture Gallery and Museum, Stratford-upon-Avon. Immagine di pubblico dominio.

PROLOGO

Il termine janara deriva, probabilmente, da dianara (sacerdotessa di Diana) o dal latino ianua (porta).

La janara può assimilarsi a una “strega”, nel senso nero e malevolo del termine. Questa entità è una donna, un’apparente normale donna che ha fatto, però, un patto con il maligno.

La figura della janara è originaria dell’Italia centro-meridionale: ciò ha ragioni storiche che  si radicano su eventi realmente accaduti, su credenze… paure… e documenti antichi risalenti ai primi periodi dell’Inquisizione in senso stretto. La zona di Benevento ne è il terreno di plasmazione; da lì, poi, la leggenda si è estesa fino a far assumere alla janara diversi nomi o conformazioni. Per comprendere questa affascinante ma oscura storia si deve ripartire, appunto, dalle presunte origini del termine.


JANARA COME DIANARA?

IL COLLEGAMENTO CON LE DIVINITÀ FEMMINEE DELL’ANTICHITÀ

Il collegamento con Diana è riconducibile alla simbologia legata alla dea. Diana era una divinità latino-italica protettrice delle selve, dei corsi d’acqua e delle donne. Gemella di Apollo e figlia di Giove e Latona, Diana è legata anche ai culti lunari. Diana viene ricollegata alla dea Artemide della mitologia greca.

Diana-Artemide simboleggia la fase crescente della luna; Selene simboleggia invece la luna piena ed Ecate la luna calante. Il tutto è da ricondurre alla triplicità della divinità femminea che ancora oggi è venerata dalla stregoneria moderna: una stregoneria prettamente pacifista e “bianca”.

Diana era una dea vergine. Ricordiamo, infatti, il mito di Atteone: un cacciatore che imbattutosi nella dea che faceva il bagno con le sue compagne ne restò immediatamente attratto; Diana non apprezzò l’attenzione ricevuta e tramutò Atteone in un cervo. Il cacciatore trasformato in animale delle selve fu poi divorato dai suoi stessi cani. Diana è spesso rappresenta con accanto il simbolo di un cervo.

Le janare rientrano nell’immaginario legato alle “streghe”. Quest’ultime erano spesso donne sole; e questo socialmente era percepito come disfunzionale e perseguibile per la paura che l’indipendenza femminile creava nelle grette menti del passato… e anche perché la procreazione era vista come un obbligo biologico della donna. Le streghe potevano essere fanciulle ammalianti, e quindi pericolose per l’equilibrio dell’istituzione matrimoniale, o donne anziane esteticamente trascurate e dedite a pratiche medicamentose misteriose… e qui ci ricolleghiamo all’eco della figura di Ecate. Ecate è una divinità antichissima non sempre associata a qualità positive. La dea è spesso rappresentata come anziana ma in realtà è trina e racchiude in sé la fanciulla, la donna e la megera. Ecate è la custode tra i tre regni: quello sensibile, quello etereo e quello intuibile; o tra il Cielo, la terra e il mare. Ecate è una divinità psicopompa, ossia in grado di viaggiare tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Tra i simboli associati a questa divinità, trina, vi sono il crocicchio, la chiave, la fiaccola e il cane.

William Blake, Ecate (1795 ca). Immagine da artesplorando.it.

Ecate veglia al contempo tra passato, presente e futuro. La chiave è l’apertura verso il mondo dell’Ade, come anche i cani… che accompagnerebbero le apparizioni della divinità con il loro latrato. Il crocicchio, ossia il punto di incontro di tre strade, è associato alla dea sempre per la simbologia del tre. Appunto per questo in quei luoghi spesso venivano erette statue e altari a protezione dei viandanti; l’avvento della Cristianità ha però trasformato anche questa credenza pagana in simbologie nefaste e negative… fino a designare il crocicchio come un posto ideale per la sepoltura dei suicidi. Ecate è in realtà luce e oscurità interdipendenti ed è sapienza illuminata dalla fiaccola di una conoscenza che travalica i confini dei mondi.

Le donne accusate di stregoneria avevano spesso tutti gli aspetti che abbiamo qui ricondotto a Ecate: sapienza, lungimiranza, conoscenza di pratiche protettive per la salute della donna.

Alla base dei processi di inquisizione sono da ricondurre elementi politici e sociali. Una donna non ascrivibile nell’ordine stabilito era un pericolo; poi se nubile e magari possidente di terre… era ancor più un fastidio da eliminare. Questo argomento lo affronteremo tra un po’, con calma e sangue tremante.

La janara però è una strega assolutamente cattiva… se anche molte simbologie pagane possono identificarsi come i prodromi della leggenda i connotati positivi si perdono totalmente.

È curioso che tra gli animali associati ai cattivi presagi, e anche agli atti delle janare, vi sia la civetta: un altro degli “animali simbolo” di Ecate.

 

LA IANUA

La janara infesta le case passando dai buchi della serratura o sotto le porte: ecco perché il termine latino ianua sembra logicamente associabile all’origine dell’epiteto di questa maligna creatura.

Per bloccare l’ingresso della janara bisogna mettere davanti a ogni ingresso una scopa di saggina, con il bastone rivolto verso il basso. La malvagia creatura è costretta a contare ogni rametto della scopa, uno ad uno: una sola notte non basta a finire il conto e l’alba sopraggiunge, così, facendo fuggire la janara.

Questa sposa del maligno di giorno è una persona normale, magari un conoscente, un vicino… un parente stretto. Nella sua quotidianità cova rancore e gelosia… di notte corre a sfogare i cattivi sentimenti addosso alle vittime prescelte. Malocchi e fatture: così la janara mina la serenità mentale e la salute fisica dei suoi bersagli.

Questa particolare strega riesce a muoversi agevolmente grazie a un unguento con cui aspergerebbe il suo corpo, così deformato nella sua trasformazione notturna. La janara è nuda, orrenda: ha capelli scompigliati e occhi terrificanti; lunghe unghie affilate, e una pelle rugosa e disgustosa. Per muoversi può usare una scopa, ma il più delle volte viene detto che ella si introduce nelle stalle per rubare delle giumente che cavalcherebbe durante le sue macabre scorribande. I crini dell’animale, al mattino, riportano il segno del passaggio della strega con la comparsa di una treccia. Il cavallo è spesso un bene dello stesso bersaglio della janara… l’animale spesso si ammala e muore, sotto il mefitico tocco della janara.

Quando una famiglia è preda di una janara… spesso a farne le spese sono i bambini. La bestia dalle sembianze umane sembrerebbe prediligere le tenere creature per lo sfogo dei suoi atti. La janara si siede sul petto dei piccoli della famiglia scelta fino a farli quasi soffocare, o li fa ammalare. L’unica cosa da fare, si dice, è la pratica inversa al malocchio… la quale è conosciuta da selezionate figure femminili che sanno, con olio e acqua e forbici, mettere fine al maleficio. In realtà ci sono anche altri stratagemmi che permetterebbero di catturare e intrappolare una janara, fino a farsi promettere di proteggere la famiglia per generazioni. Tutto dipende dal sangue freddo di chi volesse o potesse stringere tra le mani i sudici capelli di una janara.

BENEVENTO

I RITI DEI LONGOBARDI

I Longobardi regnarono in Italia per lungo tempo, dal VI secolo: entrati nella penisola attraverso il Friuli, estesero il loro dominio per quasi tutto il territorio italico. Si distinguono una Longobardia Maior, nell’Italia del nord, che durò fino alla conquista franca del 774; e una Longobardia Minor, nell’Italia centro-meridionale, che impose la sua forza per lungo tempo opponendosi con onore al franco Carlo Magno e posò la corona solo con l’avvento dei Normanni dopo l’anno mille.

Benevento e Salerno furono tra i territori maggiormente “resistenti”. Benevento in particolare.

Nonostante la loro conversione al Cristianesimo, i Longobardi continuarono a praticare molti dei loro riti legati specialmente al culto degli alberi e alla venerazione della dea Iside.

Img.Pixabay

Iside, sorella e sposa di Osiride, è una divinità egizia legata alla femminilità, alla luna… e al regno dei morti. Ella resuscitò lo sposo assassinato da Seth attraverso l’acqua sacra, per questo è un’entità legata alla magia, alla fertilità… e questo non può non ricollegarsi ai miti delle altre divinità femminee già citate.

Nel paganesimo gli alberi sono un fondamentale elemento di connessione con i “mondi” e le divinità.

Per i Longobardi la natura del Sannio era lo scenario ideale per praticare gli antichi rituali tra fronde vecchissime e corsi d’acqua tortuosi. In particolare, il fiume Sabato… che bagna Benevento… era un luogo prediletto. Il culto di Iside, in realtà, era già radicato nel passato di quelle località.

Img.Wikipedia

Pietro Piperno BENEVENTANO, “Filosofo et medico, e della gran Giurisdittione di S. Sofia di essa Città Protomedico”, nel trattato Della superstitiosa noce di Benevento, del 1640, spiega la natura dei rituali longobardi. I conquistatori appendevano pelli di caprone ai rami di un albero, li colpivano con le frecce e poi si cibavano dei resti.

Nel passato molte donne, tra quelle considerate “sospette”, erano profonde conoscitrici delle erbe. È presumibile che proprio sulle rive del Sabato queste si fermassero a raccogliere radici medicamentose, erbe officiali… e anche allucinogene come la belladonna. Queste donne, passando di lì, probabilmente avevano la possibilità di assistere ai riti dei longobardi, e spinte da curiosità potevano unirsi alle celebrazioni. In queste circostanze è possibile pensare che queste donne si concedessero carnalmente ai prestanti uomini stranieri, da lì… se pensiamo che tutto si svolgeva lungo le rive del fiume Sabato… ecco tutti gli elementi che circondano, appunto, l’immaginario del SABBA: il famoso rituale orgiastico e demoniaco delle streghe.

Ovviamente si deve considerare che tutte queste occorrenze sono da filtrare attraverso gli stretti buchi dell’imbuto della superstizione, dell’intolleranza e in seguito del clima inquisitorio.

Pietro Piperno, nel suo trattato, fa anche riferimento alla VITA BARBATI, il racconto agiografico della vita di San Barbato: vescovo di Benevento attivo nell’area tra il 663 e il 682. La VITA BARBATI è nota sicuramente dal secolo X.

Piperno fa riferimento all’aneddoto raccontato da Barbato riguardo allo sradicamento di un albero “demoniaco”, di una NEFANDA ARBOR. Non si specifica di quale albero si tratti, ma è descritto l’atto con l’aggiunta della terribile informazione riguardo a un demone in forma di serpente trovato sotto le radici della pianta.

È importante porre lo sguardo sulla tipologia dell’albero perché a partire dal XV secolo nacque la famosa  leggenda del NOCE DI BENEVENTO. Piperno cerca di ricostruirne la storia… ma la prima menzione storica documentabile riguardo, proprio, a un albero di noce, risale al processo a MATTEUCCIA DI FRANCESCO DA TODI: la donna fu processata per stregoneria nel 1428.

Dalla testimonianza di Matteuccia si originarono tutti i dettagli, poi durati nei secoli, riguardo alle famose “STREGHE DI BENEVENTO”, che da quel processo ottennero la loro “consacrazione”.

 Francisco Goya, Il Sabba delle Streghe (1823). Img. da arteworld.it.

LA “STREGA” MATTEUCCIA DA TODI

GLI ATTI DEL PROCESSO E LA NASCITA DELLA LEGGENDA DELLE “STREGHE DI BENEVENTO”

Già dal 1426 è nota l’attività di San Bernardino da Siena che predicò in Umbria tra Spoleto, Montefalco e Todi. In seguito si impegnò anche nella persecuzione di tale Matteuccia di Francesco da Todi, come ricordato negli atti del processo.

Matteuccia fu processata come “fatuchiara”, “maliarda” e “striga”. La donna confessò, presumibilmente aiutata dall’insistenza del tribunale, diverse nefandezze. Matteuccia era molto nota per la sua attività di “guaritrice” e consigliera, anche di personalità molto potenti: ricordiamo, infatti, un documentato collegamento con Braccio da Montone, capitano di ventura e condottiero.

La donna confessò le sue arti magiche. Nei riti venivano utilizzate erbe, ossa e grasso di cadavere, e sangue di infante. La donna ammise l’omicidio di cinque bambini: gli atti del processo riportano i luoghi degli assassini e i nomi dei genitori delle vittime.

La cosa che rimarrà assai nota di questo processo è un dettaglio riferito da Matteuccia: la donna racconta che il luogo di ritrovo delle streghe era Benevento, e che la località veniva raggiunta grazie a una formula recitata dopo l’aspersione con un olio stregato.

Dalla confessione di Matteuccia Benevento verrà additata per sempre come il luogo preferito delle streghe di mezza Europa. La formula imputata recita:

Unguento, Unguento

Mandame a la noce de Beniviento.

Supra aqua e supra ad vento

et supra ad omne maltempo.

Matteuccia fu bruciata al rogo il 20 marzo 1428.

Nella sentenza di condanna vi è un inquietante schizzo che riporta la figura di una donna con i capelli scompigliati, impegnata a incantare un piccolo animale tramite una bacchetta.

Di Matteuccia non si conoscono altri dettagli personali, fisici… se non quelli tristemente descritti nell’impietoso schizzo.

Dalla pubblicazione, datata 1486, del  manuale principe sull’ inquisizione e la stegoneria: il Malleus Maleficarum, redatto dai domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, si dà avvio alla nota “caccia alle streghe”.

Diversi processi avvenuti tra i secoli XV e XVI riporteranno la ripetizione della formula di Matteuccia… con delle piccole varianti. A tale proposito si rimanda anche al processo a Bellezza Orsini (1528).

CONCLUSIONE

Si può quindi pensare che la storia si sia incontrata con la superstizione e i modi inquisitori… per creare il mito della janara.

Ancora oggi questa “presenza” è riscontrabile in molti luoghi geografici che ne riportano il nome. La fama della janara si estende a tutto il centro-sud, anche se ormai le memorie degli anziani ne sono il principale luogo di mantenimento.

Atti del processo: Mammoli Domenico (a cura di), Processo alla strega Matteuccia di Francesco (Todi, 20 marzo 1428), Spoleto, CISAM, 2013, (prima ed.1969).

domenica 10 maggio 2020

“TOTUS MUNDUS AGIT HISTRIONEM

IL TEATRO ELISABETTIANO E GIACOMINIANO

E

 IL “GLOBO” RAPPRESENTATO DAI DRAMMI SHAKESPEARIANI

TOTUS MUNDUS AGIT HISTRIONEM

Img. Pixabay

Shakespeare emerge come autore all’interno di una galassia semantica e culturale complessa.
Oggi i modi scenici sono profondamente cambiati, come anche le condizioni caratterizzanti il lavoro del palcoscenico. È naturale pensare i personaggi muoversi e dar vita al testo secondo ciò che conosciamo. Il teatro ai tempi del “Bardo di Avon” era un cosmo diverso dagli scenari che nella mente ci costruiamo e mettiamo in movimento leggendo un suo dramma, e lontano da ciò che i nostri sensi vivono in una rappresentazione contemporanea.

I testi stessi di Shakespeare furono condizionati dalle convenzioni del teatro elisabettiano e giacominiano. Per comprendere quei testi, per afferrarne a pieno i modi e i contenuti, dobbiamo situarli in uno specifico ambiente artistico e fisico. La configurazione spaziale, temporale e culturale fu ciò che permeò ogni dramma dalla concezione, alla realizzazione… alla resa e percezione.

Il lasso temporale parte dal regno di Elisabetta I (1558-1603), attraverso quello di Giacomo I (1603-1625)… fino alle profonde crisi politiche, sociali, spirituali e anche culturali del regno di Carlo I (1625-1649).

Fare teatro era “rivoluzionario”, era un’attività che infastidiva molti e fu soggetta a molte regolamentazioni: ricordiamo che nel 1642, alla fine, arrivò la chiusura dei teatri dopo anni di intolleranza da parte della borghesia puritana; questo alla vigilia della Prima Rivoluzione Inglese.

Il primo teatro  ̶  vicino a quello che oggi potremmo considerare tale  ̶  fu costruito nel 1576 fuori dal centro storico di Londra: il The Theatre. Poi venne il The Globe che sfortunatamente andò a fuoco, per un incidente, nel 1613, e fu ricostruito poco lontano dal luogo originario solo tre secoli dopo e inaugurato nel 1996.


SHAKESPEARE “UOMO DI TEATRO”

                                                            William Shakespeare, John Taylor (?), inizio XVII sec.

Negli anni ottanta del 1500 sono riscontrabili le prime testimonianze dello “Shakespeare attore” presso la compagnia Lord Chamberlain’s man. Come drammaturgo ci è noto dal 1592… i suoi drammi sono quindi il frutto della sua esperienza come professionista della scena. Shakespeare era anche tra i proprietari del Globe Theatre, e di quest’ultimo come del BlackfriarsTheatre era anche azionista: sharer.

Allora non esisteva il copyright e i copioni venivano venduti alle compagnie alle quali il drammaturgo cedeva l’opera per un forfait. Ciò non significa che Shakespeare non fosse attento al lato economico: aveva da perdere sotto molti punti di vista da un fallimento… a ragione della sua presenza a tutto tondo nella scena del teatro elisabettiano. A tale proposito ci sono molte testimonianze riguardo cause legali verso inquilini morosi: Shakespeare aveva molti interessi economici che curava con dovizia.


LA FRUIZIONE DEI DRAMMI

Shakespeare sposava in toto le ragioni della scena per rendere le opere accessibili a tutti: dalla ricchezza intellettuale e retorica apprezzabili da una ristretta cerchia, alla presa in considerazione delle condizioni e delle modalità di istruzione delle masse e all’attitudine delle percezioni di quest’ultime. L’istruzione presso le grammar schools, presso cui aveva studiato anche Shakespeare presso Statford, predisponeva ai modi della retorica… specialmente si aveva bene a mente le strategie e l’importanza dell’elocutio: della persuasione. Anche i sermoni religiosi erano piuttosto lunghi quindi si può dire che nel periodo storico dove i teatri, nonostante mille difficoltà, diedero vita alle messe in scena più note e fondanti si era mentalmente e sensorialmente pronti a spendere una grande quantità di tempo per “ascoltare”qualcosa.

Si usava dire “Hear a play” ossia “ascoltare un dramma”; si puntava così a soddisfare non solo l’occhio ma anche a coinvolgere le orecchie degli spettatori. La poesia e l’azione scenica vengono così a compenetrarsi e a influenzare i testi e le scelte dei drammaturghi e dello stesso Bardo.

Ogni pagina scritta nasceva in relazione alla compagnia e alla struttura scenica di destinazione.


TEATRO COME DOMINIO DELL’ATTORE

I personaggi stessi inventati dal drammaturgo venivano pensati per specifici attori, nel caso di Shakespeare per determinati personaggi dei Chamberlain’s Men o dei King’s Men. Amleto fu scritto, cesellato e cucito per l’attore Richard Burbage.

Anche lo spazio fisico era una condizione tenuta in considerazione con molta attenzione, in primo luogo il teatro “pubblico”, all’aperto, appartenente alla compagnia di Shakespeare.

La forma del teatro pubblico elisabettiano incise sugli aspetti esteriori e meccanici dell’intera messa in scena, a partire dal numero dei personaggi fino alla loro disposizione. Le ragioni profonde della drammaturgia shakespeariana risiedevano proprio in tutto questo.

Harold Bloom sostiene che Shakespeare abbia inventato “l’uomo moderno”, così, tout court: l’esplorazione della soggettività umana, in realtà non sarebbe stata possibile senza quel particolare veicolo teatrale.

Il soggetto era AL CENTRO. Ogni gesto, intonazione o uso della voce, costume... ERANO LO SPETTACOLO!

Era tutto nell’azione: ogni battuta costruiva il personaggio e l’ambiente e il tempo. Nel teatro elisabettiano la scenografia era pressoché assente e spettava all’attore la costruzione del contesto, le suggestioni materiche di qualcosa che materialmente era quasi invisibile.

Tra attori e pubblico vi era un tacito patto: i segni teatrali erano il simbolo di una realtà immensamente più vasta.


LA STRUTTURA

Il palco era aggettante: il thrust stage era, relativamente, senza ostacoli. Gli unici aspetti fissi erano la frons scenae, il fondo della scena, ornato di pitture… e al cui interno si aprivano due o tre porte di ingresso e uscita; i due pilastri di legno che simulavano colonne di marmo che sostenevano il tetto sopra il palco. Forse tale organizzazione era l’evoluzione degli spazi informali di piazze e cortili delle taverne, utilizzati in precedenza per le rappresentazioni e che richiamavano aspetti del teatro greco-romano.

All’attore era destinata l’intera responsabilità di essere la FONTE dell’attrazione del pubblico. Il teatro era un teatro di AZIONE SCENICA e di PAROLA. Il lavoro del drammaturgo concepiva la poesia che acquistava braccia e gambe attraverso la “possessione” dell’attore. Anche se le genti erano avvezze all’ascolto, come già detto, le rappresentazioni erano brevi rispetto ai tempi contemporanei: la durata di uno spettacolo era di circa due ore e ciò era reso possibile da tagli e una certa rapidità di recitazione aiutata dall’assenza di scenografia.


IL TEATRO COME IL MONDO, IL MONDO COME UN TEATRO

Ciò che caratterizzava i teatri ai tempi di Shakespeare era soprattutto la MULTIDIMENSIONALITÀ.

Il Globe era largo circa 15 metri e profondo 8: una straordinaria ampiezza di certo. Queste misure erano il contenitore abile a ospitare tutti gli attori di un dramma che spesso si dovevano trovare in scena contemporaneamente… perché il tempo e lo spazio si sovrapponevano in una disposizione che oggi avremmo difficoltà a comprendere ma che all’epoca era consueta e straordinariamente funzionale.

Ricostruzione del Globe Theatre, realizzata da Joseph Q. Adams nel tardo XIX secolo. P
Ph. by Folger Shakespeare Library which was uploaded on February 7th, 2017.

Una compagnia poteva essere composta dai 14 ai 18 attori. A volte personaggi che erano in “luoghi” diversi si trovavano sul palco in contemporanea. Solo il tiring house, lo spogliatoio, era l’altro luogo in cui gli attori si avvicendavano nell’alternanza delle entrate e delle uscite.

I plays elisabettiani non erano divisi in atti e scene: ciò era determinato dall’avvicendarsi dei personaggi sulla scena. I gruppi di attori in entrata e in uscita erano invisibili tra loro… e questo era assolutamente consueto per chi assisteva, e per chi doveva scrivere la storia… che nel caso di Shakespeare è diventata “storia” nel senso più ampi del termine.

In Hamlet, nella scena quarta del primo atto, il fantasma conduce Amleto lontano da Orazio e gli altri presenti uscivano da una porta per rientrare subito da un’altra entrata. Ogni porta era un “passaggio” non solo spaziale ma ideologico e narrativo.

Anche la DIMENSIONE VERTICALE aveva un ruolo fondante e assai suggestivo e stuzzicante.

Il palco era sollevato di circa un metro e mezzo e vi era, quindi, un sottopalco. Questo particolare probabilmente era un retaggio dei pegeant… carri tardomedievali utilizzati per la performance in piazza dei morality plays e dei mistery plays: in entrambe le rappresentazioni il sottopalco aveva una finalità simbolica. Quell’area sottostante era per così dire… OFF LIMITS: vi abitavano diavoli e spiriti maligni che entravano e uscivano tramite una botola. La sopravvivenza della simbologia religiosa nel teatro laico è innegabile. Gli attori elisabettiani continuavano a battezzare la zona come HELL (inferno), anche dove non aveva un ruolo diretto. Il soffitto del palco, decorato con costellazioni e pianeti, veniva invece familiarmente chiamato HEAVEN (paradiso).

Il dramma shakespeariano rappresentava l’uomo nel suo dibattersi tra il “cielo” e la “terra”… sospeso tra “inferno” e “paradiso”.

Il nome del secondo teatro della compagnia di Shakespeare, THE GLOBE, allude alla nozione di THEATRUM MUNDI: un teatro del mondo intero era lì dinanzi allo spettatore, all’uomo. Su quelle tavole si poteva viaggiare nel tempo e nello spazio e tutte le tipologie umane e psicologiche potevano essere rappresentate, da uomo a uomo… da bocche parlanti a orecchi attenti.

Il motto sovrastante la porta del teatro di Shakespeare recitava: “TOTUS MUNDUS AGIT HISTRIONEM”… e per capirne la traduzione simbolica e non letterale… basta ascoltare le parole di Jacque in As you lik eit: “tutto il mondo è un palcoscenico”. Il globo gioca a fare l’attore… o il globo crea l’attore?


PICCOLI RIFERIMENTI

Amleto è attanagliato dal dubbio sulla natura dello spettro paterno… si potrebbe pensare che non  si dovrebbe aver timore e provare solo gioia nel rivedere un “caro estinto”… beh così non era per le credenze dell’epoca e nello specifico ci interessa ciò che suggeriva la messa in scena. All’inizio del dramma Bernardo si accingeva a narrare la comparsa del fantasma avvenuta prima, dopo ovviamente l’invito agli spettatori a sedersi e a guardare in alto… lo spettro si manifestava attraverso la botola.

Shakespeare giocava magistralmente con le percezioni del pubblico e con le convenzioni del teatro… e tutto creava emozioni disturbanti che non sempre possiamo rievocare leggendo le parole del “Bardo” su un volume… e oggigiorno si sa quanto sia libera l’interpretazione della realizzazione di un testo teatrale.


In questo caso specifico, credo che conoscere questi particolari storici possa davvero farci apprezzare le sapienti “prese in giro”… assolutamente serie…  che Shakespeare utilizzava per uno studio psicanalitico non solo dei personaggi ma degli stessi spettatori.