I
DUE GIOVANNI E IL DIAVOLO
CAPITOLO
I
1.Introduzione.
Il borgo vecchio e il ricordo di Giovan Festa
Il passeggiare tra i vicoli delle parti vecchie, abbandonate e dense, dei piccoli paesi… è qualcosa che sa di rito: opprimente, chiarificatore, evocatore di sensazioni e ricordi. Dove il contemporaneo lascia spazio, il passato rivive di autonoma vitalità sempiterna e autorevole.
A valle si costruiscono
villette a schiera dal sapore Anglosassone e gli idiomi occupano perennemente
l’aria di litigi di vicinato e toni di voce alti; perché in alcune culture si
urla per abitudine.
In alto la roccia e le
pietre, modellate dall’uomo, si fondono in una struttura quasi viva: da lontano
questi piccoli borghi hanno quasi occhi e capelli di rami lasciati crescere
selvaggi. Se li fissiamo, distinguiamo dei tratti somatici che
comprendono tutte le espressività delle vite che vi sono passate; o vi restano
sotto altre forme non sempre pacifiche, rappacificate, o piacevoli.
Nell’incuria quegli zigomi grigi sembrano cedere… e ogni muro che si crepa
lascia trapelare una scena evanescente; e spettri con nomi e intenti che
aleggiano sulla contemporaneità, distratta, degli abitanti della valle.
Abitanti senza memoria.
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Questa è la storia dei due
Giovanni.
Il diavolo è un compagno
osservatore, paziente e ammaliante… se un uomo ha un desiderio, l’odore di quel
bramoso pensiero lo attira. Le anime degli uomini sono labili, capricciose e
impazienti. Il diavolo sa corteggiare queste anime; non fa alcuna distinzione
tra il povero e il potente: è il più democratico ascoltatore che si possa
incontrare.
Verso la fine del 1500 un
Conte di nome Giovan Festa riempiva le stanze di una fortezza, diventata oggi
una di quelle fortezze qualsiasi di quegli alti borghi ormai quasi fastidiosi
per i più.
Giovan Festa si distingueva
per un parlare stretto e scuro, come il taglio del suo sguardo accigliato,
fascinoso e vuoto. Egli governava quasi senza sforzo, tale era la paura
sommessa che aleggiava tra le vie sotto le sue mura brutte.
Quell’uomo non si curava
molto degli incarichi ricevuti da più lontani e potenti legami; lui aveva
segreti da proteggere e un potere invisibile da nutrire.
Giovan Festa era circondato
sempre da un cane marrone e nero, e alto. Dopo centinaia di anni ancora le
memorie portano il ricordo di quel cane e del suo girare notturno nella
piazzetta antistante la fortezza.
Quel cane non piaceva a
nessuno; in realtà era particolarmente mansueto, ma i suoi occhi marrone-rosso
erano così umani da tenere lontani gli uomini a cui somigliava.
Quella bestia muscolosa dai
peli folti intorno al collo, fino a ornarlo quasi di una capigliatura poco
animale, era comparso un giorno dinanzi al portale principale della fortezza.
Aperto l’uscio si era diretto senza indugio verso la stanza più alta dove
Giovanni, di solito, si metteva alla finestra per ore.
Giovan Festa, si racconta,
aveva trovato un grande tesoro.
2.L’inizio
Una notte d’estate, in cui
il vento tirava forte, tutti erano al chiuso e si preoccupavano dei pali dei
fagioli che si sarebbero piegati o spezzati. Giovan Festa era alla finestra,
come sempre, e aggrottava le sopracciglia nere verso il lato nord. Nel bosco
che imperava a quel lato della fortezza: il lato più scosceso e infestato di
nidi, rami secchi ed escrementi di cornacchie; s’intravedeva un movimento non
conforme al moto del vento. Nessuno entrava mai in quel bosco a causa di uno
strano morbo che pare infettasse chiunque camminasse tra quei sentieri appena
accennati.
Gli abitanti del borgo di
certo non vi si addentravano: intorno alla fortezza giravano accorti e si
muovevano piano per non infastidire lo sguardo vigile del Conte alla finestra.
Appoggiate le mani sul
davanzale di pietra vide meglio e scorse almeno una decina di briganti che con
il viso coperto, e le mani infasciate strette, tentavano di attraversare quel
luogo fitto, insidioso, con fretta e circospezione. Di solito Giovanni non si
curava molto dei briganti, lui se ne serviva spesso. Non gli piaceva sporcarsi
le mani o scendere da quel piano in alto. I briganti erano gli unici esseri
umani a sopportare la sua disumana presenza, e riuscivano bene ad assecondare i
suoi intenti lesti e meschini… tutto a un prezzo conveniente per le due parti.
Quelli che camminavano
davanti ai suo occhi avevano abiti poco conosciuti; si dice avessero monete
d’oro luminose che tintinnavano ad ogni passo, monete benedette. Pare che nelle
epoche successive qualcuno ne avesse trovate un paio. In realtà molte famiglie
si sono arricchite in strani modi in quel paese di cui parlo.
Le monete erano ciò che
proteggeva quei misteriosi uomini da ciò che avevano scatenato rubando il
magnifico tesoro che trasportavano con loro.
I briganti avevano rapinato
fortunosamente un gruppo di zingari “stranieri”. Essi provenivano da un paese a
diverse miglia dal contado dove si erano pacificamente insediati, da almeno
duecento anni. Nel resto delle terre conosciute dagli autoctoni non si parlava
molto di zingari; in quel luogo però erano stati accolti o si erano imposti per
eventi e ragioni misteriose. Ancora restano poco noti i dettagli e le
spiegazioni; e solo qualche leggenda ricorda storie imprecise, e riarricchite,
di protezioni o scambi, guarigioni e battaglie vinte nonostante la forte
inferiorità.
Quei ladroni li avevano
incontrati mentre erano passati lungo i confini del Contado del Festa;
limite da cui tutti si tenevano aldilà per evitare problemi. Gli zingari
una volta l’anno, all’inizio dell’estate, si recavano su quei confini per
raccogliere l’erba dalla corona (così ancora la chiamano gli anziani che
ricordano i miracolosi decotti fatti con essa), che cresceva spontanea e
rigogliosa solo sulle colline di quella zona, dopotutto non troppo lontana
dalle conoscenze e dalle sapienze degli zingari. I briganti assalirono subito
quei zingari silenziosi. I malviventi sapevano che gli zingari avevano sempre
oro o qualcosa di valore addosso. A loro bastava poco per uccidere, e ancor
meno per vivere.
Il bottino si era rivelato
migliore, e peggiore del previsto. La moglie del Re degli zingari era andata
anch’essa a cogliere l’erba medicamentosa; avvezza a riti strani e meravigliosi
unguenti che facevano ammansire anche il potente più risoluto. La Regina aveva
con sé due sacche di pietre. La prima sacca conteneva ciò che poteva apparire
come un mucchietto di sassi qualsiasi; la seconda sacca, realizzata con una
seta luminosa e violacea, vi portava una manciata ben più abbondante di pietre
meravigliose: mille colori e riflessi caratterizzavano quelle particolari
pietre, all’apparenza “semplici” preziosi che tutti potevano vedere sugli
anelli severi dei regnanti.
In realtà quelle due sacche
nascondevano un’insidia: un’anima vera e propria.
C’era un motivo per cui
Giovanni non riusciva a riconoscere quei briganti. Gli uomini che stava
fissando erano molto più di ciò che volevano apparire. Erano mascherati da
briganti per non dare nell’occhio tra le pericolose foreste di quella terra
verde-scura e piena di echi. Quegli uomini erano degli assassini al soldo del
Cardinale Angelino Laurenzio.
L’alto prelato era il
confinante del Conte e incuteva, se possibile, ancora più timore dello scuro
Festa.
Angelino Laurenzio era di
nobile stirpe e aveva ereditato, come avveniva spesso all’epoca, i territori su
cui governava, dalla lunga discendenza che portava dietro le sue spalle grasse.
Altri cardinali, forse anche qualche papa…
Quei malviventi erano al suo
servizio e sbrigavano quelle faccende da risolvere in fretta: con sangue,
mutilazioni, e intimidazioni. Il tutto quasi divertiva quelle facce appuntite e
rigate dal sole e dal gelo.
Il Cardinale però aveva
avuto egli stesso la sfortuna di capitare sulla strada di quei dieci diavoli.
3.Il giorno della morte di Giovanna e
Fiore
Un giorno di dieci anni
prima il Laurenzio attraversava il sentiero più grande, e frequentato, poco
lontano dalle prime terre dei suoi possedimenti. Era quasi a casa.
Nella sua carrozza
barcollava a un ritmo contrario al moto del mezzo e, sbronzo, abbracciava con
le sue benevole braccia flaccide due fanciulle. Le due erano sorridenti: la
loro vita, e quella delle loro famiglie era molto più preziosa dei loro corpi
innocenti tastati continuamente da quella presenza untuosa e affamata.
Di fronte a quella scena
disgustosa sedeva una suora timida e magra: la sorella minore del Cardinale.
La giovane era stata messa
in convento all’età di otto anni. Non poteva ambire a terre e a nulla. Il
fratello e il comune padre non avrebbero mai permesso che lei si potesse
sposare, e che qualcuno potesse minare la grande ricchezza che avvelenati
custodivano. La suora aveva nome Chiaretta. La sua vita era un continuo
inchinare il capo per non vedere il continuo far mostra del proprio sesso da
parte del fratello, le violenze perpetrate per divertimento, e i tanti morti
ammazzati ingiustamente: poveri, giovani, ragazze che non si erano concesse;
sacerdoti combattivi… figli non desiderati.
Anche quel giorno il
Cardinale e il suo seguito si muovevano lesti e rumorosi come se niente potesse
mai fermarli. Invece a un tratto la carrozza fu assalita da una pioggia di
pietre grosse, e pesanti, tanto da perdere l’equilibro e accasciarsi nel fosso
alla sua sinistra. Due lupi dalla schiena curva attaccarono veloci le zampe dei
due cavalli bianchi, che a suon di frustate tiravano a più non posso per
sradicare il mezzo da quelle radici e da quella fanghiglia. Ad un tratto dalla
boscaglia una manciata di uomini, castani nel volto e dagli abiti grigi,
balzarono fuori e si abbatterono con velocità su tutti i viaggiatori gelati nei
movimenti e privati del respiro. Una mano ispida buttò fuori dalla carrozza il
Cardinale e le due giovani ancora attaccate alle sue grinfie. Angelino
balbettante iniziò a guardarsi intorno incredulo e, sentendo uno strano morbido
ostacolo sotto i suoi piedi, guardò in basso e vide il corpo esanime del suo
cocchiere giacere sotto le sue belle scarpe rosse; ora ancora più purpuree
perché immerse nel sangue che sgorgava dalla gola tagliata di quell’uomo
sfortunato, nella vita e nella morte. Furono tutti gettati a terra in un angolo
e vi restarono paralizzati e zitti. Gli assalitori iniziarono a spogliare di
ogni gioiello il corpo obeso della loro preda principale. Le due fanciulle,
approfittando della distrazione di quegli uomini urlanti, si alzarono in fretta
e presero a puntare la foresta. Un loro cugino si era fatto brigante per
scappare alla prigionia, e loro erano sempre cresciute nella convinzione che i
briganti non fossero che povera gente come loro; non avendo chissà quale
ricchezza indosso, a parte la loro innocenza rotta e zozzata, pensarono
incautamente che agli assalitori non sarebbe importato se fossero scappate,
soprattutto dal loro principale carceriere: il Cardinale
Ma quei crudeli e risoluti
individui non erano briganti, ma nessuno aveva avuto il tempo di capire e
nessuno aveva sufficiente conoscenza del mondo per comprendere. Chi per
ignoranza e chi per sfrontata autoconvinzione. Le fanciulle furono subito
raggiunte dal più alto e secco di quella compagnia della morte. Lui le bloccò
con le sue sole mani e tenendole per il collo mostrò loro i suoi occhi
stranieri e privi di pietà. L’uomo le fissò e le reputò più un impiccio che
qualcosa di interessante. In un secondo iniziò a stringere le sue dita intorno
alle gole delle due povere anime ansimanti. In pochi minuti le giovani, le due
sorelle, sputarono l’ultimo grumo di saliva e morirono lì, in fretta. Quasi
ringraziarono quella morte che le liberava dalla vergogna e dalle loro colpe
che non avevano voluto, che non avevano cercato. Se fossero tornate a casa non
sarebbero più state viste come Giovanna e Fiore. Erano marchiate ormai per
sempre, puzzavano di uomo e profumi. Il colore che il Cardinale voleva che loro
mettessero sulle labbra rimase lì, sbafato dalle lacrime, e dai capelli che si
erano attaccati ai loro rigurgiti e alle loro grida.
Dopo i primi minuti, di
sangue e tumulti, il rumore si affievolì e i malviventi iniziarono ad
analizzare il bottino recuperato; calpestando e calciando ogni tanto il corpo
del cocchiere per divertimento. I cavalli giacevano mezzi morti mentre i lupi
si rifocillavano sbocconcellando dalle loro carni. Il capo dei manigoldi scansò
a pedate i due lupi e chiamò uno dei compagni con l’ordine di smembrare i
cavalli in modo da poterne trasportare la maggiore quantità, che sarebbe stata
il loro sostentamento per le notti future. Dopo l’ordine il capo si fermò un
secondo e a passo lungo si diresse verso l’ingresso della carrozza, si affacciò
e vide la povera Chiaretta, stretta in un angolo, livida in volto dal troppo
fiato trattenuto.
Continua...