sabato 21 novembre 2020

PER STRADE INCERTE AD INSEGUIRE UN SOGNO

 

 LA SILLOGE POETICA DI "SIRIUS"

TRA LUNA E STELLE, IL VIAGGIO DI UN'ANIMA INQUIETA

Ph Francesca Lucidi

COME NASCE “SIRIUS”

Qui abbiamo un “non nome” che è lontano dal solo celarsi dietro uno pseudonimo. Il poeta si spoglia dell’identità anagrafica, fisica e sociale per farsi incorporeo viaggiatore alla ricerca di una identità più vera e profonda. Nella purezza del non essere, per scelta, un uomo rinasce dalla sua stessa solitudine, guardandola in faccia, prendendola per mano in un percorso che vuole esplorare quella stessa condizione. Il moto è da subito irrequieto, come già dichiarato dalla “non biografia” che si fa, invece, manifesto poetico: una persona si ritrova sui social a condividere nell’anonimato i prodotti creativi di una mente sensibile, arrovellata, ma anche romantica. Da una pratica che scaturisce da una ricerca istintiva o pianificata di salvezza ecco che nasce un torrente di versi liberi che innalzano sulla realtà una voce che può essere la voce di tutti, perché senza nome o viso, ma che è anche estremamente personale. Essere Uno e ritrovarsi, essere TUTTO attraverso il potere catartico di una poesia dolcemente sofferta.

Più di settanta liriche autopubblicate, il fisico manifestarsi di un eco che ha trovato la sua ragion d’essere anche al di fuori dello stato psichico ed emozionale del creatore… Ecco, in un mondo che spesso tenta di trovare sul web delle risposte, spesso troppo facili, ancor più frequentemente sbagliate o plasmate per intenti malsani e utilitaristici, la poesia rivendica una moderna funzione empatica e accogliente: si può stare nell’inquietudine, si può voler desiderare un “ritorno”, si può trovare comprensione anche da chi non si conosce direttamente. Le poesie di Sirius sono il prodotto di una comunicazione interpersonale nata dal non essere, così in molti si sono riconosciuti; forse anche il poeta ha ritrovato un nuovo sé stesso. Tutto questo ha avuto luogo su un social media: è interessante avvertire una tale occorrenza antica adattarsi e rinnovarsi nella contemporaneità, riuscendo a confermare la propria forza e funzione. La creazione poetica è l’estasi dell’anima che si innalza sopra la realtà per vedere, riconoscere, nominare; onorare, distruggere e ricostruire il mondo, interiore ed esteriore. Una persona inizia a mettere la sua anima, o l’anima in generale come lui la può vedere o ricercare, in versi; pubblica il tutto su Instagram, altre persone vi ritrovano qualcosa che avevano dimenticato o di cui avevano bisogno. Il pubblico premia l’atto di coraggio di Sirius, ed ecco che nasce questo libro, che ho apprezzato e spero sia solo un primo barlume.

Nel buio una luce resiste solitaria, come Sirio la stella, la più luminosa… che spesso si mostra senza compagnia e diviene amica di uno sguardo che percorre il cielo in ricerca.

 Ora lo andremo a scoprire.

STRUTTURA E ANALISI GENERALE

Il volume ha un filo conduttore, anzi, dovrei dire un cono di luci e ombre che si apre al nostro passo a partire dalla copertina, illustrata da Nadia Marconi. La simbologia proposta sfrutta sensi digitali e analogici: c’è la donna come essere corporeo e carnale; le forme sono generose e voluttuose… ma perse in un tratteggio vago e simbolico che nell’uso del giallo va ad accumunare la figura femminile con la luna e le stelle. Un astro par brillare più degli altri, e probabilmente non è casuale che si stagli proprio a fianco del profilo femmineo. La grafica scarna e contemporanea del titolo richiama l’origine della raccolta: l’asettico mondo del web, qui divenuto un germe inaspettato di bellezza e comunione.

Il blu si staglia sullo sfondo: ecco la notte, il luogo privilegiato dove i simboli e i pensieri del poeta si sprigionano. La donna, la Musa, la Poesia, la Luna: tutto riunito in una presenza che si moltiplica nelle sue manifestazioni proiettate dall’inquieta, romantica, passionale e malinconica parola di Sirius.

Le liriche possono essere lette separatamente ma, a mio avviso, sono tappe di quella strada a cui il poeta ci invita. Tutto inizia con la Luna, una pallida compagna spesso “specchio di un’anima smarrita”: presenza che ricorre… e un primo sguardo in alto porta un viaggio che arriverà ad un “ritorno”. Per ritrovarsi ci si perde nello struggimento, nella passione, in una carnalità violenta che poi si accascia su inviti docili come un “sorridimi”; ricordi familiari e secche brevissime poesie che richiamano aforismi, haiku. È chiaro che seguire l’ordine delle poesie dà il ritmo al viaggio: stanchezza, euforia, dolore, rabbia, disagio e innalzamento panoramico e stordente.

Ph Francesca Lucidi

LE POESIE: UNO SGUARDO PIÙ DA VICINO CON CONSIDERAZIONI

“allora tu,

Luna,

nasci in me,

solitario specchio

della mia anima smarrita,

ebbra di ricordi andati

e di tenerezze regalate,

nell’infinita ricerca del noi.”

Questi alcuni versi del componimento di apertura. Subito la Luna, l’introduzione del cielo e dei suoi abitanti come specchio del poeta che inizia l’infinita “ricerca”.

Da LUNA, dopo poche pagine si passa ad un confronto potente tra sensualità e smarrimento: BELLA SEI TU e BUIO, mostrano due visioni messe vicine, esaltate nella loro diversità.

La donna, che è anche la poesia, perde corporeità per essere luce:

“Neri gli occhi tuoi,

due lucciole che danzano ritmando nella notte.

Scie luminose che tracciano la vita”.

Poi il turbine sensuale di fianchi sinuosi e desiderio adagiato su seni spesso evocati dal poeta, con concupiscenza e con la dolcezza di un abbraccio rassicurante, quasi materno. A “seni” viene associato “abbraccio”, due parole poste a fine verso.

Dalla bellezza si passa, nella successiva pagina, al BUIO:

“Volevo capire.

Ritrovarmi.

Rinascere.

Mi sono perso in un groviglio

di passioni.

Ho paura

del buio.”

Qui possiamo vedere un modo ripetuto all’interno del volume: alcune poesie sono lunghe, discorsive o dolci, dotate di ampio respiro e ricche di onnivora fame di immagini e sensi. Poi, arrivano le liriche strette, le frasi spezzate, i passi che arrancano in quel viaggio di ricerca. Si cede, a volte, persino a forme che evocano l’aforisma. L’uso dell’enjambement può ampliare un respiro già lungo e profondo o dare appena una boccata di ossigeno spasmodica a un ritmo chiuso.

Le poesie sono il poeta e il poeta si fonde nella sua poesia parlando solo con i suoi prodotti creativi. Non ci dice nulla della sua vita e del suo nome, ma ci fa entrare nel suo cielo e nella sua ricerca: siamo gli invitati increduli alla più antica forma di catarsi delle passioni, delle paure e dei significati dell’uomo.

A volte si cade in espressioni un po' ingenue di quella verve da adolescente maledetto che usa i termini “stupra” e “fotte”, ai modi delle migliori musiche alternative contemporanea. Fossimo stati nei primi anni Novanta forse questo tipo di versi avrebbero suscitato in me più effetto.

Evidentemente, anche Sirius, a un certo punto si interroga sul quotidiano e sullo stesso mezzo che ha reso possibile la diffusione dei suoi lavori:

“Non voglio più giocare.

Oblio di sensi.

Vite parallele.

Inganni e illusioni.”

Ogni tanto una figura dal passato, una madre, una nonna; si avverte un fanciullo che si manca e un ragazzo che gioca con le parole creando qualche componimento ancora acerbo, ancora da limare secondo la luce e non solo dal potere dei lombi creativi.

Egli stesso si dice: “Non è un bel penare/tornare a quel che è stato./Tutto finisce. Nulla ritorna.”

Ad attimi, Sirius pare conversare con la Provvisorietà, accettandola. I momenti alti avvengono quando il talento di questo Anonimo tormentato mostrano una caustica filosofia tra il fatalista, il decadente, l’esistenzialista:

 Resta però sempre un odore di leggera Speranza. Io l’ho avvertito e voi dovreste scovare ciò che vi ho accennato, procedendo autonomi nella lettura, nella scoperta di Sirius e nell’affiancamento a quella che egli stesso deve portare a termine.

Ho scovato persino la dolcezza della fiaba, in STELLA CADENTE.

La pubblicazione è stata una bella scoperta, consiglio solo di riguardare, la prossima volta, l’organizzazione editoriale: vi sono un po' di informazioni eccessivamente ripetute tra introduzione, notizie sull’autore e quarta di copertina.

Ringrazio Sirius per avermi dato la possibilità di leggere i suoi lavori. Ti auguro il meglio e devo dire che ho riletto più volte diversi tuoi versi… davvero belli, davvero talentuosi in una naturalezza che fa trasparire umile e sentita scelta di esprimersi solo per il cielo, la “musa”, e per l’autoscoperta che spero riesca a tener degnamente la mano alla tua irrequieta solitudine.

A voi resta dirigervi verso il RITORNO… ma dovrete far da voi.

 

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Grazie! 

mercoledì 18 novembre 2020

TRYTE di Luca Giribone

 NOIR, GIALLO METROPOLITANO, FANTASCIENZA E METALETTERATURA 

INTRODUZIONE

Ph Francesca Lucidi

“L’ultimo passo della ragione è di riconoscere che si sono un’infinità di cose che la sorpassano.”

(Blaise Pascal)

Questa è una delle tre citazioni che aprono il volume, che aprono il cancello verso una cripta che non ha tempo, non ha reliquie… o forse ne ha ma non sono materiali, sono qualcosa di molto più antico; resta da stabilire quanto, e da dove si siano generate.

Torna Luca Giribone, lo scrittore della “lucida” allucinazione, con TRYTE. Dovrei dire che questo romanzo è il seguito di NEW YORK 1941. Forse…, se pronunciassi ciò mi sentirei in difetto e in imbarazzo.

Più che sfogliare pagine, leggere parole, dobbiamo espanderci; andare avanti nella storia uscendo dal nostro essere verso un “Tutto” misterioso che si maschera da “romanzetto”, volutamente.

Immaginate di trovarvi in un corridoio asettico, senza indicazioni su luogo e tempo, ai lati due file di porte; ogni ingresso non apre a un percorso ma vi fa rinascere, o nascere da capo, o per la prima volta. Quale il senso? Già la citazione iniziale vi deve far abbandonare la volontà di arrivare a una risposta univoca, a una trama pronta e chiusa. In questo libro tutto pare già conosciuto, e ricorda qualcosa che abbiamo letto, un film che abbiamo visto, una serie tv che a sua volta riprende fatti realmente accaduti. Chi è nato prima? In questo caso siamo sia l’uovo che la gallina.

Multiple storie che si vestono da noir, da poliziesco, da inchiesta; quando tutto viene stretto in un’aura fantascientifica che non è così tanto fantastica e futuristica, dato che riporta alle massime filosofiche che hanno sorpreso l’uomo dalla prima volta in cui ha guardato il cielo.

“Forse ho stuzzicato gli Yin e Yang dell’esistenza e della non esistenza, se mai essi hanno una consistenza, fino al punto di evocare i loro demoni, ed eccomi qui, tutti loro intorno, come una giuria chiamata a condannare i miei peccati.”

(Andrea Mainelli, scrittore, ex dio, condannato a morte)

CENNI SULLA TRAMA E STRUTTURA

Edito da Europa Edizioni, nel 2018, TRYTE appara subito un’opera più matura rispetto al precursore (ironico dire ciò), NEW YORK 1941. Ho apprezzato molto la pregevole introduzione ad opera del Generale Pasquale Muggeo, che dà risalto alla dimensione thriller del libro. Questa volta, la quarta di copertina è scritta magnificamente e orienta sufficientemente il lettore nella scelta.

In passato rimasi invischiata nella rete a strascico che vuole prender solo determinati tipi di specie definite. Qui non c’è un solo genere, perché alla fine ciò che tutto riunisce è altro, ma lo capirete solo nelle ultimissime pagine.

Come nel volume precedente, troviamo capitoli che sono persone, personaggi con tutto ciò che essi vivono, vedono e raccontano in prima persona; abbiamo poi i turni del narratore… ed ecco il ritorno dei corsivi che marcano una citazione, ma ciò che pare riportato per la forma grafica è un segnale: cosa è reale, cosa è creato, cosa è parola di altri, pensiero di uno, finzione?

In NEW YORK un’allucinazione apre al lettore, incastra il protagonista, non si rivela per ciò che realmente è. Qui la sensazione ha una spiegazione perché chi la subisce sta subendo inenarrabili torture. Lo scrittore Andrea Mainelli è fuggito dalla Capitale, ma ciò non è bastato. Il suo “romanzetto” è alle stampe: un noir che pare fare il verso a uno scandalo italiano. Il corrotto Sindaco di Roma, Spirati, è una divinità dai mille occhi e dalle infinite braccia. Andrea si deve sacrificare, dopotutto lo sapeva. La vita dello scrittore pare niente rispetto al meccanismo innescato e che continuerà autonomamente grazie all’editor e amante di Andrea, Elena; e ad altri personaggi… che sono qui e ora? No, non tutti.

È chiaro che NEW YORK e TRYTE bisogna caricarseli insieme. Se vi dicessi altro vi svelerei troppo; tecnicamente non potrebbe neanche essere uno spoiler, un’anticipazione. È anche vero che un’indagine c’è, quindi chi è affamato di verità e intrighi deve godersi poliziotti, investigazioni: insomma tutti i crismi di uno dei generi che in questo romanzo di “non genere” sono inseriti, e gli amanti del giallo metropolitano potranno gustarsi.

 Un cerchio si chiude, ma in un moto circolare perpetuo, come ad esempio viene immaginato il ciclo della vita, delle stagioni, della natura: inizio e fine si confondono perché il movimento necessario delle cose non si ferma mai; anche se tanti soffrono, muoiono (o rinascono, almeno qui, e per certe filosofie), ma magari non è tutto una tragedia… la consapevolezza data a qualcuno sarà il regalo finale dell’autore, dell’autore “vero” e reale.

La storia che andiamo a leggere ha del quotidiano, dell’insopportabile, del crudo; porta poi ai miei personaggi preferiti: quelli lontani di qualche decennio, fino al 1941, anzi adesso qualche anno più tardi.

Il mondo elettronico, futuristico, fa l’occhiolino anche da alcuni ricordi che un certo personaggio non dovrebbe avere; dato che riguardano nomi famosissimi che però ancora non esistono, cronologicamente.

Ritroviamo il nostro amato INFORMATORE; si aggiunge un PROGRAMMATORE dal passato doloroso che si ribella a una falsa gratitudine che diventa prigione. La scelta… la rosa di decisioni si divide in obblighi dall’alto e in scelte consapevoli. Come ogni evoluzione, come ogni generazione, qualcosa cade o si rompe per far fuoriuscire ciò che inizia il suo cammino di vita.

Ci sarà un altro nome in codice, perché qui c’è molto dietro quasi ogni cosa.

Sono felice di aver inteso completamente quel “Forse…” campeggiante nel titolo del volume precedente: pensavo fosse il vezzo dispettoso di un autore che si diverte a giocare col tempo; se leggerete questa coppia di libri mi direte se avevo ragione.

ANALISI E CONSIDERAZIONI

Suburra, Matrix… il noir. Vi piace ciò che ho citato? Bene. Qui troverete un po' di tutto, per fare il verso? Beh… sì, l’idea è quella. L’intento però sta nel gioco del celamento finalizzato allo svelamento di verità più grandi. Pesantezza filosofica? Non proprio. Le riflessioni sono tante, ma uno scrittore è pur sempre un sognatore che, un giorno, ha iniziato a sentir qualcosa di strano nel petto guardando il cielo come quei primi uomini che vi ho sopra citato.

“Ed ecco la magia. Quando un’illusione ottica prende vita, ogni volta che si fissa troppo a lungo una porzione di spazio, mescola e unifica le forme, le confonde rendendole luminose, quasi scintillanti, e alla fine la fantasia afferra le redini delineando un quadro coerente.

L’ispirazione.

La storia.

Fu allora che compresi di voler diventare uno scrittore. Non per qualche tipo di illuminazione divina o per la consapevolezza reale o presunta di avere cose fondamentali da dire, ma per la coscienza del fatto che esistevano storie.”

(Dei ricordi d’infanzia di Andrea Mainelli, il personaggio di Tryte, colui che muore subito, mentre “qualcuno” gli sopravvive)

La lettura del romanzo non è facile, e c’è una dose di accanimento di Giribone sul povero Andrea, e non solo… ma devo dire che l’occhio per occhio dente per dente che l’autore perpetra in vece di Frank è assolutamente giusto, coerente.

Usciamo da NEW YORK con un dio che pare assoluto, in TRYTE il dio muore subito… ma per lasciar spazio a nuovi decisionisti, e governatori di sé stessi, che preferisco. Alla fine, credo che in questa riflessione metaletteraria e metafisica ci sia un vero demiurgo: Luca Giribone. Il nostro autore sa giocare bene le sue carte, ci invita a riflessioni profonde e ad avventure crude, a consapevolezze magari non necessarie per noi. Noi siamo lettori, e badate che lui i lettori li sa coccolare. Luca è un personaggio sopra le righe che ha pensieri forti, convinzioni personali inattaccabili, anche se gli piace generare in noi il dubbio. Frank siamo noi, e dopotutto Giribone mostra un certo amore per il giornalista incasinato Frank, ne sono convinta.

Qui abbiamo un libro congeniato per il successo, per rapire, per essere diverso. Ci riesce? Questo lo deve decidere ogni incarnazione che il libro dovrà intraprendere nel suo Karma. Alla fine, è questo che ci hai detto, Luca. Se vi piace arrovellarvi il cervello, se amate la fantascienza o semplicemente apprezzate la narrativa ipercontemporanea, ossia frutto della generazione che si annoia facilmente e vuole esser presa per il collo, e anche un po' in giro… ma in modo consapevole e rispettoso del sano diritto del lettore a divertirsi ed evadere, ecco che questo libro fa per voi. In merito a questo mi vengono alla mente le dolci parole che Giribone inserisce nei suoi ringraziamenti:

“A voi che avete voluto partecipare a questo gioco, a questa voglia di deviare dalla strada maestra per sfrecciare, fra terra e cielo, come un bimbo che si lascia andare a cavallo di una bicicletta in mezzo all’erba, lieto e felice”.

Luca non è così “duro” come sembra; dopotutto una divertente corsa sfrenata è pur sempre insidiosa. Si può cadere, poi sta a noi non prenderci troppo sul serio e goderci anche il capitombolo. Io l’ho fatto, perché con questa lettura esco dal mio solito territorio; però adesso ci ritorno… perché l’esplorazione serve per sbirciare, raccogliere dati ed esperienze, poi abbiamo pur sempre voglia di un territorio adatto a noi, che non è detto debba cambiare per forza. 

Grazie Luca per avermi dato l’opportunità di leggere i tuoi romanzi.


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martedì 17 novembre 2020

FINCHÉ IL CAFFÈ È CALDO di TOSHIKAZU KAWAGUCHI

UNA RIFLESSIONE SUL VIVERE IL PROPRIO TEMPO

Ph Francesca Lucidi

L’autore nasce nel 1971 ad Osaka, in Giappone; lavora come sceneggiatore e regista. Con il suo romanzo Finché il caffè è caldo vince il Suginami Drama Festival, ed è da ricordare che stiamo parlando di un’opera prima.

In Giappone, il romanzo diventa in breve tempo un caso editoriale vendendo oltre un milione di copie. Uscendo dai suoi confini d’origine, questa storia fantastica di storie assolutamente umane e vicine quasi a tutti conquista il resto del mondo.

CENNI SULLA TRAMA E STRUTTURA

C’era una volta, anzi molte volte in tempi diversi, un caffè centenario giapponese. Come un anziano, saggio e misterioso personaggio, questo luogo ha una sua identità, un suo carattere, delle sue regole… e si incontra con chi cerca la sua auspicale saggezza o facoltà rivelatrice. Questo perché? Il caffè permette alle persone di viaggiare nel tempo, tramite una sola sedia, seguendo rigidissime regole; il luogo ne ha viste di vite e di persone, proprio come un individuo che abbia avuto l’occasione di ascoltare e incontrare tanta gente, magari non per volontà ma perché è al mondo da molto tempo e ha la maledizione e la benedizione di un dono.

Il caffè non ha un nome, per il lettore, anche perché un nome ce l’ha ma viene celato dietro ai ricordi di alcuni personaggi che citano i versi di una canzoncina.

Tutto si svolge in presenza dentro al caffè, mentre i luoghi esterni prendono vita specialmente da rimembranze, accelerazioni e rallentamenti del tempo della storia attraverso una narrazione che sottostà alle regole come chi compie il rito del caffè. Il narratore pare empatico e freddo allo stesso tempo, questo perché la ritualità è il peso maggiore del romanzo. Alla fine, ci rendiamo conto che l’emozione e la comprensione dell’altro, dei personaggi e delle situazioni, avviene tramite i dialoghi e la nostra capacità di cogliere i vissuti presentati; se riusciamo a toglierci l’ansia del controllo e delle domande, così come devono fare i protagonisti.

L’intera storia, che comprende la possibilità di viaggiare nel tempo, seguendo un rito, sottostando a regole, riuscendo a scambiarsi di posto con un fantasma, facendosi venire la nausea dovendosi ossessionare per ogni segnale proveniente da una tazza di caffè, fa da cornice a tante altre storie che ruotano intorno a quel tavolo “magico”. È contemplata una maledizione che punisce chi non rispetta i tempi di chi occupa il posto, è assicurata la perdita del proprio essere se si indugia quando non si deve. Tutti sanno cosa può succedere in quel caffè, anche i giornali ne scrivono; in realtà, non c’è la fila per entrare… SE VAI NEL PASSATO IL PRESENTE NON CAMBIERÀ.  A questo punto pare inutile tentare, rischiare: tutti vorrebbero una facile risoluzione a rimpianti, errori del passato; altrettanti vorrebbero riuscire a dire ciò che non hanno pronunciato per milioni di motivi che sottostanno, in fine, alle leggi dell’orgoglio, dell’egoismo, e dell’eterno allenamento umano alla procrastinazione e al celamento. Parliamo sempre troppo poco e spesse volte senza dire quello che realmente pensiamo. Abbiamo paura del rifiuto e perdiamo occasioni e gioie restando nell’anticamera della nostra vita. Il vivere saggio dovrebbe essere un equilibrio dinamico tra coraggio e prudenza, tra regole e colpi di testa. In quel caffè è così che ci si ritrova ad agire, per forza di cose.

Ok, ripetiamo che il caffè è lì da più di cento anni, è piccolo e perennemente avvolto in una atmosfera color seppia; non vi sono maghi e streghe ma personaggi normali e fallibili, tra cui una cameriera poco socievole che fa da chaperon a coloro che si siedono su quella sedia. Il posto preposto per il viaggio nel tempo è occupato da un fantasma, devi aspettare che questa parvenza (in realtà fin troppo corporea) si alzi. Verrete a sapere che anche i fantasmi vanno in bagno. Bisogna avere una certa facoltà di dominio delle emozioni e della memoria: puoi incontrare solo persone entrate nel caffè, non puoi cambiare il presente, non ti puoi alzare… e devi controllare la temperatura del caffè, servito da una piccola caraffa d’argento in una tazza bianca. È stabilito che il caffè venga bevuto tutto, ma prima che si raffreddi. Cosa succede se non rispetti una delle prescrizioni? Ti verrà detto ma non vorresti sperimentarlo. La migliore delle conseguenze è l’essere riportato bruscamente nel presente: ne rimarresti con un terribile amaro in bocca anche perché avrai una certa risposta se chiederai di volerlo rifare.

Tutto sembra privo di senso. In realtà la cornice è il pretesto per arrivare al senso, il succo è disponibile per essere gustato solo dopo che siamo stati inermi spettatori di innumerevoli dolori, sfortune, tragedie, impotenti sorti.

All’inizio dovrete stare attenti a un primo magico talismano di verità, messo lì per un personaggio forse superficiale, e che al momento non credo abbia colto il peso di quelle parole… dato che tornerà.

Quasi alla fine arriva il vero carattere del narratore: saggistico, burlesco perché mascherato da semplice romanziere, filosofo; duro insegnante della verità di una vita non facile; sapiente analista della psicologia, e dei trabocchetti cognitivi dell’uomo contemporaneo così certo di sé stesso dietro un’insicurezza che non comprende la fallibilità.

L’articolo del giornale recitava così:

“In fin dei conti, che uno torni nel passato o viaggi nel futuro, il presente non cambia comunque. E allora sorge spontanea la domanda: che senso ha quella sedia?”

Che senso ha questo libro? Beh, sedia e libro una cosa la fanno… per scoprirlo dovrete aspettare che nelle ultime battute un personaggio tutto d’un pezzo si sbottoni e vi faccia comprendere una regola non scritta, che parla del vero veicolo magico del rito.

AVVERTENZE, POSOLOGIA E CONTROINDICAZIONI (fare solo una “recensione” non basta!)

Il volume si presenta in formato flessibile e confortante: colori pastello, allegri, vivaci; un’aletta che presenta una trama accattivante con elementi fiabeschi, moraleggianti, educativi e motivanti.

Ciò che si propone questa lettura è di far generare un certo tipo di pensiero costruttivo e critico sul nostro autogoverno del presente, a scapito del rimuginare sterile sul passato, gli errori, i rimpianti. Il senso di responsabilità dovrebbe generarsi già dopo il primo racconto nel racconto.

Per arrivare a sopportare l’annebbiamento dovuto alla foschia del caffè bollente dovremo sorbirci il ripetersi ossessivo delle regole, dei gesti e persino di alcune abitudini che rallentano la narrazione facendo avvertire quel sentore di smarrimento che caratterizza l’intera assunzione del libro.

Arrivare alla fine della somministrazione può provare disgusto verso il sapore del caffè per chi è abituato a berne, e nausea in chi non preferisce questo tipo di bevanda. Verranno versati inquantificabili quantità di caffè e lacrime.

Gli eccipienti scelti partono dai personaggi: Fumiko, una donna in carriera abituata al controllo talmente concentrata su sé stessa da non aver inteso la visione delle realtà e del rapporto sentimentale del suo partner; Katzu, la cameriera asociale che vive versando caffè per il rito e disegnando in solitudine a casa; Hirai, una sprezzante giovane che ha sfidato da famiglia per un egoismo che guadagnerà una punizione che cambierà tutto; Nagare, il proprietario del caffè dalla stazza imponente e la cura per ogni ingrediente acquistato per i piatti che cucina, e una vera ossessione per la miscela del caffè che non ammette repliche; la Donna in bianco, un fantasma condannato nel ripetersi dei suoi gesti perché in un determinato momento non ha saputo coordinare proprio questi; Kei, una creatura piena di saggezza del vivere a cui ci affezioneremo… e per la quale dovremo raccogliere i pezzi del nostro cuore. Al gruppo si uniscono una coppia di coniugi, Fusagi e Kotake: anche loro, come gli altri, si troveranno immersi nel dolore di una vita difficilissima e di sentimenti frantumati da un evento che cambierà tutto, o forse rischia di “cancellare” TUTTO.

Il conservante che promette di salvaguardare i protagonisti è un senso di comunità che rende il caffè una famiglia che saprà affrontare le verità, la tragedia e le responsabilità… soprattutto quelle derivanti dalle scelte.

La capsula che riesce a mantenere stabili questi instabili elementi è il Giappone, con il modus tipico di alcuni romanzi nipponici e il confronto stretto tra tradizioni ancestrali e una modernità che pare rendere tutti freddi e distaccati, fino a che non tocca tirare le fila di una vita che deve uscire dall’illusione della perfezione per confrontarsi con le luci e le ombre che la storia del mondo non smette mai di generare.

Questo percorso non è facile, se volete una lettura leggera non fa per voi; se siete sensibili e aperti avrete la straordinaria opportunità di riflettere sulla gestione del tempo, delle decisioni e, in fine, della scelta. Però soffrirete. Cercate di tenere duro e di riuscire ad andar dietro al narratore che qualche risultato lo dissemina anche prima della conclusione. Potreste non finire la lettura o magari vi ritroverete a prendere molti appunti. Di certo per un po' avrete nella testa le regole del “rito” anche mentre svuotate la lavatrice o portate a spasso il cane. Il caffè non avrà più lo stesso sapore, come anche la vita.

Se non bisogna far freddare il contenuto della tazza bianca… proviamo a generalizzare questa immagine e a capire quanto ogni istante della vita vada gustato finché è caldo, ma a piccoli sorsi.

Vi starete chiedendo se i personaggi riusciranno a farsi uscire di bocca le parole non dette, molto meno di quello che ci potremmo augurare. Il personaggio che riesce ad avere davvero uno svelamento sconvolgente è Kei: il narratore con lei ha forse perso nella coerenza di meccanismi stretti che non cambiano il presente, alla fine. In realtà ogni status dei personaggi cambierà, quasi tutti per effetto di nuove consapevolezze, solo Kei per un bonus dato arbitrariamente.

Vi voglio lasciare la vera chiave di questa lettura; della ripetizione delle regole del rito non avete tanto bisogno perché alla fine non ve le leverete più dalla testa, anche solo dopo aver letto quarta di copertina e aletta.

L’effetto auspicato passa da qui:

“Le persone non vedono le cose e non sentono le cose nella maniera oggettiva che credono. A distorcere le informazioni visive e uditive che entrano nel cervello intervengono i pensieri, le circostanze, le conoscenze, la consapevolezza e un’infinità di altri meccanismi cerebrali.”

Buona lettura! Con cautela.

 

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venerdì 13 novembre 2020

CANE NERO di LEVI PINFOLD

 UN ALLEGORICO ALBO ILLUSTRATO  CONTRO UN NEMICO POTENTE

Ph Francesca Lucidi

BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Levi Pinfold è nato nella foresta di Dean, un altopiano del Gloucestershire, in Inghilterra.

Da subito sente un legame con la lettura, sfogata su libri e fumetti. Da bambino frequenta un corso di acquerello, tecnica che lo affianca ancora oggi nell’espressione artistica.

Tra i suoi punti di riferimento spicca anche il nome di Dave McKean, artista straordinario che affianca lo scrittore Neil Gaiman in numerose creazioni fin dagli anni Ottanta.

Levi studia illustrazione presso lo University College di Folmouth. Si laurea nel 2006 e inizia a lavorare come illustratore autonomo. Con il suo primo lavoro datato 2010, Django, vince il Booktrust Early Years Award. Nel 2011 esce Black Dog, che guadagna un grande successo di critica.

Attualmente, pare che Levi Pinfold lavori e viva in Australia.

CANE NERO

CHI E “COSA”

Pubblicato da Terre di Mezzo Editore, Cane Nero è un albo impeccabile. Innanzitutto, ha un pregio apprezzabile: i risguardi sono illustrati e fanno da inchino invitante e professionale verso la dimensione immaginifica e simbolica cui siamo chiamati. Lo sfruttamento dei risguardi ripaga il costo materiale dell’operazione, dato che in una narrazione per immagini bisogna da subito coinvolgere i sensi preposti alla fruizione. In questo caso viene ripetuta l’illustrazione della copertina, ma in “apertura”; quella nebbia, che circonda una bella casina accogliente e colorata, inizia già a introdurre le visioni ingannevoli che possono scaturire da una vista offuscata da condizioni non proprio eccellenti. Poi, se ci si mettono gli scherzi della percezione e dell’elaborazione mentale, un sassolino può proiettare una montagna spaventosa, soprattutto se il vedente è richiuso e guarda da lontano, e si sparge un messaggio voce dopo voce, amplificando effetti poco edificanti, come spesso accade.

Questo libro è dedicato alle famiglie, e parla di una famiglia: ciò è apertamente dichiarato nei risguardi. In quella casina rosa, ogni membro si sveglia. Uno ad uno ci si prepara alle normali abitudini mattutine: la colazione, l’abituare la vista alla veglia, il lavarsi i denti; ma lì fuori qualcosa pare in agguato. Un enorme cane nero imperversa all’esterno dell’abitazione, ognuno lo scorge fuori dalla finestra e si appresta ad annunciare agli altri la scoperta, con una crescente tensione che si ingigantisce attraverso il susseguirsi delle descrizioni ricche di similitudini. Il passaparola sembra peggiorare il terrore, dal papà alla mamma ai due figli più grandi; qualcuno manca all’appello… la più piccola della famiglia: Small, sì, così si chiama.

Small è fuori la porta armata di impermeabilino giallo e stivaletti verdi. Tutti gli altri cercano di ricondurla al sicuro, ottenebrati dalla paura e dallo sgomento. Un momento, ho dimenticato di dirvi che il cognome di famiglia è Hope, Speranza.

Essì, la Speranza si chiude in casa, paralizzata da ciò che non si comprende, e da ciò che pare troppo grande per essere affrontato; mentre qualcosa di “piccolo” si mette a sfidare l’enorme nero animale. Small inizia a percorrere ponti e parchi giochi, infilandosi in anfratti sempre più ristretti: questi percorsi iniziano come a filtrare la spaventosa parvenza che per correre dietro a Small è costretta a rimpicciolirsi, gradualmente. Il coraggioso percorso dell’affrontare della bimba riconduce alla porta di casa… e qualcosa di inaspettato accade.

ANALISI E CONSIDERAZIONI

Uno dei maggiori esponenti mondiali della Programmazione Neurolinguistica, Robert Dilts, identifica le credenze come “forme di pensiero che plasmano la nostra mente”; ciò è evidente nelle reazioni dei personaggi. La famiglia Hope contribuisce a ingigantire un’immagine attraverso una narrazione fatta di figure sempre più grandi e spaventose, Small affronta il Cane Nero e lima la credenza attraverso un percorso che pare simboleggiare la forza della coscienza e la lucidità di un’autoefficacia inarrestabile; in questo caso il Cane Nero non può che diventare più piccolo.

Le raffigurazioni dei volti rappresentano magnificamente le reazioni dei partecipanti alla vicenda. Small quasi non si scorge nella sua dimensione ridotta e il suo vorticoso agire; il viso è sicuro e impassibile, le parole ferme e insolenti:

“Se vuoi mangiarmi devi prima prendermi!”

“Se mi vuoi seguire ti devi rimpicciolire”

“Tu hai il PANCIONE, io sono elastica,

per prendermi devi fare ginnastica!”

Fratello, sorella e genitori, invece, vengono disegnati con le espressioni tipiche della paura.

Ph Francesca Lucidi

La paura fa parte delle emozioni primarie identificate dallo psicologo americano Ekman: queste emozioni sono universali in tutto il mondo nel modo in cui vengono mostrate ed esternate attraverso la mimica facciale. Sì, dall’Africa ai ghiacci il disgusto, la paura, la rabbia, la tristezza, la gioia, la sorpresa e il disprezzo mostrano lo stesso volto. 

Ph Francesca Lucidi

Ciò sta a dimostrare quanto l’illustrazione sia una modalità potente di universalizzazione, riconoscimento ed elaborazione delle emozioni. Per questo un albo illustrato è così prezioso per i piccoli e così accogliente e curativo per gli adulti sempre più distaccati dal proprio sentire.

Alla fine, una compagnia inusitata riuscirà a integrarsi nella “famiglia Speranza”.

“Siamo stati sciocchi” disse Adeline. “Solo Small ha saputo cosa fare.”

Perché se una cosa la guardi bene…

Buona lettura!

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Grazie!

 

 

domenica 8 novembre 2020

IL GRILLO DEL FOCOLARE di Charles Dickens

EDIZIONE A CURA DI ENRICO DE LUCA
PER CARAVAGGIO EDITORE

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Ancor prima del Trillo Primo, quello che succedette al borbottio del ramino: sì, perché deve esser chiaro che fu quest’ultimo a cominciare, Il Grillo prese fiato durante un viaggio di Dickens in Italia. Al suo ritorno, lo scrittore confidò all’amico e biografo Forster di voler fondare un periodico: un solo foglio settimanale che contenesse racconti, osservazioni su libri e teatri. Prestando ascolto, le parole di Dickens affermarono: “Dominerà sempre l’ardente, cordiale, generosa, allegra e splendida allusione al domestico focolare e alla famiglia. Lo intitolerei IL GRILLO! Allegra creatura che garrisce sul focolare”.

Alla fine il periodico non venne alla luce e il grillo saltò nell’abitazione dei coniugi Peerybingle: nacque The Cricket on the Hearth, novella facente parte del gruppo dei Racconti di Natale che uscirono negli anni quaranta del XIX secolo (Un Canto di Natale nel 1843, Le Campane nel 1844, il Grillo del Focolare nel 1845, La Battaglia della vita nel 1846; Lo Stregato o Il Patto col fantasma nel 1848). In seguito, le novelle vennero pubblicate in un unico volume. In Italia, la prima traduzione dell’autore venne dedicata proprio ai Racconti di Natale.

La Caravaggio si ripropone di presentare autenticamente lo stile originario dell’autore, il quale ha subito nel tempo numerose epurazioni e normalizzazioni che ne hanno appiattito il guizzo linguistico e stilistico.

La bellezza di questo volume non sta tanto nella trama, assai semplice come una “favola domestica”, e infatti così è definito nel sottotitolo, ma soprattutto per la scrittura non scorrevole, saltellante e vivace come il verde ospite, che nasconde in sé una magia potente.

Ora mettiamoci ad attendere, perché un’attesa apre le porte di un casolare umile: si alza il sipario su una commedia sentimentale, tragicomica, viva nei gesti… dal più minuto al più eclatante.

CENNI SULLA TRAMA

Non pensate sia un racconto che si snoda tra le strade addobbate per il Natale, ci troviamo alla fine del primo mese dell’anno. Tutto è gelo, nebbia. Due piccoli zoccoli arrancano nella fanghiglia per riempire solertemente il secchio dell’acqua. Una piccola donna attende. La questione spinosa è quella rivolta al primato di chi cominciò. Il narratore si avverte come una vera e propria voce esterna a un palcoscenico che ha pochi scenari, definiti, caratterizzati e assolutamente sufficienti all’economia della storia.

È stato il ramino a cominciare, ossia il calderone che in passato bolliva perpetuamente nei focolari: per attendere nascite, per dar vita a una tazza di tea fumante, per accogliere qualche patata. In una piccola casa il ramino non collabora e una donna paffuta e graziosa si spazientisce; l’orologio olandese si unisce al coro… ma qui è il Grillo a segnare il tempo, e a dirigere, a fare da cassa di risonanza ai cuori duri e a quelli teneri e sinceri.

Questa è una storia domestica, di una moglie che aspetta un marito che di mestiere fa il corriere: un carro contiene aspettative e tante storie; le persone conoscono benissimo il buono e semplice John Peerybingle, e anche il cane Boxer, sempre pronto a salutare, annunciare e indagare… e soprattutto a capir tutto prima degli altri.

È una sera particolare, oltre ad esser particolarmente fredda fino a far letteralmente gelare il viso di John, il carico porta tre novità, attese, e anche meno attese perché non auspicabili o ritenute difficilmente esperibili. Il carico porta un pacchetto prezioso, tanto atteso da un altro personaggio, abile a farci sciogliere il muscolo cardiaco alla vista del suo dolce e triste guardare la figlia cieca. Stiamo parlando di Caleb Plummer, padre di Bertha; cosa è disposto a fare un padre per la felicità di una sfortunata figlia?

Il Grillo una volta parlò a Caleb:  

“Ma anch’egli aveva un Grillo nel suo Focolare, e ascoltando tristemente la sua musica quando la Bimba Cieca senza madre era molto piccola, quello Spirito gli aveva dato coraggio con il pensiero che persino la grande privazione di lei potesse essere tramutata quasi in una benedizione […]”

Caleb fa l’impossibile, soprattutto perché oltre a essere un costruttore di giocattoli è un creatore di realtà, di persone e bontà e bellezze che non esistono. Incredibile come l’amore sia generatore in tutte le sue manifestazioni. Leggendo la novella, potrete commuovervi scoprendo ciò che non c’è ma che qualcuno sente e vive dalla nascita.

I Grilli sono un po' in tutte le case, anche se qualcuno non li ascolta ma vi si accanisce, li schiaccia. Questo ci riporta a un’altra delle sorprese portate da John: una enorme scatola contenente una torta nuziale. Lieto evento? Niente di più sbagliato dato che non si riesce neanche a pronunciare il nome dello “sposo”, e Mary Peerybingle si sente quasi mancare. Il Capo, il Padrone di Caleb, il giocattolaio Tackelton, è colui che sta per sposare una donna, anzi una giovane e bella fanciulla di nome May Fielding, vecchia compagna di scuola di Mary.

l’idea di qualunque essere umano nelle mani Tackelton può certo far rabbrividire, se si pensa che quell’uomo sa solo creare giocattoli mostruosi per il puro piacere di torturare il prossimo. Un vero topos dickensiano: avaro, brutto, comico nelle sue convinzioni e massime che circondano un animo arido perché avvinto dalla solitudine e dall’incapacità di comunicare con gli altri, con sé stesso. Sospetto e macchinazioni… le armi di chi non conosce amore nel proprio cuore.

“Tackelton il giocattolaio, quasi generalmente noto come Gruff e Tackelton — perché quella era la ditta, sebbene Gruff fosse stato rilevato da molto tempo, lasciando nella società solo il nome, e, come dice qualcuno, la natura, secondo il suo significato nel Dizionario[1]”.

Le descrizioni sul Giocattolaio non lasciano dubbi sulla natura del suo animo:

“Non assomigliava molto a uno sposo, mentre stava in piedi nella cucina del Corriere, con una smorfia sulla faccia asciutta e una torsione del capo, e il cappello tirato sulla gobba del naso, e le mani ficcate in giù in fondo alle tasche, e tutto il suo essere sarcastico e malintenzionato facente capolino da un angoletto di un piccolo occhio, come fosse l’essenza concentrata di uno stormo di corvi.”

Proprio quell’occhio si posa sospettoso su l’ultimo carico misterioso della serata: un viandante sordo, silenzioso, con capelli bianchi e un viso sfuggente. L’uomo par gentile e chiede ricovero per la notte. I corvi sorvolano sul viandante e su Mary, che pare a disagio, molto a disagio.

Qualcosa accadrà, ma non prima che Tackelton si autoinviti alla consueta merenda che i Peerybingle organizzano periodicamente nell’umile casa di Caleb, che per la giovane e candida cieca è una reggia. Mistificazioni, bugie e sospetti. Chi male vive proietta un’ombra su tutto ciò che vede. Qui si parla di cattivi consiglieri, di cose giuste da fare nonostante i rischi…

Purtroppo, i malintesi la faranno da padroni, tra esilaranti quadretti e scenette che hanno per protagonisti le sprezzanti offensive massime e recriminazioni del Giocattolaio, i poetici slanci di Bertha; da non dimenticare la sbadata bambinaia Tilly Slowboy, che con tanto amore si prende cura del pupo dei Perrybingle, anche se ogni spigolo pare pronto ad accogliere il capo del lattante. E non perdetevi i discorsi della querula voce della madre di May: alla fine tutti i personaggi si troveranno a quella merenda, l’inizio dell’inizio e della fine, prima di arrivare alla vera conclusione e risoluzione.

Tackelton è ossessionato dalla sua età matura, rispetto a quella di May; dovete sapere che anche John e Mary hanno una grande differenza d’età… ma nella casa dove Il Grillo ha trovato ricovero, il canto ha dato un benvenuto rassicurante per una coppia che pare perfetta perché vive nell’accettazione delle reciproche differenze, arricchendosi nella semplicità dei ruoli ricoperti con la solerzia che i bambini adoperano quando giocano a far i grandi.

Il Grillo, però, sta a guardare. I Grilli son spiriti potenti, sono fate… appaiono quando devono, ma le risposte devono venire dal cuore di chi è coinvolto in visioni che sanno mettere alla prova, non svelare, non ancora.

Secondo voi uno stormo di corvi può fermarsi a banchettare allegramente tra ghiandaie, colombi e pettirossi? Potrebbe…

ANALISI E CONSIDERAZIONI

L’edizione della Caravaggio, curata da Enrico De Luca, ci restituisce uno stile da affrontare lentamente, anche se a volte corriamo per andar dietro a periodi che paiono indovinelli. Finte reticenze, cose da non dire che vengono assolutamente dette, dette tutte; nomignoli e descrizioni minuziose. Un voyeurismo puro e simpatico, tra le moine di Mary e l’impacciato modo di comunicare di John. Una maniacale attenzione per i dettagli, che porta ogni cosa ad avere la sua importanza e la sua voce. Non è una lettura facile perché per comprenderne la bellezza bisogna scendere a patti con un testo che si abbellisce come una ghirlanda decorativa assai carica: bella, sì, ma carica. La storia, però, a perdifiato tiene incollati, avvinti.

Rispetto ad altre traduzioni, troviamo alcune scelte coraggiose: Mary, viene definita “Piccina” non “Dot”, come spesso si può leggere in differenti edizioni. Dot sta per punto, e questo termine trova la sua ragion d’essere nel testo. Ce lo dice John, riferendosi a Mary come a un “punto e a capo”, guardando il loro figliolo. Io sono affezionata all’espressione inglese, ma è una mia personale preferenza.

La scrittura di Dickens dirige prossemica, cinetica e ogni significato come un regista preciso, all’avanguardia. Si prendono pochi personaggi, un tema vecchio come il mondo, persone non belle e non speciali: l’insieme è una sinfonia che si eleva forte e chiara grazie a un’orchestrazione di sentimenti e cose piccole piccole che creano un’epica rappresentazione della vita.

 La morale? Potete respirarla dal primo scalpiccio degli zoccoletti di Mary.

Piccina si guadagna una di quelle appassionate descrizioni minuziose che l’autore spesso dedica alle rotonde donne che abitano i suoi racconti. Descrizioni assolutamente lusinghiere.

Dalla novella si esce con un sospiro di sollievo, e con la voglia di mettere su il tea e godersi in silenzio il beneficio di avere una famiglia, o anche solo una mente capace di creare castelli da una baracca.

Alla fine del volume potete ammirare le riproduzioni di due antiche illustrazioni: sono stata stupita di vedere come ricalcassero ciò che avevo immaginato; per scorgerle dovrete decidere di leggere questa piccola edizione, che dietro ha un lavoro lungo e meticoloso.

 

 



[1] Gruff significa “burbero”


giovedì 5 novembre 2020

IL DIAVOLO SUL PONTE


Una Ballata

Testo di Valentina Lini

Illustrazioni di Alessia Ferretti

 

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE

Edito da Balena Gobba Edizioni nel 2020, questo albo illustrato è un’opera d’arte, è un retaggio, è un prezioso tesoro di tradizione e raffinatezza; si fruisce avvertendo un tocco di oscuro fascino.

Il volume ha un formato quasi quadrato, la copertina rigida e nera ci accoglie in un catalogo di esperienze visive, sensoriali, intense. Resti stupito anche solo guardando la copertina: è un dossier d’arte su Chagall? No, è un invito a sedersi alla luce di un fuoco, perché le fiamme ricordano l’inferno ma paiono saperci proteggere quando una storia inizia a bussare alla porta per aguzzare il cervello e far tremare la seggiola.

Ci troviamo a Venezia, dove il noto ponte di Torcello promette di rubarti l’anima… la notte del 24 dicembre.

CENNI STORICI

Torcello è una piccola isola della laguna nord di Venezia, fu sede vescovile dal secolo VII al secolo XVII. In passato fu noto per i commerci marittimi e l’industria della lana. Rispetto all’antichità, ora conta una stretta cerchia di abitanti.

Un’unica via principale attraversa l’Isola, seguendola si arriva al famoso Ponte del Diavolo, solo quest’ultimo e il Ponte Chiodo a Cannaregio mantengono la struttura originaria senza parapetto.

Il Ponte del Diavolo

Le origini paiono risalire al secolo XV, anche se alcuni studi hanno evidenziato fondazioni preesistenti riconducibili al XIII secolo. Oltre alla sua suggestiva bellezza, il Ponte offre numerosi interrogativi circa le origini del suo nome. Alcuni sostengono che il ponte portasse verso i palazzi di una nobile famiglia chiamata “Diavoli”, altri sostengono che la nobile casata si fosse solo guadagnata questo soprannome poco rassicurante; la motivazione che più ci affascina è, ovviamente, quella legata alla leggenda di un patto e di una sorta di maledizione che pare aleggi la notte di Natale.

LA LEGGENDA

La dominazione austriaca posò la sua mano su Venezia per lungo tempo, durante il XIX secolo. L’amore, si sa, non conosce confini e si dibatte sempre all’ombra dell’odio. Una giovane si innamora di un austriaco, ma la famiglia non approva. La sorte infierisce portando la morte all’uomo tanto amato dalla ragazza; diverse versioni vengono riportate riguardo questa morte, parrebbe anche che l’austriaco sia stato vittima di assassinio.

L’amore cerca sempre di soggiogare ogni altra forza, anche quella della morte. Dietro consiglio, chi dice di un amico di famiglia, chi di un’amica, l’innamorata si reca da una strega.

La strega fa un patto con il Diavolo: l’ufficiale austriaco in cambio di sette bambini, non svezzati ma battezzati. I tre si incontrano sulla laguna, la ragazza porge una moneta al Diavolo… che getta una chiave nell’acqua. Ecco che l’amato dalla morte ritorna e sta sul ponte, in attesa della sua bella.

La strega deve mantenere il suo patto. Durante la notte qualcosa accade: chi dice “ammazzata”, chi dice “incendio”; il Diavolo non ha avuto le sue anime. Così, da quella notte, camuffato da gatto nero, il Diavolo sta sul Ponte, la notte del 24 dicembre, in attesa della strega e del pagamento. Le anime che di lì passano potrebbero così finire per saldare il patto.

Sui due giovani c’è chi sussurra che son scomparsi.

IL PONTE DEL DIAVOLO

Una Ballata

Ph Francesca Lucidi

Prendere in mano una leggenda nota è rischioso, è come avere tra le dita una sfera di vetro unica nel suo genere: mille sono le sfaccettature, tutti vi si possono specchiare, maneggiarla troppo rischia di farla rompere. Qui le mani sono state sapienti, hanno filtrato l’oscurità e la storia per creare materici colori che incantano, come farebbe una magica cantilena.

Il testo balla come fiamma… è qualcosa che canta da sé, in strutture strofiche multiformi che guizzano attraverso le suggestioni sonore e le rime. Le parole diventano una voce, fatta delle tante voci che hanno sussurrato questa vicenda. Vien voglia di alzare la veste e cantare la storia di Isotta, del Diavolo, dell’Austriaco; e del Ponte e della Strega alla luce della luna. Qui ogni cosa pare poter essere toccata, grazie a uno stile grafico materico, pittorico. Sembra di guardare opere d’arte Medioevale, pare scorgere strane pitture rudimentali campeggianti in grotte dal santo nome; poi scorgi Goya, poi ti perdi nel simbolismo.

Una leggenda, nel suo passare di bocca in bocca, perde e acquista veli e orpelli. I punti più oscuri qui vengono lasciati all’oblio, o vengono raccontati scegliendo una versione delle tante. Ciò che fa la differenza è il moto di questo volume: è vorticoso grazie alle illustrazioni, ma anche nobile, composto, spirituale.

Le parole possono restar ben leggibili su uno sfondo chiaro, mentre illustrazioni passanti abbracciano le pagine. Altre volte, aperture prepotenti lasciano spazio a piccoli versi che danzano sull’onda di colori e forme ipnotiche.

Magistrale la rappresentazione del rito della strega, dove diversi momenti vengono resi nella stessa illustrazione con una moltiplicazione della protagonista che pare muoversi davanti ai nostri occhi. Ecco che avvertiamo una formula magica, e sentiamo l’aria spostarsi ai movimenti della gonna e degli strumenti della fattucchiera. 

Ph Francesca Lucidi

Poi un viso affascinante e affusolato, chi sarà? Ascoltare quell’elegante signore può costare assai caro… 

Ph Francesca Lucidi

È normale pensare alla notte della Vigilia come a un momento di presenze, di movimento sovrannaturale. La leggenda nacque mentre si affacciavano al mondo molti spettri natalizi. Ricordate Dickens, Jerome? Ne abbiamo già parlato, ma potrete ricercavi qui sul blog gli ectoplasmi di contenuti passati e non troppo lontani.

Alla fine, capirete perché di ballata si tratta: un tenebroso ritornello vi riporta all’inizio, perché accadrà, sì accadrà ancora!

Ph Francesca Lucidi

Amanti dell’arte, delle leggende, della magia… come non dirvi di regalarvi questo libro così pieno di personalità, così ben identificabile, di carattere. Io lo leggerò ad alta voce, e sono sicura che chi mi ascolterà non resterà indifferente. Sembra di vedere note che saltano nella penombra dell’imbrunire, e le forme saltano fuori dalla pagina per pregare, piangere, girare e girare.

Avete mai trovato una chiave in un corso d’acqua? Cosa mai avrà chiuso… o aperto.

Ringrazio la casa editrice per avermi dato la possibilità di avere questo libro così prezioso. Mi è piaciuto davvero molto.

 

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