mercoledì 16 settembre 2020

IL TRAGHETTATORE di William Peter Blatty

DAL CREATORE DE L'ESORCISTA 

UNA STORIA DI FANTASMI, UNA RIFLESSIONE SULL'ESSENZA DELLA MORTE

Ph. Francesca Lucidi
Ed. FAZI EDITORE 

CENNI BIOGRAFICI: VITA E CARRIERA DI WILLIAM PETER BLATTY

William Peter Blatty nasce il 7 gennaio del 1928 a New York City. È il quinto figlio di un’umile famiglia di immigrati libanesi. Sua madre Mary, fervente cattolica, si guadagna da vivere vendendo gelatine di frutta tra le strade di Manhattan.

A causa delle gravi condizioni economiche, la famiglia cambia spesso dimora, tra uno sfratto e l’altro.

William, grazie a una borsa di studio, frequenta la Scuola Preparatoria gesuita di Brooklyn. In seguito, inizia gli studi presso la Georgetown University; ottiene questa possibilità sempre tramite una borsa di studio. William si laurea in inglese nel 1950.

Gli studi continuano alla Georgetown, dove si iscrive a un Master in letteratura. Durante questo periodo si mantiene con i lavori più disparati; si ritrova anche a vendere aspirapolveri porta a porta.

Ottenuto il Master, William si arruola nell’Aeronautica Militare; in seguito si unisce all’USIA (United States Information Agency), un’agenzia di diplomazia pubblica.

Inizia a collaborare con diverse riveste, e a scrivere articoli umoristici.

Lavora come direttore delle pubbliche relazioni per la Loyola University di Los Angeles, e con mansione simile, in ambito comunicazione e pubblicità, per l’Università della California Meridionale.

Pubblica il primo libro nel 1960, Where way to Mecca, in cui parla del suo lavoro presso l’USIA anche in toni umoristici.

Nel 1961 vince diecimila dollari nello show di Groucho Marx You Bet Your Life. La vincita gli permette di dedicarsi completamente alla scrittura, non mantenendo altri lavori in modo stabile.

Inizia a scrivere fumetti che vengono apprezzati pur non raggiungendo un numero alto di vendite.

Cruciale è la collaborazione con il regista Blake Edwards: la prima sceneggiatura di successo è Uno sparo nel buio, il cui protagonista è Peter Sellers.

Negli anni Quaranta Blatty rimase particolarmente colpito da un oscuro fatto di cronaca inusuale: l’esorcismo di un quattordicenne del Maryland. La Chiesa impose il silenzio per paura di ripercussioni mediatiche e per evitare accuse di superstizione o arretratezza culturale. La storia permane nell’immaginario di Blatty e fornisce l’ispirazione per il suo grande successo letterario: L’esorcista. Siamo nel 1971, e il libro suscita un enorme scalpore. Il successo del romanzo porta alla versione cinematografica del 1973, con Blatty in veste di produttore e sceneggiatore, la regia è affidata a William Friedkin. La pellicola vince due Premi Oscar, su dieci candidature.

Il romanzo Legion, del 1983, è l’unico seguito ufficiale del romanzo del 1971; ne viene tratto un film dal titolo L’Esorcista III, nome scelto per riallacciarsi al precedente L’Esorcista II. La decisione viene presa dai produttori per creare una continuità. Blatty, dal canto suo, non ha però apprezzato il secondo capitolo della saga, che non ha ottenuto neanche un particolare successo.

Nel corso della sua vita, lo scrittore produce circa tredici romanzi; tra i quali troviamo Il Traghettatore, edito nel 2009.

William Peter Blatty muore il 12 gennaio del 2017 a 89 anni, nel Maryland.

 

IL TRAGHETTATORE

L’edizione presa in esame è edita dalla Fazi Editore e risale al 2012. La traduzione è di Cristiano Peddis.

Il romanzo è abbastanza breve, è forte, maschile e “americano”. La vita quotidiana raccontata è circondata di imprecazioni, arrivismo e appartamenti affacciati sul vuoto esistenziale e sul paesaggio brulicante o immobile, portatore di speranza o perdizione di Manhattan. La storia è horror, di un horror sovrannaturale ma anche tremendamente radicato nella vita reale. Una storia di fantasmi apparentemente nei canoni. La maggioranza dei personaggi ha tratti rudi e capricciosi; la restante umanità, meno insopportabile, è fatta da una manciata di presenze più pacate ma inquietanti.

Il tutto presenta diversi rimandi alla biografia dell’autore.

In questa storia si parla di morte e vita. Il terrore è mitigato da fiumi di alcol e da punti di vista cinici… a un certo punto si passa da una storia a tratti fastidiosa a una dimensione di tensione che non riesce ad affievolirsi neanche grazie all’umorismo martellante, sboccato e spregiudicato dell’autore.

TRAMA

New York, 1993 (circa). Joan Freeboard è un’agente immobiliare di successo.

Joan vive da sola, se non si contano due domestici che la donna tratta con rispetto e gentilezza, quasi con dolcezza; la cosa non è di poco conto contando che Joan è un’affarista senza scrupoli che vive secondo il motto “farcela o morire”.

Elsewhere è una vecchia e grande casa, situata su un’isola poco lontana da Manhattan. La magione è risalente agli anni Trenta, è bagnata dalle acque del fiume Hudson e, soprattutto, promette grossi guadagni… qualora Joan riuscisse a piazzarla. Il problema è che la casa ha una pessima fama, non per problemi strutturali.

La sfida di Elsewhere è la più grande prova della carriera di Joan. L’agente immobiliare è abituata a non lasciare nulla al caso, e di certo non è avvezza alla rinuncia, specie se si tratta di una grossa somma di denaro. Joan, ripetiamo, non lascia nulla al caso: una festa organizzata per venerdì, invitati importanti, specialmente uno. Lei è disposta a tutto pur di smascherare delle sciocche credenze che possano mettersi tra lei e una vendita.

Sono anni che non succede nulla in quella casa.

La casa fu costruita da un medico, uno psichiatra, il dottor Edward Quandt. L’erede Paul Quandt e la sua famiglia vagano in Europa in attesa di vendere la proprietà dalla fama sinistra. La storia di Elsewhere è macchiata da un omicidio e un suicidio, così dicono le voci. Il vecchio padrone era un uomo geloso: la moglie Riga, una zingara originaria della Romania pare alimentasse sospetti di adulterio.

La storia della casa viene raccontata a pezzi: prima un dossier tra le mani di Joan, poi due racconti sparsi nel corso della narrazione.

Joan. Sì Joan vuole andare a segno… nonostante uno strano sogno che ha la forma di una angelo di luce senza volto: vongole, piatto del giorno… parole sconnesse che la donna non vuole ricondurre a un avvertimento che sembra collegato all’affare di Elsewhere. L’agente immobiliare, però, ha un piano.

Ma “NON TUTTE LE EPIFANIE HANNO ORIGINE NELLA GRAZIA”.

Img Pixabay. Edited

Il piano sembra perfetto: un rapporto sessuale concesso di fretta, una bugia qua e una bugia là.

Alla fine, la donna riesce anche a vedere, da sola, con i suoi occhi Elsewhere. Quando si reca sull’isola il posto sembra bello e nessuno, fortunatamente, sembra fissarla dalla finestra. Il salone si mostra accogliente, una volta tolti i teli dai mobili.

Ecco che la squadra è decisa: Joan, la famosa sensitiva inglese Anna Trawley; lo psicologo esperto del paranormale Gabriel Case, dell’Università di New York; il migliore amico di Joan, il famoso scrittore Terry Dare. Tutti devono svolgere un ruolo, non totalmente consapevole, per permettere all’agente immobiliare di far “certificare” la totale normalità di Elsewhere.

Anna Trawley riflette nella sua adorabile casetta, mentre Joan fatica a convincere il capriccioso amico scrittore. Dare è un personaggio infantile, capriccioso, benestante. Un gay dai modi eccessivi che ama follemente i suoi due cagnolini. Dipinge e si fascia di abiti sportivi alla moda mentre si fregia del suo convinto motto “IO SONO TUTTO UN DUBBIO”. La reticenza di Dare è semplice pigrizia o un oscuro timore già affligge i protagonisti della storia? Dare è in un periodo in cui ha smesso di scrivere, anche se i suoi romanzi gotici sono assai famosi. Romanzi inquietanti scritti da un tipo tutto eccessi e capricci, e dubbio: bizzarro!

Tutti i componenti della spedizione vengono reclutati, salgono su un’imbarcazione denominata “Lungo Viaggio” e, nonostante una tempesta terrificante, raggiungono Elsewhere. In realtà il professor Case non si imbarca con loro perché li ha preceduti per montare le apparecchiature.

Tutto sembra presagire giorni di pizza, alcolici e conversazioni. In realtà, da subito le cose sembrano mostrare falle, déjà vu. Case li accoglie come ci si sarebbe aspettati, ed è seduto al pianoforte. Sul caminetto un dipinto che attira l’attenzione. Due visi a confronto e domande che soffocano dietro l’incredulità e il materialismo dell’americano di successo che pensa solo alle cose concrete, che si contano e possono comprare cose.

L’inizio della convivenza si consuma tra l’insofferenza di Joan, i dialoghi pacati tra la Trawley e Case. In tutto questo dovrebbe sentirsi lo sgambettare dei cagnolini che Dare non avrebbe mai lasciato. Dovremmo fare attenzione ai loro segnali canini.

Case diventa il fulcro della storia, un personaggio che si sposta da una parte all’altra quasi fluttuando: getta ammiccamenti, ascolta, dona spiegazioni e filosofia… tutto quello che ci si potrebbe aspettare da uno psicologo interessato ad altre “dimensioni”.

Joan e Dare litigano in continuazione, le parolacce fanno capolino tra una riga e l’altra e si prova una certa insofferenza tra i modi di fare inquieti e vuoti della coppia di amici. Strano modo di dimostrarsi affetto quello di promettersi morte e mutilazioni.

In ogni storia di infestazioni c’è sempre una persona che riesce per prima a captare qualcosa. Qui c’è una sensitiva, e una cripta misteriosa abitata da una scultura poco confortante. In realtà, le prove inizieranno a manifestarsi attraverso “il DUBBIO”, la personificazione del dubbio: Dare.

A metà del romanzo, il fastidio per una storia dell’orrore che sembra solo il documento della normalità vuota dell’essere umano medio lascia spazio a qualcosa che inizia davvero a far paura. Le storie intorno ad Elsewhere sono tante e le “vittime” della casa altrettante. Tra un bicchiere di scotch e un Martini si parla di suore, di pazzia.

Img Pixabay. Edited

Due preti gesuiti, una reminiscenza.

E… Dare ha portato i cagnolini? Che domanda sciocca!

Un guaito si sentirà forte e chiaro, ma crescente… poi rabbioso.

Qualcuno avrà la pelle che brucia in modo innaturale ma così “vero”; altri mostrano strane petecchie sul collo; altri ancora cicatrici.

Quando si iniziano a ricollegare tanti fili rossi, persi nel racconto di vite fastidiose e vuote, ci si accorge che il tempo e lo spazio nascondono molti più inquilini della spedizione organizzata da Joan.

Buon “Lungo viaggio”.

Il finale farà tirare un sospiro, di pace? Di sollievo? O forse di rassegnazione verso qualcosa di implacabile che non può che ripetersi. Forse tutte queste eventualità si sommeranno, sta al lettore scoprirlo.

ANALISI E CONSIDERAZIONI

La narrazione viene svolta da un narratore esterno, onnisciente, verrebbe da dire onnipotente se si volesse ricalcare l’umorismo ammiccante e tosto dell’autore.

Parlare di tempo della storia e tempo del racconto è, per questo romanzo, assolutamente fuori luogo.

Lo stile è freddo, i personaggi sono pressoché antipatici. Tutto potrebbe osteggiare un legame empatico e foraggiare un senso di fastidio nella lettura. In realtà, tutto ha un senso se si presta attenzione, molta attenzione. L'autore regala anche inaspettati momenti di dolcezza, umanità e profonda sensibilità: solo sprazzi, solo altre deviazioni; forse visioni sfuggenti della verità sottesa, del senso finale della storia. Sono ipotesi, le mie sono solo ipotesi. 

L’autore si diverte a distrarre il lettore rendendolo simile a quegli esseri umani presi dalle cose da fare, che non credono in nulla e sono frettolosi, pieni di pretese… il più delle volte insoddisfatte perché vacue.

È poco funzionale cercare di affezionarsi a qualcosa di corporeo in una storia di fantasmi. Le nostre emozioni vengono “traghettate” continuamente, quasi senza una meta. Le bussole? Innanzitutto, una piccola conoscenza della biografia dell’autore, per apprezzare i riferimenti alla dura infanzia di Joan e la scelta di far entrare nella storia dei preti gesuiti.

Anche l’ambientazione metropolitana rievoca ciò che l’autore deve aver visto per tutta una vita. La stessa professione di scrittore viene posta sotto la lente e criticata, quasi sminuita e ridicolizzata attraverso il personaggio di Dare. I personaggi sono persone che hanno perso la facoltà di essere felici, davvero in pace. I cuori sono spezzati e nascosti sotto strati di silenzi o battute sboccate.

La seconda via d’uscita dal vagare è posta in mezzo al romanzo, parrebbe solo per dare un tono al parlare del professor Case. Lo psicologo si trova a conversare con la sensitiva mentre prendono il tea e si confidano le rispettive disgrazie, anche se il modo di fare accondiscendente di Case pare sempre sospendere e sottintendere qualcosa. L’uomo parla di alcuni studi sui fantasmi: niente inferno e paradiso ma entità quasi perse, inquiete; capaci di mentire, a detta della Trawley. Dopo la morte ci si potrebbe trovare tutti in uno stesso posto, forse senza percepirsi a vicenda, passando questa esistenza eterna secondo parametri soggettivi, percettivi. Inferno e paradiso non sarebbero luoghi o mete ma quasi proiezioni dell’inconscio di un vivo che si trova morto e, dopo la morte, cerca ancora, disperatamente, di essere felice. Il libro OLTRE IL MURO: COMUNICAZIONI ELETTRONICHE CON I MORTI, riporta la risposta di un’entità alla domanda “Quale è lo scopo della vostra esistenza attuale?”. Il presunto fantasma risponde: “Imparare a essere felici”.


Img Pixabay. Edited

Che senso ha, allora, scrivere un libro pieno di personaggi antipatici? La risposta non viene dalla scelta del genere horror ma dallo studio profondo della felicità personale, nella sua mancanza, nel suo attaccarsi a “giocattoli” disorientanti, annebbianti. L’autore parla di vuoti, di anime che vanno esorcizzate estirpando il demone dell’assenza di desiderio puro, di spessore, di reale percezione di sé stessi e della vita. Se non si riesce a cogliere l’essenza della vita… come si può…

Le parolacce abbonano, l’umorismo e il “colore” anche. La formazione fumettistica di Blatty fa capolino, ogni tanto. C’è anche un discorso complesso intorno alla fede, alla redenzione e alla presunzione delle etichette di bene e male, cattivo e buono. La morte viene presentata come una condizione assolutamente democratica, comunista. La vita, però, reclama il suo senso nel momento in cui la si abbandona. Non tutto ciò che non si vede è cattivo, spaventoso; non tutto ciò che è materiale e visibile è reale nel senso più nobile del termine.

Alcune minacce di morte si trasformeranno in un abbraccio disperato. Vivere è un lungo viaggio, la morte è una destinazione che dipende da un atto di volontà che, se fatto tardi, fa perdere.

Se si ricongiungono tutte le trame tessute da un esperto di pubbliche relazioni divenuto scrittore di demoni ed esorcismi… si può apprezzare un romanzo forte che si presenta, a una prima lettura, solo per qualcosa che sfugge, come il senso della vita e della morte; di inferno e paradiso.

 Il complesso è intrattenimento ma anche riflessione verso i più grandi significati e le più ingombranti incognite della nostra esistenza. 

 

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Grazie e buona lettura!

sabato 12 settembre 2020

SNOWHITE di ANA JUAN

 UN ALBO ILLUSTRATO FATTO DI FILAMENTI DI PURO BUIO 

Ph Francesca Lucidi

INTRODUZIONE E CENNI BIOGRAFICI SULL’AUTRICE

Ana Juan nasce a Valencia nel 1961, artista poliedrica e originale; si distingue per uno stile spettrale, onirico.

Studia all’Università Politecnica di Madrid, e si diploma in Belle Arti nel 1982. Inizia a lavorare per la stampa spagnola, realizzando copertine, illustrazioni e fumetti. Inizia a esporre i suoi lavori in mostre personali e collettive non solo in tutta la Spagna ma anche a New York e Ginevra. Viaggia tra la Francia e il Giappone.

Ana raggiunge il Giappone grazie a una borsa di studio editoriale, e vi rimane per tre mesi.

Nel 1995 inizia a collaborare con il New Yorker, per il quale illustrerà anche la copertina dedicata all’attentato subito dal settimanale francese Charlie Hebdo.

L’artista collabora anche con El PaÍs e illustra diverse copertine per i libri di Isabel Allende.

Durante la sua carriera ha esposto i suoi lavori in diverse occasioni e ha ricevuto una grande quantità di prestigiosi premi e riconoscimenti. Tra i tanti si ricorda il Premio Nazionale di Illustrazione conferito dal Ministero della Cultura di Spagna. Se vogliamo citare un’approvazione che ha il suo peso pur non essendo un premio o una medaglia… nel 2017, Ana Juan illustra, dietro esplicita autorizzazione dell’autore, il racconto di Stephen King L’Uomo vestito di nero.

Tra i suoi “mondi oscuri” ho scelto Snowhite, il primo libro della Juan, uscito nel 2001 e edito in Italia solo nel 2011 grazie a Logos Edizioni. Se volete approfondire la conoscenza di Ana Juan, in lingua italiana… potrete farlo proprio grazie alla Logos.

 

TRAMA

Ecco Biancaneve, di nuovo. Credo che la fiaba dei fratelli Grimm abbia subìto un numero imprecisato di riletture, rimaneggiamenti. Ana Juan inizia il libro ringraziando i Fratelli, bene. Partiamo subito con il dire che l’immaginario presentato non è bello, non è magico e non è adatto ai bambini: infatti, il volume è sconsigliato al di sotto dei quattordici anni di età. In realtà credo che un adulto non possa uscirne meno turbato: qui non ci sono creature magiche, streghe o incantesimi; i personaggi sono tremendamente reali e crudeli.

Lady Hawthorn si punge con lo spillone del suo cappello e vede cadere il sangue sulla neve, desidera una bambina che richiamasse i due elementi ed ecco che nasce Snowhite. Ovviamente la madre della bimba muore, certamente il papà si risposa. Invidia? Ah sì, è altrettanto vero e sicuro che uno specchio fomenta il demone dell’invidia dentro una donna narcisista e senza scrupoli. Ah, dimenticavo che anche il papà, ovviamente, muore. Fin qui tutto torna. Adesso vi aspetterete il seguito della storia con nani amorevoli e Principe azzurro: qui i nani sono degli sfruttatori senza cuore, il Principe è solo un uomo che di cognome fa Prince… e di certo non ci sono scarpette di cristallo. Però, la bara di cristallo è al suo posto, in piedi in mezzo alla sala di una taverna di infimo ordine. Devo anche informarvi che non leggerete di mele rosse. Il lieto fine? Se pensate che una siringa, una paralisi sospetta, e una violenza carnale mista a necrofilia “accennata” possano essere premesse a qualcosa di buono… ma penso che dovrete scoprirlo da soli.


STRUTTURA, ILLUSTRAZIONI E ANALISI (e permettetemi qualche considerazione personale)

Snowhite è un albo illustrato, presenta un formato orizzontale e una copertina rigida. I fogli di guardia sono illustrati a doppio spread, e veniamo subito in contatto con la piccola protagonista, persa in un labirinto.

Le uniche note di colore sono il titolo in copertina, di un rosso “avvertimento”, e i fogli di guardia che ricordano il colore delle prime fotografie… che avevano sempre un qualcosa di inquietante.

Ph Francesca Lucidi

Se apriamo il volume, troviamo una netta divisione degli spazi: nella pagina di sinistra c’è un bianco totale e freddo, interrotto dai caratteri delle piccole parti in scrittura che a volte sono sormontate da uno spot completamente nero: solo contorni riempiti di nero lucido che prendono la forma di qualche personaggio o oggetto. Sulla pagina di destra l’illustrazione disperata che danza tra i vorticosi segni di un carboncino rabbioso che sa essere soffice come la neve o assoluto come la morte.

Questo dualismo viene a volte interrotto da aperture di illustrazioni silenziose che catapultano il lettore direttamente nella storia; direi in un incubo.

Ana Juan non è per tutti, indubbiamente la sua complessità stilistica attira, avvinghia e ti porta via. Non c’è speranza di uscita dal labirinto di Snowhite. La bellezza della protagonista non mostra i canoni dell’equilibrio e dell’armonia: ogni scena è un vortice di scura inquietudine. Gli occhi dei personaggi sono quasi sempre simili allo sguardo fisso di un cadavere o all’espressione di un Urlo di Munch che si moltiplica. Modigliani sembra fare l’occhiolino da palpebre affilate, da iridi assenti, da bulbi monocolore. Le figure fluttuano come le oniriche figure di Marc Chagall, ma qui non ci sono colori, non ci sono violini… la vita non si mostra multiforme ma direzionata unicamente verso l’assenza di speranza.

Ph Francesca Lucidi

Se avessi avuto di fronte un silent book forse avrei avuto una reazione diversa. Parole affilate, poche e fredde, unite a immagini tra il dark e il macabro. Il dark della Juan, però, è veramente uno “scuro”, senza porte antipanico.

La temporalità si contestualizza vagamente tramite abiti, oggetti e accessori: tutto evoca gli Anni Venti.

Si cita la guerra, si vede una siringa.

I ringraziamenti ai Fratelli Grimm forse sono scuse velate? È stato difficile scindere il mio impatto con l’opera dalla sua analisi distaccata. Ana Juan è sicuramente un’artista gigantesca, pesante, penetrante: basta vedere le innumerevoli imitazioni tentate da numerosi illustratori contemporanei. Non capisco perché mi sento combattuta. Fossi entrata in una sua mostra sarei rimasta estasiata, ma leggere questa storia mi ha lasciata solo un senso di angoscia e incertezza. Illustrare è comunque narrare, e questo tratto è ciò che distingue l’illustrazione dal mero disegno; però la struttura del libro sembra un libro dei morti, un catalogo della miseria umana messa lì, non capisco bene il perché: denuncia? Semplice descrizione? Credo di dover continuare il mio cammino con Ana Juan per capire qualcosa di più…  ma forse la comprensione è solo un mio sciocco tarlo.

Ph Francesca Lucidi

La tecnica della Juan è misurata, la passione e la forza sono orchestrate per creare un mondo che non lascia indifferenti. Dopotutto l’arte non è solo prati verdi e cieli colorati… assolutamente no. Non sono solo certa che il concetto della Juan possa contenersi in un volume, con testi dell’artista, illustrazioni dell’artista. È tutto un buco nero potentissimo. Quando la Juan si mette al servizio di contenuti di altri, basta guardare le copertine da lei curate o i lavori con Matz Mainka… lì qualcosa sembra muoversi.

Ana Juan sicuramente riscuote molto successo perché attualmente il dolore attira più di qualunque speranza, ma il valore dell’artista è proprio nei suoi lavori grafici, in tutto. Riguardo alle tematiche credo ci voglia tempo per comprende il ruolo di Ana Juan nella nostra epoca. Un’opera d’arte è tale quando emerge, e quando un nutrito numero di esperti del campo decidono che un determinato materiale scaturito dall’intelletto e dal lavoro umano lo è. Detto questo credo di poter apprezzare la grandezza e la forza dei lavori di Ana Juan senza dire che mi piacciono le sue narrazioni. La difficoltà sta proprio nello scindere l’impatto personale dal lucido confronto con un messaggio veicolato da un sublime incantatore dell’immaginazione.

Non sono costretta a rileggere questa storia, sicuramente riguarderò le tavole… e rifletterò, e mi perderò, ancora.

Nell’epoca della creazione spasmodica di contenuti da parte di tutti, credo si debba distaccare il giudizio personale e il proprio impatto con un’opera dalla diffusione della cultura. Non sempre “qui”, “ora” ed io… possiamo mettere il punto accanto ad un prodotto artistico.

 

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Grazie e buona lettura!

 

 

 

 

mercoledì 9 settembre 2020

RUBY E LA STORIA DI QUANDO INCONTRÒ UNA PREOCCUPAZIONE di Tom Percival

 

Ph Francesca Lucidi

Edito da Giunti nel 2020, RUBY E LA STORIA DI QUANDO INCONTRÒ UNA PREOCCUPAZIONE è un albo illustrato di Tom Percival.

Tom Percival è nato il 10 marzo del 1977. Tom e la sua immaginazione vivono a stretto contatto da sempre, come raccontato nel sito ufficiale dell’artista. Disegna da quando è riuscito a tenere per la prima volta in mano una matita e da tutta la vita inventa cose, e dichiara con sicurezza che non ha nessuna intenzione di smettere… anche perché sembra che ciò gli sia assolutamente impossibile.

L’albo ha grandi dimensioni e spicca subito per le tonalità accese della copertina rigida. Il giallo è il colore predominante, ed è accompagnato da piccoli toni di celeste che comprendono il titolo, un piccolo essere di cui capiremo l’entità, e l’abito della protagonista che si presenta in copertina con un’espressione tutt’altro che serena.

La storia è semplice ma tratta di un argomento difficile: le preoccupazioni. Anche per un adulto, ogni giorno, è complicato avere a che fare con questioni che ci assillano, che ci preoccupano e ci mettono in ansia. Non sempre si riesce a identificarle e un senso di malessere e smarrimento ci assale stancando la nostra vitalità. Se ciò succede per i grandi, figuratevi quanto può diventare arduo spiegare, da parte nostra, tutta questa spinosa questione ai più piccoli. I bambini hanno, però, dei vantaggi: sono meno soggetti a interferenze esterne, sono individui ancora in costruzione e mantengono una innata curiosità che permette alla comprensione di essere più recettiva. Gli albi illustrati, specialmente quelli per l’infanzia, non si perdono in troppe parole e comunicano sfruttando tutti i mezzi della narrazione non solo verbale. Vivere è raccontare e raccontarsi, e lo facciamo in ogni istante con il tono della voce, con la postura, anche con il modo di vestirci o pettinarci. Il mondo della comunicazione studia tutti questi elementi, non solo nel marketing ma anche nella psicologia. I colori hanno un ruolo comunicativo molto forte, l’utilizzo dello spazio, osservato e spiegato dalla prossemica, anche. Un albo non è una narrazione di poco conto: è straordinariamente vicino a ciò che si vive ogni giorno, è un’espressione di tante manifestazioni di significato che utilizziamo o percepiamo quotidianamente in modo più o meno conscio.

Voglio esaminare questo albo proprio esaltandone la forza comunicativa.

 

LA TRAMA ATTRAVERSO SEGNI E SIGNIFICAZIONI

IL RUOLO DEI COLORI E DELLA PROSSEMICA

Ruby è una bimba serena che sta bene con sé stessa, appare subito su uno spazio bianco. Il bianco è il colore della speranza, della pace. Sapevate che esistono circa sessantasette tonalità di bianco? Beh, diciamo che non è un colore scontato come si potrebbe pensare. Ruby appare in uno spazio bianco privo di confini e ha gli occhi bene aperti, le braccia sono spalancate e le sopracciglia sono rivolte verso l’alto: tutti elementi che mostrano apertura verso il mondo. Andando avanti spicca la bimba che gioca, con un forte alone giallo intorno: il giallo può essere interpretato come luce solare, ma ciò non è espresso chiaramente. Il giallo è il colore dell’energia positiva, ma specialmente dell’attività. In psicologia è il colore preferito delle persone felici; è anche generalmente associato ai bambini.

I colori sono utilizzati dal marketing per veicolare un determinato messaggio o “sentimento”, ma sono anche degli strumenti attraverso i quali la psicologia ha tentato di sondare l’animo umano. Riguardo a quest’ultima valenza non si può non citare il Test dei colori di Luscher, ideato nel 1949 dallo psicologo Max Luscher: il test è costituito da diverse tavole di colore e una di forme. Attraverso le sezioni che racchiudono differenti tonalità di determinati colori, e anche una tavola con otto colori determinati e determinanti, il metodo si propone di indagare il paziente sotto molteplici punti di vista come l’umore o il mondo in cui vede, percepisce e vive il mondo interno ed esterno. Ogni colore significa qualcosa, e attraverso l’attenzione al cromatismo e alle pose assunte da Ruby si possono cogliere tutti i livelli di significato che un “semplice” albo può sprigionare.

Dopo la presentazione del personaggio, un’apertura mostra la Ruby che gioca. Ritroviamo ancora l’alone giallo dell’energia positiva, vediamo i tranquillizzanti blu e verdi. Ad un certo punto qualcosa accade: un altro spazio bianco, ma questa volta al centro un nuovo personaggio… una preoccupazione!

Ruby trova inaspettatamente una preoccupazione, apparentemente piccola… e stranamente gialla. Ogni colore ha delle valenze doppie, in negativo e in positivo: il giallo, oltre ad essere un colore “felice”, può anche indicare conflitto. Ed ecco che l’energia positiva che circondava Ruby diventa un personaggio meritevole di una pagina tutta sua, e ha un’altra forma e valenza.

Ph Francesca Lucidi

La piccola preoccupazione inizia a seguire Ruby dappertutto. Possiamo osservare l’evoluzione di questo rapporto tramite la prossemica. La prossemica fa parte della semiotica, la disciplina che studia i segni con le loro significazioni. Un segno rimanda a qualcosa di altro… e nel caso delle narrazioni attraverso diversi mezzi questo accade su più livelli. Il termine inglese proxemics deriva da proximity (prossimità); fu introdotto negli anni Sessanta dall’antropologo americano E. T. Hall, e indica lo studio dello spazio e delle distanze, di come ci si muove e dispone rispetto ad oggetti e persone. Questa realtà è determinata anche dal contesto culturale. La territorialità è un meccanismo istintivo, e il nostro spazio vitale, determinato in una specie di bolla non sferica dal diametro di circa un metro, viene da noi gestito a seconda dello status personale o dell’interlocutore, e a seconda delle situazioni. Vi sono diversi tipi di “distanza”: una intima, riservata alle persone più strette (0-45cm); una personale, riservata ad esempio agli amici (45-120cm); una sociale, più formale (dal metro e mezzo ai tre metri e mezzo); una pubblica, nettamente superiore. Quando si narra attraverso le illustrazioni le pose dei personaggi raccontano storie e particolari.

La piccola preoccupazione all’inizio si trova a una distanza personale rispetto a Ruby, ma man mano che la bimba pone più attenzione alla preoccupazione ecco questa si avvicina invadendo lo spazio intimo della bimba. I colori mutano: il giallo resta solo addosso alla preoccupazione e tutto il mondo di Ruby diventa grigio: quest’ultimo è il colore dell’immobilità. La bimba si trova chiusa nel suo spazio intimo, ormai occupato dalla preoccupazione, che non ha volto, ma solo due occhi tondi e fissi e un grande sopracciglio orizzontale.

Ad un certo punto il grigio invade la stessa figura di Ruby: la bimba e la preoccupazione diventano scure…

Ph Francesca Lucidi

È interessante vedere come, pian piano, la postura della bambina cambia: quando siede la schiena appare curva, il che indica ansia e disagio.

Ad un certo punto qualcosa accade… e un incontro cambierà radicalmente la brutta situazione di Ruby, portando anche un insegnamento per il futuro.

In PNL (Programmazione Neurolinguistica) si pone molta attenzione ai fattori comunicativi non verbali. Il rapport, ossia il legame che si crea tra due persone, può essere facilitato o meglio compreso attraverso l’osservazione di ciò che fa l’altro, e soprattutto su come lo fa. Avete mai notato che spesso una coppia di amici o di fidanzati… usa la stessa gestualità o lo stesso tono di voce? Non è semplice scimmiottamento ma è l’effetto del rapport. Il rispecchiamento è questo fenomeno che possiamo osservare: può essere inconscio, ma anche conscio, ossia sfruttato per entrare in sintonia con l’altro. Se una persona parla in genere con un tono basso potrebbe avvertire del disagio se noi ci ostiniamo a parlare con un tono alto. Ruby si troverà proprio davanti a uno specchio, anzi a un bambino. Nel nuovo personaggio possiamo trovare le stesse pose che la bimba mostrava nelle tavole precedenti. Attraverso la creazione del rapporto con il nuovo amico, riuscirà in primis a comprendere l’altro, e poi a comprendere sé stessa. E tutto questo accade ogni giorno, a tutti noi. Un contatto visivo tra due bambini dà inizio a un meccanismo di comprensione che segnerà il destino della preoccupazione.

Aprirsi può essere rischioso… ma anche meravigliosamente curativo.

Citando la filosofa e insegnate di pedagogia Luigina Mortari: “Vivere significa azzardare!”.

Questo albo per i piccoli credo che sia un ricco manifesto di comunicazione, e un valido aiuto per parlare a sé stessi delle proprie ansie, in modo proattivo, giocoso e semplice. Non è sempre necessario complicare le cose per accedere a significati importanti.

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Grazie e buona lettura!

 

 

venerdì 4 settembre 2020

LUCERTOLA di BANANA YOSHIMOTO

 

CHI È BANANA YOSHIMOTO


Mahoko Yoshimoto nasce a Tokyo il 24 luglio del 1964. Suo padre, Takaaki Yoshimoto (noto con il nome Ryumei Yoshimoto), fu un importante critico e filosofo nipponico. La sorella di Mahoko è Haruno Yoiko, una famosa disegnatrice di manga.

Lo pseudonimo Banana viene alla mente della scrittrice durante l’università: “carino”, “androgino”… nomignolo assai adatto a una scrittrice delicata ma forte, buffa ma attenta e abile a diventare la voce di uomini e donne. Uno pseudonimo volutamente androgino è assolutamente perfetto per chi racconta le storie di tutti. E lo sa fare molto bene.

Banana studia arte all’Università di Nihon, e si specializza in letteratura.

Nel 1987 Inizia a lavorare per un golf club; intanto scrive, e dà alla luce il suo primo libro, Kitchen, l’anno successivo. Il libro riscuote grande successo e diventa anche materiale per piccolo e grande schermo, prima in Giappone e poi ad Hong Kong.

La produzione della scrittrice è viva e ricca. Banana si dedica ogni sera alla scrittura e vive questa sua professione con la naturalezza inquieta tipica dell’animo contemporaneo giapponese.

Si sposa con il musicista Hiroyoshi Tahata.  Nel 2003 dà alla luce suo figlio Manachinko.

Banana conosce bene l’Italia, ammira profondamente Dario Argento… e nei suoi romanzi si rivolge amorevolmente al Bel Paese nei piccoli spazi di conversazione dei POSTSCRIPTUM.

L’Italia viene definita come un luogo di bellezza, e fa strano leggere tanti ringraziamenti sinceri da parte di una scrittrice così famosa, e “lontana”. Banana è così: al livello di tutti, perché tutti siamo interdipendenti (sono parole sue, ed io concordo).

Una scrittrice riservata, essenzialeoriginale… bizzarra, coraggiosa, consapevole. Banana è una medicina per l’anima perché non fa finta che va tutto bene: con lei si guarda in faccia all’inferno… sapendo che dall’altra parte esiste un paradiso. Ci si tiene in equilibrio, imparando a camminare anche su terreni accidentati, con un peso sulle spalle.

Banana racconta Tokyo, ma anche la vita e la quotidianità che in tutti i posti del mondo si manifestano in esperienze contrastanti: gioie e dolori, separazioni e unioni profonde, cadute ripide e rinascite.


LUCERTOLA

INTRODUZIONE: CONTESTO, STILE E ANALISI

Ph. Francesca Lucidi

Uscito nel 1993 e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995, Lucertola è una raccolta contenente sei racconti: GIOVANI SPOSI, LUCERTOLA (da cui prende nome l’intero libro), SPIRALE, SOGNO CON KIMCHEE, SANGUE E ACQUA, STRANA STORIA SULLA SPONDA DEL FIUME.

I punti di vista sono interni: i personaggi novellano, ricordano. I dialoghi danno vivacità a spaccati di vita brevi ed efficaci, indipendenti ma parte dell’ampio discorso sulla vita che caratterizza questa come le altre opere della scrittrice. 

I racconti sono storie di uomini e donne, di coppie e relazioni… che trapassano la norma, i generi, e le etichette. Il tutto diviene ancor più forte perché vien fuori da una società giapponese ambivalente: così intrisa di tradizioni e convenzioni, credenze, ma anche così impregnata di piccole rivoluzioni, inquietudini e stranezze

Img Pixabay, edited

Tokyo fa da sfondo, insieme ad altre località che sanno di magico. La metropoli assume, però, il ruolo di personaggio a sé stante: è il luogo dove tante vite si intrecciano inconsapevolmente, un posto dove il caso rimescola carte ed energie in un tutto disarmonico che ha una tipicità che Banana Yoshimoto sa vedere e narrare. Il Giappone è presente in ogni gesto, anche nel lessico nel quale campeggiano una serie di tipici termini che raccontano storie e abitudini; un glossario finale è la guida ideale per questo viaggio nella cultura nipponica, che riesce però ad ampliarsi nell’opposto movimento dello stringersi negli animi e nei cuori dei protagonisti. Occhi che assumo una vita quasi indipendente dal viso che li ospita, capelli che cambiano a seconda delle età e delle personalità… sorrisi che parlano in una compostezza tipicamente giapponese. Anche il movimento di un cappotto riesce a determinare un carattere, una persona.

Attraverso questi racconti, Banana Yoshimoto parla di tutto ciò che l’universo umano ed energetico contiene: vita, morte, amore e corporalità, salute e malattia (anche e soprattutto interiore); incontro e scontro, disillusione e ferite, assenza di speranza e rinascita. Nel corso delle narrazioni si ritrova la caoticità di Tokyo, così occidentale, così presa dal fascino delle cose dell’altra parte del mondo. Una calma di gesti e abitudini che si rifugia troppo spesso nell’alcol, e negli eccessi, riesce a far emergere i pensieri dei personaggi in modo semplice. Banana è abilissima nel parlare delle cose più difficili, semplicemente dando voce alla gente, e alle esperienze di vita più disparate. Gli individui che guardiamo in questi racconti sembrano familiari: l’empatia risulta agevole perché, anche se una vena di magia attraversa ogni cosa, tutto è assolutamente quotidiano nella sua imperfezione, nelle paure e anche nei comportamenti fuori dalla norma che possono raccontare di tradimenti, di sesso, di rapporti carnali di gruppo o relazioni extraconiugali. Bisogna però sapere che Banana è una scrittrice educata, pacata, riflessiva: anche se si parla di eccessi non si arriva mai sulla sponda dello shock. Tutto è sempre accennato, dolce anche nell’amarezza; il modo di raccontare è intriso di profonda cura e rispetto.

L’epopea intima e metropolitana di Yoshimoto è moderna, ma anche filosofica e ancestrale. Ho citato l’energia: sì, le energie sono un elemento importante di molte delle credenze e dei modi di fare e pensare orientali. Ogni personaggio è il prodotto delle proprie radici, anche se spesso nasce discostato dall’albero principale per germogliare in un tronco esile che si affaccia al mondo cercando di capire come adattarsi all’habitat che lo accoglie. Le radici sono la famiglia, elemento presente in ogni racconto sotto forme diverse. Ogni personaggio si trova a ripercorrere la ferite passate, i segreti familiari, i vuoti disorientanti che hanno causato diverse corse nel nulla alla ricerca di quel senso di appartenenza che, però, a suo modo arriva. L’autrice ha un romanticismo tutto suo: si guarda ai rapporti con senso critico, con sincerità… non c’è la fiaba ma c’è la forza prorompente della liberazione, che può avvenire solo dopo lo scontro e nello scorrere. Le energie universali non sono mai immobili, e il nostro corpo fa parte di un flusso che potrebbe essere percepito se ogni cosa viene vista come “processo”.

«Non si tratta di scegliere quale è buona o cattiva, giusta o sbagliata, ma di riconoscere che le idee di inferno e paradiso prendono forma nel corso di un processo ininterrotto che chiamiamo “io”. È soprattutto questo processo ininterrotto che qui mi interessava descrivere.»

(Banana Yoshimoto dal POSTSCRIPTUM a Lucertola)

Ogni storia è intrisa di piccoli oggetti, di rituali, e di metafore che non sono aeree ma materializzate in cose semplici come una zuppa, un fiume, la voglia di un espresso da bere fuori casa.

La trasformazione è il vento che attraversa ogni pagina della raccolta. Nessuno, però, resta fermo. I personaggi sono persone fatte di segreti, cicatrici e insicurezze… ma riescono a passare all’azione perché ognuno di noi è parte del destino cosmico.

La via di un famoso tempio di notte è deserta e fa quasi paura… al mattino i colori si accendono e il profumo di cose buone avvolge l’aria. Ognuno di noi è solo: la solitudine è l’altra entità misteriosa che guarda i personaggi, come fa Tokyo. Ma l’oscurità si alterna alla luce, la morte è intesa come “vita futura”. Il nostro tempio personale non è una fotografia immobile ma un luogo vivo che si riposa o si adombra; può far paura… ma è popolato di tante cose oltre noi. Siamo abitati dal nostro passato, dalle nostre esperienze, dal nostro retaggio. Ma capendo che siamo soli non dobbiamo credere che tutto ruoti intorno a noi, siamo noi a ruotare e cambiare verso la nostra “naturale destinazione”, in “interdipendenza” con persone… palazzi, monti e forze invisibili e visibili.

Tra queste storie senti addosso i gesti preparatori al rituale del bagno, impari che i giapponesi non sono soliti urlare… che le donne imparano a ridere con la mano davanti alla bocca. Certo, però, molti personaggi escono dalle regole. C'è sorpresa e scoperta, ovunque.

Imgs Pixabay, edited

Un foroshiki[1] può contenere l’idea della casa e della famiglia, come anche delle verdure, e un segreto. Un involucro non è solo un oggetto… qui tutto parla e racconta in una sintesi piacevole che avvolge la solitudine del lettore per profumarla di speranza; sembra quasi di avvertire, qui con me, un sentore dolce di obanyaki[2].


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Grazie e buona lettura!

 



[1] Furoshiki: quadrato di tessuto, generalmente di seta dai colori vivaci, usato per avvolgere oggetti. I quattro capi sono annodati in modo da rendere agevole il trasporto. (Dal Glossario a fine volume).

[2] Obanyaki: focacce dolci farcite di marmellata di fagioli azuki, prima cotte al vapore e quindi arrostite su una piastra. (Dal Glossario a fine volume).

lunedì 31 agosto 2020

IL GRANDE LIBRO DI NEIL GAIMAN




Ph. Francesca Lucidi

Qui ci troviamo di fronte a una raccolta di racconti a fumetti assai strana… ma non potremmo aspettarci nulla di diverso, basta leggere i nomi che svettano sulla copertina. Neil Gaiman e un piccolo nugolo di illustratori, noti agli appassionati del genere, ci accolgono tra pagine inquiete, tinte forti o sfocature… ma tutto è ricondotto a un immaginario pregno di orrore ma anche di sentimento; a un universo in fieri che si modifica a seconda dei ruoli interpretati; a un' umanità che può essere più spietata dell’inferno.

Il volume è edito da Magic Press Edizioni, ed è datato 2016.

All’interno troviamo quattro storie, di cui una divisa in due microstorie. In ordine: Mistero Celeste, di Neil Gaiman e Graig Russell; Il San Valentino di Arlecchino, di Neil Gaiman e John Bolton; Creature della notte, di Neil Gaiman e Michael Zulli; Le vicende relative al caso della scomparsa di Miss Finch, di Neil Gaiman e Michael Zulli.

Credo sia il caso di analizzarle singolarmente, per assaporarne bene la carne fibrosa e ricca di una macabra vitalità. 

MISTERO CELESTE

La storia trae origine da un racconto di Neil Gaiman apparso per la prima volta nell’antologia Midnight Graffiti nel 1992, e successivamente incluso nelle raccolte Angels e Visitations e Smoke and Mirrors. Graig Russel ne cura l’adattamento a fumetti nel 2002 per la Dark Horse.

Per la biografia di Neil Gaiman cliccate QUI: verrete indirizzati a un precedente contenuto del Penny Blood Blog.

GRAIG RUSSELL

Philip Graig Russel, illustratore, sceneggiatore e fumettista statunitense, nasce il 30 ottobre del 1951 a Wellsville. Si laurea in pittura all’Università di Cincinnati e mostra da subito un’attitudine poliedrica e scarsamente mainstream.

 Lavora per la Marvel Comics nella realizzazione degli albi di nicchia Killraven e Dottor Strange; collabora, poi, con la DC Comics, in alcuni numeri della seria a fumetti scritta da Neil Gaiman Sandman. Ciò che mostra il suo ampio immaginario culturale è l’adattamento di materiale inusuale come Il flauto magico di Mozart, Salomè di Strauss, e L’anello del Nibelungo di Wagner. Tra le sue opere è da annoverare la versione a fumetti di alcune fiabe di Oscar Wilde.

Il suo legame con Neil Gaiman è forte e si manifesta con gli adattamenti di Coraline, American Gods, Il Figlio del Cimitero… e pare sia atteso anche un lavoro su Miti del Nord: l’ultimo articolo a riguardo, che ho potuto reperire, risale dall’aprile del 2020, adesso non sono riuscita a comprendere a che punto sia l’edizione, a causa del grave momento che sta vivendo ogni realtà di questo mondo.

ATTRAVERSO MISTERO CELESTE

Il racconto inizia da un ricordo, da una rimembranza scaturita da un uomo comune, quasi di mezza età, infelice e distaccato da una vita apparentemente perfetta in cui non si riconosce; il tutto non nel modo consueto della psicopatica società contemporanea… c’è qualcosa di più: c’è un vuoto, un ricordo forse incompleto, un dono non richiesto. Vivi, morti e immortali strappano via esistenze senza motivi che possiamo conoscere in modo certo.

Qui bisogna fare uno sforzo di fede, in Gaiman, e forse nella nostra capacità di trarre insegnamenti da giochi sadici o ben congegnate messe in scena dei significati celati dell’universo: sia esso visto nei suoi piccoli e oscuri anfratti, sia nella magnificenza del suo tutto.

Dalla normale quotidianità di una creatura infelice, umana, imperfetta si passa agli esseri perfetti per eccellenza: gli angeli.

Ci troviamo nel luogo dove governa “IL NOME”; appena oltre una grande città di luce… solo le tenebre. Gli angeli lavorano alacremente alla costruzione dell’universo, secondo il disegno del NOME.

Ma come si arriva da Los Angeles, in California, ai tempi prima dei tempi? Forse un uomo… forse due donne e una bambina…

Al primo ricordo spezzato si somma il ricordo lucido di qualcun altro.

L’angelo Raguel viene richiamato alla sua funzione: la vendetta. Un suo fratello è stato trovato morto, e il Primo Angelo, il comandante delle milizie del Nome scuote Raguel dalla sua cella… irradiando della sua luce dissimile da quella di qualunque altro essere celeste. Lucifero non è ancora caduto ma camminerà un po' oltre la luce, il Nome si cela e un corpo esanime chiede giustizia. Carasel si è tolto la vita compiendo il gesto più estremo nei confronti del creato? Dovremo attraversare il tempo della creazione delle grandi cose del mondo come l’Amore, la Morte… noi saremo costretti ad interrogarci, come forse anche gli Angeli che lavorano senza sosta per cesellare grandi cose sconosciute anche a loro stessi. Gli esseri celesti non hanno esistenza al di fuori della loro funzione e non hanno sesso.

Alla fine, i due ricordi avranno ragione di essere affiancati?

Qualcuno non ha di certo mai smesso di fare il suo lavoro.

Luci e ombre si mostrano ovunque in questo racconto, con tutta la loro forza. Si passa dalla descrizione di una pratica sessuale consumata in modo squallido all’amore più puro che si possa concepire. Il tratto di Russell riesce a vestire l’uomo e la contemporaneità fino dar vita ad angeli talmente meravigliosi e vigorosi da sembrare i principi di qualche fiaba illustrata di un altro secolo. Gaiman mescola crudeltà e delicatezza, fiaba e orrore, vuote bassezze e metafisica. Russell è l’architetto perfetto per un progetto dai confini non delineati, e questo mi ricorda qualcosa…

Il SAN VALENTINO DI ARLECCHINO

Anche in questo caso ci troviamo di fronte un volume pubblicato, primamente, dalla Dark Horse.

JOHN “MIRABILIS” BOLTON

Come per gli altri illustratori, la raccolta della Magic Press riporta in coda la biografia del creatore delle immagini di questa storia assai inquietante. La differenza la fa un intervento di Neil Gaiman stesso, inserita dopo la fine de Il San Valentino di Arlecchino. Un autoritratto di Bolton campeggia tra le pagine, con il volto coperto da una maschera antigas rossa; sullo sfondo un’indefinita sfumatura di colori, dove si poggia una postura tra il composto e il misterioso: le mani sono dietro la schiena, gli occhi sono coperti da particolari della maschera che presentano un’altra macchia di colore su un occhio… e sull’altro un bulbo oculare da pesce impagliato, morto… potremmo pensare “è solo una maschera”, in realtà quell’immagine è il preludio all’esoterismo che circonda la figura di Bolton. Gaiman racconta di un artista-evocatore, di un uomo legato alla Massoneria, a strane tradizioni, oggetti e compiti. Lo studio del fumettista è come una cripta, e più o meno lo è… senza il “come”. La maschera antigas non è un orpello scelto per un autoritratto surrealista, è l’oggetto rituale che Bolton DEVE indossare prima di mettersi a lavoro. L’oscurità scende e le candele vengono accese: dai bagliori e dall’oscurità qualcosa uscirà e reclamerà vita, dettagli, materialità. Gaiman parla di Bolton come di un personaggio delle sue magiche e oscure storie… si arriva a parlare di “morti che seppelliscono i morti”, di paura, di strani legami indissolubili di interdipendenza con l’ignoto. Di certo è sempre, forse, una buona precauzione avere un coltello con sé. Gaiman si allontana dallo studio di Bolton e tra gli alberi qualcosa osserva… ma è bene ricordare che spesso “NON È SAGGIO GUARDARE TROPPO DA VICINO”.

Sono da ricordare le collaborazioni di Bolton con lo sceneggiatore Chris Claremont (autore di X-Men), e con Clive Barker per la versione a fumetti dell’horror Hellraiser (romanzo e film di Barker). Ha lavorato con Neil Gaiman anche per la miniserie a fumetti The Books of Magic.

L’ARLECCHINATA

Nel suo intervento extra-storia, Gaiman non parla solo di John Bolton ma anche della figura di Arlecchino, che penseremmo meno nota oltreoceano.

Siamo abituati a collegare la figura di Arlecchino al Carnevale, all’allegria, alle risate. Gaiman tenta un’etimologia del termine e ci troveremo di fronte a termini come “elfo”, “spiritello”“inferno”. Ciò che nell’Antica Roma era burla e nella Commedia dell’Arte scherzo, ribaltamento e simbolo, nella seconda metà del diciassettesimo secolo trova il suo doppio oscuro in Inghilterra e poi in America. Arlecchino e altri personaggi della Commedia dell’Arte italiana, lontano dalla loro patria, diventano esseri magici. Anche Pulcinella, il vecchio eccentrico gobbo col naso adunco, muta in un assassino… e se noi associamo la maschera nera proprio a lui, pensate che nelle commedie più recenti del mondo anglosassone è Arlecchino ad avere il volto nero come la fuliggine.

Dov’è l’allegria del Carnevale?  Beh, in questo fumetto che andremo ad analizzare sicuramente possiamo imbatterci nel famigerato “ribaltamento”, però alla maniera di Gaiman.

SEGUENDO ARLECCHINO… CHE SEGUE QUALCUN ALTRO

L’Arlecchino in cui ci fa imbattere Gaiman non ha nulla di divertente: è mascherato (e ok), porta con sé un bastone e una bombetta che evocano subito il magico. Le pose di questo personaggio sono scomposte, teatrali (e ok), ma anche così contorte e innaturali che paiono attribuibili a un demonio, a un incubo che si nasconde nell’ombra di una camera da letto, a un essere strisciante che guarda e aspetta il momento giusto per colpire. Però… che bello, è San Valentino! In questa festività si danno e si ricevono doni: l’amore “impregna” ogni cosa e si va al ristorante a mangiare piatti a tema, magari di colore rosso. In questa storia accade più o meno questo… se non fosse che Missy, la “Valentina”, non troverà un biglietto attaccato alla sua porta ma un cuore sanguinante. Penserete che la ragazza sia esplosa in isteria e terrore…

Missy ha tante cose da fare, dopo aver tentato, in modo superficiale e sfuggevole, di cercare risposte al cimitero. Missy poi dovrà pur mangiare. Arlecchino la segue sempre, invisibile. Il demonietto mascherato e scavato in volto la osserva, mentre crea scompiglio tra la gente normale.

Arlecchino viene dal mondo dei morti, così dichiara. Con i morti parla e i vivi non lo vedono, almeno così lui crede.

Tutto sembra sotto controllo, tutti sono nei loro panni e nei loro ruoli. Ma il bello dell’Arlecchinata non è il cambiamento?

Scoprirete tutto leggendo, anche se è garantito lo straniamento, la perturbazione, l’effetto disturbante della confusione degli archetipi.

Bolton usa uno stile fotorealista. I personaggi sembrano veri ma i loro contorni sono tremolanti, sfocati… proviamo a mettere a fuoco ma le figure sono simili a istantanee mal riuscite, a esseri che vogliono sfuggire alla vista e alla concentrazione di un momento di analisi. Tutto si muove e tutto è fermo, allo stesso tempo. La quotidianità è grigia, il soprannaturale è l’unico colore che sembra chiazzar di sangue le vite della gente normale. Storia e immagini si fondono perfettamente in un effetto allucinatorio: Il San Valentino di Arlecchino è un Carnevale freddo, è colori sbiaditi, è psichedelia sommessa e penetrante. Molto turba, ma non si capisce se per questo effetto basti ciò che vediamo… forse Arlecchino è più vicino e più vivo di quanto lo sia una sua riproduzione?

CREATURE DELLA NOTTE
E
LE VICENDE RELATIVE AL CASO DELLA SCOMPARSA DI MISS FINCH

Gli ultimi due fumetti della racconta sono in realtà tre: il titolo Creature della Notte contiene Il Prezzo e La Figlia dei Gufi. Tutti i titoli nominati sono illustrati da Michael Zulli, che ha già lavorato con Gaiman nel contesto della grande famiglia di Sandman. Come per gli altri fumetti de Il Grande Libro di Neil Gaiman, l’edizione originale è ad opera della Dark Horse.

Lo stile di Zulli è colorato, espressivo attraverso l’accentuazione dei volti e dei modi dei personaggi.

In Il Prezzo, primi e primissimi piani si dividono tra animali, domestici e non, e lo scrittore che ritroveremo anche nelle bizzarra e inquietante storia di Miss Finch. I protagonisti sono un uomo e un gatto nero, apparso dinanzi a una casa che vede arrivare spesso gatti abbandonati che paiono spuntare dal nulla. So che state pensando alla solita storia del gatto nero indemoniato o che per lo meno promette tormenti. Effettivamente molti sono i preliminari riferimenti che non possono non far pensare a Il gatto nero di Edgar Allan Poe: un uomo racconta una storia difficile da credere, numerosi animali vengono accuditi da una famiglia che pare amorevole, un gatto nero ruba la scena e il suo pelo verrà tinto di rosso sangue. Conoscendo Gaiman, ed essendo arrivati a questo punto alla metà della raccolta (supponendo una lettura), si è già inteso che i paradigmi vengono ripresi dallo scrittore solo per essere smentiti, guardati da un lato diverso… reinterpretati per onorare il disfunzionale, che è però autentico. La superstizione è sì chiamata in causa, come ne La figlia dei Gufi, ma è combattuta con l’amore che Gaiman è solito costruire: insolito, fuori dagli schemi, oltre la paura e i limiti. Il gatto nero sembra legato alla fortuna della famiglia che lo accoglie, una cantina diventa il punto di svolta per una riflessione sulle coincidenze… ma non credete che un diavolo in forma di gatto nero sia troppo scontato per Gaiman?

La figlia dei Gufi è una di quelle vecchie storie che signori dell’alta società possono raccontarsi in salotti immobili e avvolti dai fumi di sigari costosi. Si parla di una storia che forse è vera, qualcuno l’ha riportata. Molte leggende nascono da un bambino abbandonato. In questo caso si tratta di una bambina, ciò che la distingue non è una copertina ricamata o una strana voglia sulla pelle, come accade nelle fiabe: quel batuffolo d’uomo racchiude tra le minuscole dita una borra di gufo. La borra è un rigurgito di cibo indigesto, caratteristico di determinate specie di uccelli. I gufi sono dalla notte dei tempi associati all’oscurità e quindi al male. Le leggi degli uomini erano, o forse sono, spesso intrise delle leggi della paura… e quindi, quale sorte ci si aspetta per l’orfana? Primamente si può pensare che già aver salva la vita possa essere un gran regalo per la piccola creatura sfortunata; non sempre vivere e diventare bellissime può destinare alla felicità. L’uomo che si veste di ferrea morale spesso nasconde il demone del desiderio represso…

Ma cosa significa essere una “figlia dei gufi” se non poter sorvolare le tenebre, siano fatte di aria o carne. Un rapace agisce all’improvviso, è un predatore che non lascia nulla della sua vittima perché porta via, rapisce, come farebbe un alato angelo dell’oltretomba.  

Le vicende relative al caso della scomparsa di Miss Finch inizia al tavolo di un ristorante: tre amici mangiano sushi riflettendo se sia il caso di raccontare a qualcuno l’orribile e incredibile faccenda nella quale sono stati coinvolti poco prima, anzi, che ha “avvolto” principalmente Miss Finch (anche se questo non era il suo vero nome). E poi… come era bella Miss Finch.

Il punto di vista esterno alla storia è in realtà interno perché occhio, memoria ed esperienza dello scrittore già conosciuto in Il Prezzo. Non ci è dato di sapere se sia davvero la stessa persona, ma l’involucro è lo stesso.

Lo scrittore parla con i due commensali, amici che pare conoscere da tempo: una donna dai capelli rossi, giornalista capace e vorace; un uomo di bell’aspetto che si barcamena tra mille progetti dopo aver esordito in un talk show.

La scena si sposta dal ristorante verso le ore precedenti, sospese in un ricordo che pare un’allucinazione. In effetti il narratore racconta la sua storia, a parte, e l’illustratore ci mostra il ricordo di qualcosa che sa di senso di colpa ma anche di immenso stupore e meraviglia.

Tutto parte dalla fine della vicenda, dal ristorante, per poi ricominciare in una camera d’albergo di Londra, città dove lo scrittore era volato per lavorare. Una telefonata dai due amici costringe l’uomo a una serata di distrazione che sarebbe iniziata con un teatro per poi dirigersi verso il famoso ristorante di sushi. C’è solo un piccolo fastidio: la rossa giornalista Jane deve portare con sé un’amica, che è in Inghilterra solo per pochi giorni. Miss Finch è una biogeologa avvolta in abiti neri, fascianti, che la nascondono. La donna appare subito una anomalia in un mondo colorato e caotico, che ingurgita parassiti da cibo crudo alla moda… e che si diverte con macchine di tortura per animali come i circhi. Questi sono i pensieri di Miss Finch, che non si esime dal rimarcare il suo distacco e la sua disapprovazione verso la maggior parte delle cose che sembrano non avere importanza per i tre amici che cercano solo l’effetto ludico di una serata all’insegna del disimpegno e del divertimento, così come tutti lo concepiscono. Il teatro salta e il gruppo si dirige a un circo: non si tratta del solito spettacolo di acrobati e animali (Miss Finch non sembra però rassicurata). L’intrattenimento attende la comitiva nei sotterranei di Londra. Ecco che un circo dell’orrore accoglie una moltitudine ristretta di persone alla ricerca di una fuga dalla noia. 

Gli artisti sono personaggi inquietanti che paiono tristemente osceni solo perché truccati male, eccessivamente: così vengono descritti dal punto di vista dei normali tre che cercano divertimento ma nel disincanto non godono e non comprendono a fondo tutte le “messe in scena” imperfette, ma anche ben congegnate che a loro si presentano. Si parte cercando di generare paura, ma l’uomo contemporaneo pare troppo distratto anche per spaventarsi… ma si sa che la paura è una componente importante per la sopravvivenza. Quale altro forte sentimento attanaglia l’uomo insieme alla paura? Il desiderio. Chissà che qualcuno possa finalmente sbocciare e abbracciare la propria agognata natura repressa. Miss Finch non esce da quelle umide, e infinite, stanze sotterranee… ma chi ne resta più turbato?

È da far notare un fugace riferimento al musicista Alice Cooper, la star dell’horror rock che ha fatto del weird e del trucco sbafato il suo marchio. Michael Zulli e Neil Gaiman sono stati i creatori del fumetto che include tra i personaggi proprio il musicista, questo perché l’opera è la trasposizione in immagini e parole del concept album di Cooper The Last Temptation. Il fumetto porta lo stesso nome… e devo dire che questi continui rimandi e sassolini, che percorrono la raccolta qui presentata, sono un intrattenimento che può aprire porte dell’immaginario abili a legare a Gaiman anche i neofiti.

CONCLUSIONE

IL GRANDE LIBRO DI NEIL GAIMAN è un percorso a stanze, proprio come quello presente in Le vicende relative al caso della scomparsa di Miss Finch. Passo dopo passo ci si alterna tra voli altissimi tra le vette dello sconosciuto, oltre i confini dell’universo, e si scende a picchiata, a tratti, sui marciapiedi di una vita fatta di malvagità gratuita e bassezze tipicamente umane. C’è il perdono, c’è la collera ma anche la giustizia. Ci si spaventa e si prova disgusto per un gesto infernale fatto da un demonietto invisibile e ci si gira dall’altra parte per non restare a guardare i preliminari crudi di un rapporto carnale; ci si commuove tra la purezza di concetti filosofici che si fanno carne, piume e passione. Angeli, animali, donne sole e sfiorite, fanciulle indifese che nascondono una forza innaturale; sciocco disincanto metropolitano e vegetazioni che spuntano dal nulla per ricondurre l’uomo superbo con i piedi a terra, o con tutto il corpo a terra.

 Gaiman è un narratore, un imbonitore e un arlecchino; i fumettisti sono una squadra perfetta di sceneggiatori dell’impossibile, e biologi delle nascoste disfunzioni della creatura umana: nata sì con il peccato, ma sempre più disconnessa dalle essenze primigenie che crearono il bene e il male per il grande dono del libero arbitrio. Avete timore, è comprensibile… non so se un gatto nero spuntato dal nulla possa farvi compagnia, dopotutto le superstizioni che prende in prestito Gaiman sono il pretesto per far cadere il sipario delle sciocche sovrastrutture umane che negano una visione più sviluppata, che sia in grado di scorgere nelle tenebre quanto l’apparenza possa ingannare e nascondere il riflesso malvagio che la duplicità insita in ogni cosa nasconde.  

 

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