venerdì 24 luglio 2020

GIOVANNI VERGA: LA VITA, LO STILE E LA NARRAZIONE REALISTICA DI UN'ITALIA SOFFERENTE

IL VERISMO E LE SUE MANIFESTAZIONI

NOVELLE SCELTE: ROSSO MALPELO, LA LUPA, LA ROBA, LA LIBERTÀ
E JELI IL PASTORE

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

CENNI BIOGRAFICI

Giovanni Verga nasce il 2 settembre del 1840 e viene registrato all’anagrafe di Catania. Vi è una curiosa congettura che ipotizza come data di nascita reale il 31 agosto. Secondo questa idea lo scrittore sarebbe, in realtà, nato a Vizzini, cittadina al confine meridionale della Provincia di Catania. Non vi sono documenti ufficiali ma solo piccoli indizi.

I Verga sono proprietari terrieri e a Vizzini hanno molti possedimenti. Le origini del cognome sono molto antiche e sarebbero riconducibili a lontane radici spagnole. I Verga appartengono a un ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca. La madre dello scrittore è Caterina di Mauro e fa parte di una famiglia borghese di Catania. Le ipotesi sulla fittizia nascita di Giovanni a Catania sarebbero, quindi, riconducibili a motivazioni legate alle origini della madre… e anche all’eventuale maggior pregio di una nascita cittadina piuttosto che provinciale. Vizzini è comunque impressa nel sangue dei Verga: il nonno fu addirittura deputato presso il parlamento siciliano, proprio per la cittadina.

Verga compie gli studi primari presso la scuola Francesco Carrara; gli studi secondari vengono portati a termine presso la scuola di Don Antonio Abate, fervente patriota.

La figura di Don Antonio diventa molto importante: Verga viene coinvolto dal suo sincero e ardente patriottismo… mentre le letture di Dante, Petrarca, Manzoni e Ariosto foraggiano un interesse letterario sempre più vivo.

Nel 1854, Verga deve rifugiarsi in campagna per sfuggire a un’epidemia di colera. Vi resta per quasi due anni. Questa esperienza va ad aggiungersi alle altre maturate durante i suoi studi: il tutto va nutrire il terreno da cui si caratterizzerà tutta la futura opera dello scrittore.

Giovanni Verga scrive il suo primo romanzo all’età di quindici anni. Don Antonio sembra apprezzare il lavoro del giovane e brillante allievo; il professore di latino è molto più scettico e l’opera, alla fine, viene lasciata in fondo a un cassetto.

Nel 1858 l’iscrizione all’Università di Catania, alla facoltà di legge. Il richiamo delle lettere è per Verga troppo forte: lascia gli studi e inizia a dedicarsi completamente alla scrittura, partendo dal lavoro di giornalista. In realtà, nel 1861 spende tutti i soldi della retta universitaria per la sua prima pubblicazione: I carbonari della montagna.

All’amore per la scrittura è sempre legato il patriottismo e il vincolo con la Sicilia; lo scrittore, infatti, finisce anche per arruolarsi nella Guardia Nazionale di Catania.

Verga tenta più volte di far sopravvivere un suo giornale, senza successo.

La scrittura giornalistica resta, però, un punto fondamentale da cui partire per osservare e comprendere la tecnica narrativa che impiegherà Verga.

Nel 1865 muore Giovan Battista Catalano, il padre dello scrittore.

Dopo la morte del genitore, Verga si trasferisce nella capitale del Regno d’Italia: Firenze. Lì conosce Luigi Capuana. Nel 1871 esce il romanzo Storia di una capinera.

Nel 1872, Verga pubblica il racconto Nedda, che narra degli stenti di una raccoglitrice di olive siciliana: la conversione all’impostazione e ai temi veristi, a quel punto, è completata.

Dopo l’unità, l’Italia appare estremamente frammentata sia culturalmente sia economicamente. Il sud della penisola è particolarmente attanagliato dalla piaga del lavoro minorile… e proprio riguardo alla realtà lavorativa in Sicilia il Parlamento decide di avviare un’inchiesta. A quel punto, è chiaro a Verga come il tema principe delle sue opere debba essere la terra natia, con i suoi dolori e i suoi paesaggi così selvaggi e meravigliosi.

Dal germe delle origini siciliane dello scrittore nascono i capolavori che segneranno la storia della letteratura. Del 1880 è la raccolta di novelle Vita dei campi, incentrata sul tema della lotta per la sopravvivenza; un anno dopo esce il primo romanzo intimamente verista dello scrittore: I Malavoglia, opera incardinata sulla rovina di una piccola famiglia di pescatori che tenta di intraprendere un’attività commerciale. Nel 1882 esce una seconda raccolta di novelle intitolata Novelle Rusticane, basata sul tema della “roba”.

Durante il 1889 viene pubblicato il secondo romanzo dello scrittore: Mastro Don Gesualdo.

Verga decide di tornare in Sicilia. Nel 1893 è a Catania.

Lo scrittore inizia la redazione de La duchessa di Leyra, ma non riesce a proseguire nel progetto. I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo e La duchessa di Leyra, insieme ad altri due romanzi, dovevano entrare a far parte di un unico progetto: Il “Ciclo dei Vinti”; l’idea iniziale, purtroppo, non verrà mai portata a termine dallo scrittore. L’ispirazione artistica di Verga si esaurisce… e lascia spazio alla depressione e alla solitudine.

Giovanni Verga è un individuo che preferisce vivere da solo, non si sposa e non ha figli. Ha una visione molto particolare del matrimonio: lo considera una gabbia per topi dalla quale quelli che son dentro vogliono uscire, mentre tutti gli altri vi girano intorno per entrarvi. Lo scrittore intraprende una relazione importante: Verga si lega con Giselda Fojanesi, moglie del poeta catanese Mario Rapisardi. La relazione viene scoperta dal marito tradito che ripudia la moglie.

Un’altra donna riesce a entrare, in tutt’altra veste, nella vita dello scrittore: Dina Castellazzi. La Castellazzi resta un’amica fedele, per tutta la vita di Verga.

Verga sceglie per sé una vita ritirata; non manca, però, di occuparsi dei tre figli del fratello morto giovane.

Nel 1920 arriva la nomina di Senatore del Regno, che lascia il Nostro piuttosto perplesso e non particolarmente entusiasta. Verga, però, apprezza sinceramente il discorso di intitolazione tenuto da Luigi Pirandello.

Giovanni Verga muore a Catania nel 1922.

 

L’ACCOGLIENZA DEL PUBBLICO

La prima uscita de I Malavoglia non raccolse molti consensi. Verga incontrò diversi problemi finanziari e un po' di ossigeno venne dalla trasposizione teatrale della novella Cavalleria Rusticana, testo facente parte della raccolta Vita dei Campi. La prima rappresentazione della versione per il teatro si tenne a Torino il 14 gennaio del 1884. Per ottenere i compensi dovuti lo scrittore dovette rivolgersi a dei legali che curassero i suoi interessi. Sulla scia del successo della mia trasposizione, Pietro Mascagni decise di creare dalla novella un melodramma, rappresentato per la prima volta a Roma il 17 maggio del 1890.

Nel frattempo, nel 1889, venne pubblicato il romanzo Mastro Don Gesualdo, presso l’editore Treves. Intorno alla casa editrice milanese si andava delineando il gusto letterario di fine Ottocento; infatti, sempre nel 1889 fu pubblicato anche il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio: Il piacere. Ecco che due poli diversissimi si trovano a contendersi l’attenzione del pubblico: da una parte la narrazione della realtà italiana attraverso uno sguardo oggettivo in cui l’autore e il narratore scompaiono a favore dei fatti raccontati, dall’altra la rivendicazione dell’eccezionalità del singolo all’interno della società massificata. Il lavoro di D’Annunzio attira l’attenzione della borghesia e vince la battaglia delle vendite. Mastro Don Gesualdo, comunque, riesce a vendere millecinquecento copie in pochi giorni. Evidentemente, le classi che leggono si indentificano meglio negli slanci d’dannunziani piuttosto che nelle dure denunce proposte da Verga.

Luigi Capuana e Giovanni Verga fanno una scelta non facile: raccontare la realtà, il mondo e l’Italia alla maniera dei naturalisti francesi.

 

LA NARRAZIONE REALISTICA

Voler raccontare il mondo in maniera fedele implica la scelta di rappresentare i fatti in modo verosimile.

Gli eventi realmente accaduti o che potrebbero accadere realmente sono il materiale per la costruzione di una narrazione realistica. I luoghi sono reali e non figurati; la collocazione temporale è ben definita e spesso si racconta usato i tempi verbali del passato. Il narratore non interviene nei fatti e non propone alcuna interpretazione. A fare da collante ai contenuti e ai modi vi è la forma: il linguaggio scelto deve essere coerente con il contesto rappresentato; ciò va tenuto bene in considerazione nell’uso del discorso diretto e indiretto, i modi dell’autore per riportare le parole dei personaggi.

Il narratore è nascosto ed esterno; anche la focalizzazione è esterna e gli eventi sembrano raccontarsi da sé. Tutto ciò è l’estremo opposto del narratore onnisciente che va a produrre un testo con focalizzazione zero, riuscendo a vedere ogni cosa e a imporre la sua presenza nell’interpretazione di personaggi e situazioni che vengono filtrati attraverso l’occhio di chi racconta, e che tutto sa.

Nella narrazione realistica si osserva e non si interpreta.

La rappresentazione del mondo tenendo conto della storicità e delle manifestazioni sociali ha radici profonde. Lo stesso Decamerone del Boccaccio ci fornisce un quadro della società mercantile e delle dinamiche relazionali ed economiche del tempo. Ma è nell’Ottocento che il realismo si afferma attraverso un fedele affresco della realtà, con metodologie peculiari. Da questa impostazione prende corpo la corrente letteraria del Naturalismo.

 

IL NATURALISMO

La corrente letteraria del Naturalismo cresce in seno al clima Positivista.

Il Positivismo era una tendenza di pensiero e azione che promuoveva una visione della conoscenza strettamente legata alla scienza e ai suoi progressi, con piena fiducia.

In ambito letterario, l’approccio che privilegia una visione sperimentale e oggettiva mostra le sue forme dall’opera di Gustave Flaubert, che parla di questo nuovo tipo di narratore il quale “Deve essere nella sua opera come Dio nella creazione”. Flaubert pubblica nel 1857 il romanzo Madame Bovary, ritraendo efficacemente la piccola borghesia francese attraverso lo sfacelo a cui vanno in contro le cieche e ridicole ambizioni della protagonista.

Il romanzo diventa il mezzo di una rappresentazione oggettiva, “fotografica” della realtà. L’arte si prefigge di essere lo specchio fedele del mondo, senza alcuna contaminazione da parte dell’autore. In tutto questo processo c’è la convinzione che si possa, in questo modo, dare un contributo al progresso dell’umanità.

I risultati della letteratura mirano a valori pratici, non prettamente etici o morali.

Il caposcuola fu Émile Zola (1840-1902). Il comportamento dei personaggi di Zola è determinato dal contesto: fisiologia e psicologia sono il prodotto dell’ambiente, del momento storico e dell’eredità sociale di un individuo.

Nel 1880, Zola pubblica il saggio Il romanzo sperimentale: il manifesto del Naturalismo. Secondo la visione espressa da Zola lo scrittore è un osservatore e uno sperimentatore. Chi redige un testo letterario non è più un interprete ma una sorta di scienziato che prende dei personaggi e li mette in un contesto a reagire con tutte le componenti sociali e ambientali. L’osservazione si completa con la sperimentazione che è l’applicazione di un “metodo” vero e proprio che possa permettere, poi, la registrazione dei fenomeni in modo impassibile. Le cause del comportamento sono viste come determinate in modo univoco. L’autore lascia “reagire” i suoi materiali umani e redige ciò che è riscontrabile in maniera oggettiva. Le riflessioni morali che possiamo trarre da questi testi non vengono accese dal lirismo, o dalla pietà di una scrittura che sia mossa dalla volontà di colpire i sentimenti o gli animi. Ciò che avviene nel lettore è un altro prodotto determinato dal contesto: dal nostro approccio a un testo e ad elementi con cui siamo messi a reagire. Spesso si parla dei testi del Naturalismo come di accuse morali; non vi sono accuse ma solo le fotografie di situazioni reali che hanno una loro voce autonoma, che riesce a ingenerare in noi riflessioni. Non siamo portati a pensare o ad avere pena o considerazioni perché l’autore ci propone un insegnamento (come ad esempio accade in Manzoni). Ciò che è reale è ciò che viene raccontato; ciò che viene raccontato è solo la realtà, di un esperimento fatto di cavie umane.

Il termine Naturalismo potrebbe trarre in inganno facendoci pensare che le trame raccontino la natura in senso stretto… in realtà, l’attenzione è in primis sulla società, che determina la natura umana.

La natura umana non è il soggetto primario e puro, in senso romantico, ma è un oggetto preso in esame attraverso un’analisi sperimentale.

 

IL VERISMO

Il rinnovamento dei meccanismi narrativi proposto dal Naturalismo viene ripreso in Italia da Luigi Capuana e Giovanni Verga. Sia nell’approccio francese che in quello italiano è riscontrabile il rifiuto del precedente romanzo storico, il quale celava un intellettuale di ceto agiato che mostrava un certo pietismo verso personaggi ed eventi; il tutto con il tocco evidente di un narratore che conosce ogni cosa… ma non la mostra in modo diretto scegliendo di filtrarla attraverso la propria onnisciente presenza.

In Italia vengono ripresi i mezzi dell’impersonalità e dell’oggettività. Verga, nella prefazione de L’amante di Gramigna, scrive che l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. È quindi evidente l’adesione ai temi della realtà, scegliendo di mettere il narratore al di fuori degli eventi raccontati. Mentre si diffondeva lo sguardo naturalista, l’Italia si avviava verso l’unificazione. L’unità della Penisola chiamava a una presunta accelerazione del progresso: in realtà le classi più umili vivevano ad una velocità assai lenta, come lenta appariva la crescita del loro benessere. Il contesto storico non può non giocare un ruolo nella traduzione italiana del Naturalismo, e ciò è coerente anche con i principi di quest’ultimo.

Come nel modello francese le opere letterarie vengono portate avanti con la volontà di non mostrare il processo di creazione. Ma cosa traspare se si confrontano le due modalità di narrare la realtà? Se si legge Verga è innegabile la presenza di un impegno morale, anche se non dichiarato. Lo scopo di una denuncia sociale traspare, in modo evidente. Rispetto ai romanzi francesi, che raccontavano di personaggi appartenenti alla borghesia su vari livelli, e di ambienti cittadini, il racconto realistico verista è lo specchio della realtà contemporanea ad autori e personaggi. Nel Verismo si prediligono gli ambienti regionali, piccoli e di campagna; anche perché era quella l’Italia di fine Ottocento.

Verga racconta la sua Sicilia con un forte pessimismo sociale fatto di riscatti mancati, di una condizione miserabile agghiacciante. Questo tipo di approccio stride con la fiducia positivista che permeava il Naturalismo. Se osserviamo i personaggi di Verga pare mancare totalmente la possibilità di un reale progresso individuale e sociale. Lo scrittore verista non fa lo scienziato perché non c’è effettivo distacco. Verga condivide lo stesso DNA e la stessa specie dei suoi soggetti… gli ambienti sono gli stessi, anche se le classi sociali di appartenenza sono differenti. L’autore mostra partecipazione… perché è, appunto, della stessa specie delle cavie messe ad agire nel loro ambiente per essere osservate.

 

IL VERISMO IN VERGA

L’attività giornalistica di Giovanni Verga lascia una profonda impronta nella sua scrittura: la parola tende all’oggettività e i pensieri e le parole dei personaggi vengono riportati fedelmente, senza epurazione. Le espressioni dialettali infestano testi che parlano da soli; però, la presenza dell’autore, come si è già osservato, non resta totalmente in disparte. La durezza dell’inchiesta sociale di Verga ha nel cuore i valori patriottici che si sentono feriti guardando a una popolazione che dopo l’unità non appare coesa, libera o migliore. Lo sguardo borghese dell’autore vede sfumati gli ideali di uguaglianza e progresso, e ne diventa il portavoce scegliendo di non abbellire o “romanzare” ma di riportare, descrivere, mostrare. Con un occhio puntato alla biografia di Verga, e l’altro sulla critica verso l’immobilità delle classi sociali e verso l’istituzione matrimoniale riscontrabile nelle sue opere, siamo obbligati a riunire i due punti focali. Molti elementi delle narrazioni dello scrittore sono gli stessi che hanno caratterizzato la sua esistenza, compreso il perenne senso di solitudine. A partire dalla geografia reale ed emozionale percorsa attraversando luoghi fisici e sociali che Verga ha realmente vissuto, e che hanno indubbiamente ingenerato in lui una compassione che non resta pietas pura e semplice… ma diventa denuncia. La visione di Verga è amara e non prospetta alcuna speranza. La sua ricerca non è asettica osservazione di contesti e “reazioni” ma è una fusione: lo scrittore entra nel parlato e nel mondo dei personaggi, nelle loro debolezze… e lo fa profondamente. Negli scritti di Verga, i ricordi dell’infanzia vengono passati attraverso il setaccio dei nuovi modi del narrare appresi negli ambienti letterari milanesi, diventando una cronaca che ha nel sangue versato anche il sangue dello stesso autore.

 

ROSSO MALPELO E ALTRE NOVELLE di Edizioni LA SPIGA

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

L’edizione presa in esame è datata 2013 ed è a cura di Moreno Giannattasio. Le illustrazioni sono di Marco Lorenzetti.

La nota introduttiva è una sorta di avvertimento su ciò che saremo portati a vivere: le novelle di Verga saranno le mani attraverso le quali vestire determinati panni e provare sentimenti segnati dalla fame, la rabbia e la paura. Vengono citati i demoni che siamo destinati a incontrare: la gelosia, la superstizione, la vendetta e l’avidità. Questa pagina di “benvenuto” non manca di far notare come saremo costretti ad ascoltare e imparare una nuova lingua, che è quella dei personaggi. Il libro promette, però, di portarci per mano… e questo si può avvertire nell’estrema cura di ogni dettaglio. Il pensiero finale, prima della lettura del materiale vero e proprio, è una riflessione sul grande valore della buona scrittura, quella che nutre la conoscenza.

Il volume prende Rosso Malpelo, La lupa e Jeli il Pastore dalla raccolta Vita dei Campi; La Roba e La libertà dalla raccolta Novelle Rusticane.

Rosso Malpelo è il duro racconto della terrificante realtà del lavoro minorile. I temi della condizione sociale italiana post-unitaria e della bestialità umana, tanto cari a Verga, sono i cardini dove si regge lo scricchiolante portone di una storia che non conosce il senso della casa e del conforto. Malpelo è una creatura nata con un destino segnato: è rosso di capelli e quello determina il suo nome e la sua natura. Il narratore non riflette sulla veridicità della pessima considerazione che la gente ha del protagonista, Verga riporta i fatti come vengono visti dai personaggi. L’incipit è noto ed esemplificativo:

“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che promettere di riuscire un fior di birbone.”

 Il ragazzo non ha mai conosciuto amore e delicatezza, è nato tra la polvere della miniera… e il tocco del padre è il solo, breve, gesto gentile mai sentito dalle sporche carni di Malpelo. Il genitore è Mastro Misciu Bestia: sì, una “bestia”. Nelle storie raccontate da Verga gli umili sono cani rabbiosi e muli da soma e asini da prendere a calci. Gli animali sono gli unici interlocutori che sembrano dialogare sinceramente con i protagonisti umani, ma sono anche l’oggetto della violenza di quell’umanità schiacciata dalla vita. La sorte del padre di Malpelo segna la vita e il carattere del ragazzo ancora di più… da quel momento non ci sarà che violenza, una violenza che è anche il solo mezzo attraverso il quale Malpelo riesce a mostrare tutti i suoi sentimenti, anche quelli migliori. Il ragazzo ha una costituzione forte e una prestanza fisica che paiono più simili all’animale da lavoro che all’uomo; tutta questa forza trae origine da una rabbia che è un urlo di rifiuto verso la vita stessa, e questo si capirà alla fine di questa triste vicenda. Gli unici esseri viventi che sembrano meritare un minimo di tenerezza da parte di Malpelo sono un povero asino grigio e un ragazzo gracile e zoppo chiamato Ranocchio; entrambi assaggeranno la cura del protagonista… fatta di calci e botte e male parole. Malpelo conosce solo la violenza e pensa che soffrire sia una sorta di vaccino alla vita: lo ripete a Ranocchio e lo pensa mentre fa stramazzare a terra gli asini della miniera a forza di angherie.

Malpelo riesce a guadagnarsi il nostro sgomento e il nostro odio… e qui sta la magnificenza della scrittura di Verga. Leggendo questa novella ci si trova davanti a un disprezzo della vita che forse ci fa riuscire a guardare le stelle con uno spirito diverso. Una creatura della miniera guarda al cielo come a un estraneo… la luce non è contemplata nella vita di Malpelo e degli operai del sottosuolo. I cani rosicchiano le carni putrescenti di un asino morto, una madre piangerà un povero figlio vinto dalla malattia… Malpelo osserva e non avverte speranza alcuna. La rabbia è il veleno più insidioso dell’esistenza.

La Lupa è una storia di donne, ma non è la vicenda di femmine ispiratrici e combattive o pure. La novella è contesa da una donna che è una bestia selvatica avvinta dal fuoco degli istinti incontrollati, e da una giovane che si piega all’unico altro destino che sembra toccare a un personaggio femminile. Una è una poco di buono e l’altra sarà solo una moglie che sforna figli e inghiotte rospi amari.

Le due donne sono madre e figlia… e nel mezzo? Nel mezzo il pezzo di carne che la Lupa vuole spolpare: Nanni.

Nanni è un giovane che pare riunire in sé le virtù dell’uomo ligio, e grande lavoratore. Il giovanotto vuole prender moglie e la vuole graziosa, pacata… e ne avrà una, e avrà tanti figli; come è deciso che sia, sempre.

Nanni cerca di resistere alla tentazione proveniente da neri capelli e seni brucianti, da una bestia che schiuma di voglie sommesse, su un pagliericcio messo a terra. Nanni cederà? Cosa può diventare l’uomo che cede agli istinti e si scontra contro il sottile vetro che separa onore e dovere e desideri e istinti bestiali?

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Lupa, Edizioni La Spiga, 2013

La roba è una storia che non è fatta di azione ma di elenchi. Veniamo accompagnati attraverso territori bellissimi e fecondi… ma non riusciamo a godere di bellezze e profumi, iniziamo solo a sentire il peso del lavoro, dell’avarizia, della vita senza godimento… e ancora di lavoro e di sacchi di grano infiniti. Questa novella è la storia di Mazzarò, e Mazzarò non ha una storia vera e propria o una vita: quest’uomo è la sua roba. Gli elenchi delle terre e dei beni sono la pelle, le braccia e il sangue di Mazzarò. Potremmo pensare che un onorevole lavoro ben ripagato sia un ottimo esempio da raccontare: niente di più sbagliato. La storia di Mazzarò è fatta sì di lavoro ma anche di furberie, di prevaricazione e mania. Se la vita di un uomo diventa soppesabile non nello spirito e nelle gioie ma solo nei numeri e nei pesi stilati in un elenco… cosa succede quando quell’uomo muore? Se Mazzarò è la sua roba e la roba pare essere solo di Mazzarò… cosa resta? La roba che valore ha per voi? Questa novella è un modo per riflettere su cosa sia il benessere, il progresso e il riscatto.

La libertà è la versione romanzata di fatti realmente accaduti. Nell’agosto del 1860 ci furono delle lotte sanguinose presso Bronte; il problema dello sfruttamento delle terre demaniali avevano fatto “imbestialire” il popolo che si scagliò ferocemente sui galantuomini, ma anche su donne e bambini. Chiunque non fosse della stessa umile razza dei rivoltosi veniva ucciso a colpi di ascia, per schiacciamento… veniva massacrato come nel giorno in cui si uccidevano i maiali.

Il Comitato di guerra creato da Garibaldi inviò a Bronte un battaglione di Garibaldini guidati dal generale Nino Bixio. 150 persone furono giudicate nel giro di poche ore e cinque persone furono condannate a morte. Tra i giustiziati anche due innocenti: il pazzo del paese e un uomo che aveva avuto la colpa di essere stato nominato dai rivoltosi come possibile sindaco; quest’ultimo era un avvocato (un altro galantuomo ucciso, però, dalla giustizia). Bixio si piegò al suo dovere provando fastidio, fatica e disprezzo; in una lettera inviata alla moglie scrisse:

“Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili!”

In questa novella la libertà non solo non appare possibile, dato che quando si calmarono le acque tutti gli umili si sentirono persi senza i galantuomini, ma non è nemmeno adatta a quegli ignoranti che conoscono solo soprusi, privazioni e odio, subiti e gentilmente restituiti. L’ignoranza è ciò che rende l’uomo della terra incapace di comprendere e riscattarsi.

Proprio l’ignoranza è una delle “virtù” del protagonista dell’ultima novella Jeli il pastore. La scelta di inserire per ultima questa storia è davvero intelligente. Jeli racchiude nella sua vicenda personale tutte le miserie e le sferzate della vita come la racconta Verga. L’incapacità di emanciparsi davvero dalla propria, e miserabile, condizione… le falsità e i dolori che caratterizzano l’istituzione matrimoniale; neanche l’amicizia, che inizialmente sembra rischiarare questa novella, riesce in alcuna missione, anzi. L’ignoranza di Jeli e il suo animo fondamentalmente buono si riassumono in un foglietto che il pastorello porta con sé: quel foglio ha sopra il nome “Marta”; la scrittura non è, ovviamente, di Jeli. Il protagonista comprende più le sue bestie che gli altri suoi simili, anche perché i suoi simili sono diversi da ciò che la loro natura li chiamerebbe a essere. Ma dopotutto cos’è l’uomo? Forse la vera umanità non sta nel non cedere alle tentazioni e nel non incontrare i “cattivi” sentimenti; forse l’umanità sta nell’accettare il lato bestiale: comprenderlo e saperlo gestire. In fine, l’umanità animale di Verga si consuma nello sfacelo perché non sa chi è, non conosce altro che il lavoro e la fatica… le braccia e la testa e il cuore non hanno un qualcosa che li possa conciliare e armonizzare.

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Libertà, Edizioni La Spiga, 2013

Alla fine del volume ci sono degli apparati molto interessanti, rari da trovare in un’edizione per adulti. Ciò che è estremamente apprezzabile delle versioni didattiche è la missione di informare su autore e contesto storico in modo semplice, diretto e pertinente. Forse un giorno si smetterà di pensare che gli adulti non hanno bisogno di essere formati ma solo imboccati di nozioni.

Devo dire che sono ben felice di aver acquistato questo libro. Se volete leggerlo anche voi potete approfittare della mia AFFILIAZIONE AMAZON, e acquistare cliccando QUI: si aprirà la pagina Amazon del prodotto, e se sceglierete di prenderlo con voi il blog potrà avere la possibilità di avere una piccola percentuale, da reinvestire in tanti altri libri sui quali discorrere insieme. Buona Lettura! 

  

venerdì 17 luglio 2020

ERNEST HEMINGWAY

IL VECCHIO E IL MARE

Ph. Francesca Lucidi

HEMINGWAY, IL “PAPA”

Cenni biografici

Ernest Hemingway fu un uomo solido, coraggioso… la personificazione del mito dell’Americano forte e indistruttibile. Come tutti i miti, purtroppo, vengono chiamati in causa il “cammino”, la tragedia e i simboli. Hemingway era come un iceberg, e questa similitudine ha le sue ragioni, che vedremo con calma.

La sua fu una vita avventurosa, che fatichiamo a immaginare intorno a un solo uomo.

Entriamo nel dettaglio, che ne dite?

Beh, lui ebbe ben quattro mogli; è stato padre e combattente. Ha attraversato due Guerre Mondiali, dittature. Hemingway ha percorso  continenti e visto i leoni; è sopravvissuto a incidenti potenzialmente mortali, ha tirato di boxe e ha ottenuto le sue belle soddisfazioni. Tutto questo è stato facile? Le vincite facili sono anch’esse un mito.

Dal fuoco delle bombe, lo scrittore è arrivato alla Guerra Fredda… anzi, a due Guerre Fredde: una storica e una personale.

Ernest Hemingway nasce ad Oak Park, negli USA, nel 1899. Suo padre era medico e proprio insieme al suo papà Hemingway ha conosciuto e vissuto la natura dei Grandi Laghi: la pesca, la caccia e la vicinanza con gli Indiani d’America. Ernest non va all’università: dopo i nostri “studi superiori” inizia subito a scrivere e a lavorare come cronista per il Kansas City Star.

Nel 1917 gli Usa entrano in guerra. Ernest non viene arruolato per un difetto all’occhio sinistro, però il Nostro non si arrende e riesce a partecipare al conflitto come autista volontario nella Croce Rossa. Viene mandato in Italia sul fronte del Piave e viene ferito; ricoverato a Milano vi resta diverso tempo.

Torna in patria come un eroe. Inizia a impegnarsi nella scrittura di racconti ma la madre vede questa attività come una perdita di tempo. Ernest si trasferisce a Chicago e inizia a lavorare per il Toronto Star e lo Star Weekly.

La sua lunga sfilza di matrimoni inizia con una donna più grande di lui di sei anni: Elizabeth Hadley Richardson. La donna gode di una cospicua rendita e i due progettano di andare in Italia. In realtà, la meta diventa Parigi, dove lo scrittore conosce importanti personaggi della Lost Generation[1] come Ezra Pound e Scott Fitzgerald.

Poi, lo scrittore scopre la Spagna e durante il suo soggiorno entra in contatto con le tradizioni locali come la corrida. Tra il 1923 e il 1926 vengono pubblicati Tre racconti e dieci poesie, Torrenti di Primavera e Fiesta. Arriva il primo divorzio ed Hemingway scrive contestualmente Uomini senza donne.

Sposa Pouline Pfeiffer, nasce un altro figlio. La famiglia si trasferisce in Florida e lo scrittore termina Addio alle armi.

I viaggi si fanno sempre più intensi e tra le varie mete spicca l’Africa. Ernest e Pouline si godono anche un lungo Safari; lo scrittore, durante il viaggio, viene però colto da una grave dissenteria che gli provoca il prolasso dell’intestino. Questo problema di salute è solamente uno tra i tanti che tra le mille avventure incontreranno il volitivo Hemingway. È da ricordare un bizzarro infortunio causato da un sacco da boxe.

La personalità e la fisicità dello scrittore sono ormai leggendarie; gli amici finiscono per soprannominarlo “IL PAPA”.

Il rapporto di Ernest con la Guerra e le battaglie di mezzo mondo resta il più duraturo nella vita dello scrittore. Scoppia la guerra civile in Spagna, e nel 1937 Hemingway abbraccia questa nuova avventura portando avanti con passione e cieca abnegazione il suo lavoro di corrispondente.

Durante l’attività sul fronte spagnolo incontra la scrittrice e giornalista Martha Gellhorn, conosciuta, però, un anno prima negli Stati Uniti… a Key West, dove lo scrittore aveva vissuto una tranquilla parentesi familiare con Pouline e i figli.

Nel 1939 Ernest si trasferisce a Cuba; lì si gode la sua leggendaria barca: Pilar, acquistata qualche anno prima tra i suoi viaggi e i suoi altri soggiorni a Cuba.

Questo periodo è però segnato dalla rottura del suo secondo matrimonio e dal consolidamento del rapporto sentimentale con Martha.

Nel 1940, lo scrittore pubblica Per chi suona la campana. Il romanzo trae ispirazione dalle vicende della Guerra Civile Spagnola. La Gellhorn ha spinto molto per la redazione di quest’opera. Per chi suona la campana sfiora il Premio Pulitzer. Martha ed Ernest si sposano.

Hemingway non resta mai fermo da qualche parte, e anche i suoi manoscritti viaggiano insieme a lui: Per chi suona la campana viene scritto tra Cuba, la residenza estiva in Idaho, e il Wyoming.

Nel 1941 Martha viene mandata in Cina, per il suo lavoro da giornalista. Hemingway la raggiunge ma non prova la stessa attrazione avvertita per altri luoghi e i due tornano presto a Cuba, prima della dichiarazione di guerra degli Stati Uniti. Lo scrittore salpa con la sua leggendaria Pilar e inizia a pattugliare le acque cubane alla ricerca di sottomarini tedeschi. Hemingway è così convinto della sua missione che ha equipaggiato la sua barca con bombe e mitragliatori. Il governo cubano è a conoscenza dell’attività dello scrittore che, infatti, prosegue nella caccia agli U-Boats tedeschi proprio dietro approvazione governativa (il piano viene presentato a Washington dall'ambasciatore americano a Cuba). Quest’atto porta lo scrittore sotto il mirino dell’FBI che, da quel momento, lo sorveglierà per tutta la vita…

Hemingway viene mandato in Europa come corrispondente di guerra nel secondo conflitto mondiale. A Londra conosce Mary Welsh, di cui si infatua immediatamente mentre il rapporto con Pouline è al capolinea.

Il 6 giugno del 1944 partecipa allo sbarco in Normandia. Come semplice testimone dei fatti lo scrittore non dovrebbe intervenire direttamente… ma Hemingway non è abituato a starsene con le mani in mano, a scrivere solamente. Il “Papa” arriva persino a guidare una milizia poco fuori Parigi, e la cosa non passa inosservata. Il coraggioso Ernest viene accusato formalmente…  nonostante questo, però, riceve la medaglia di bronzo per il coraggio dimostrato durante la Seconda Guerra Mondiale, ma solo nel 1947.

La salute dello scrittore diventa sempre più precaria e il suo rapporto con la scrittura diventa piuttosto complicato. Ciò che ancora non scema è la sua irrequietezza, la sua eterna ricerca. I viaggi continuano ed Hemingway viene richiamato dal fascino europeo; in realtà, ciò nel senso più stretto del termine dato che a Venezia si infatua, addirittura, di una diciannovenne.

Tornato negli Stati Uniti, termina le bozze de Il vecchio e il mare in poche settimane. Il romanzo, che lo scrittore aveva intrapreso con l’intento di creare la sua opera migliore, viene pubblicato nel 1952. La breve storia di Hemingway vende milioni di copie in due giorni… e questa volta sì, vince il premio Pulitzer.

Saremmo tentati di pensare che a quel punto lo scrittore si sarebbe potuto sentire “a posto”, con la fortuna e con la sua coscienza di scrittore. In realtà no. Hemingway decide di tornare in Africa.

Durante il soggiorno nel continente africano, lo scrittore viene coinvolto in ben due incidenti aerei e viene dato per morto. La vita di Ernest, invece, vince ancora la fortuna. Hemingway riporta gravi ferite e ulteriori traumi… che vanno ad aggiungersi a quelli regalati da tutti i precedenti scontri con la morte.

Nel 1954 viene insignito del Premio Nobel. Lo scrittore accetta il premio in denaro ma non si reca a Stoccolma per la premiazione: la sua salute inizia a piegarsi sotto i colpi di quella fortuna che sembra aver sempre battuto.

A Cuba, il rifugio preferito di Hemingway inizia ad essere in pericolo. Castro è intenzionato a nazionalizzare le proprietà degli americani, lo scrittore e la moglie lasciano così Cuba per l’ultima volta, nel 1960. Beni e manoscritti vengono messi al sicuro in una banca dell’Avana. In realtà le proprietà di Hemingway verranno espropriate dopo gli eventi della Baia dei Porci; la moglie dello scrittore chiederà aiuto al presidente Kennedy che riuscirà a intervenire con successo: ciò che verrà recuperato sarà donato dalla vedova al Museo Presidenziale. In verità, Castro non ha ceduto senza nulla in cambio: durante l’incontro con la vedova, organizzato grazie all’impegno del Presidente, si riuscirà a riavere documenti e manoscritti solo dopo la donazione da parte della vedova della tanto amata residenza cubana di Hemingway.

Lo scrittore continua a rimaneggiare manoscritti ma inizia ad avvertire difficoltà nell’organizzare le stesure. Va in Spagna e viene fotografato dalla rivista Life… ma non il suo stato di salute appare sempre più provato, a tutti.

Il vigoroso corpo di Hemingway e la sua mente lucidissima iniziano ad abbandonarlo ed egli si presenta sempre più sofferente e preoccupato.

Lo scrittore viene ricoverato alla Mayo Clinic nel Minnesota, sotto falso nome; l’FBI, però, che lo tiene nel mirino dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, viene subito a conoscenza della difficile situazione di Ernest Hemingway.

Dopo le dimissioni, e il ritorno nell’Idaho, non vi è alcuna evidente ripresa. Lo scrittore viene trovato con in mano il suo fucile… e viene ricoverato per una seconda volta. Al quadro clinico difficile di Hemingway si era aggiunto un problema alla vista, che lo affliggeva particolarmente  perché gli toglieva la possibilità di continuare la sua più grande partita con la fortuna e con se stesso: la scrittura.

Alla fine, Hemingway si spara nella sua casa di Ketchum, in Idaho. È il 2 luglio del 1961.

Anche suo padre, anni prima, aveva deciso di suicidarsi per sfuggire a un male incurabile; in realtà si è molto ipotizzato su problemi di salute ereditari al sangue, che potrebbero aver minato la salute fisica e mentale di molti membri della famiglia Hemingway. Si è addotto anche ai numerosi traumi cranici che avrebbero potuto portare a un deterioramento della mente dello scrittore. Alla fine, si cerca sempre di spiegare ciò che è terribilmente doloroso, si cerca di sopravvivere ponendo spesso domande che non hanno risposta. Negli anni successivi alla morte dello scrittore, si suicidano anche la sorella Ursula e il fratello Leicester.

Quando lo scrittore riceve il Nobel, anche se non si reca a Stoccolma, manda un discorso da leggere pubblicamente. Nel discorso spiccano parole dure, chiare e che esplodono di significati forti… come tutta la scrittura di Hemingway:

“SCRIVERE, NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI, È UNA VITA SOLITARIA.”

 

IL PRINCIPIO DELL’ICEBERG, e dopo mezzogiorno a nuotare…

Per comprendere la scrittura di Hemingway basta aprire a caso uno dei suoi romanzi: se leggiamo poche righe sembra di trovarsi dinanzi a un articolo di giornale. Non è da dimenticare che Hemingway fu un corrispondete di guerra: uno abituato a vedere gli orrori peggiori senza far “poesia”. Il sentimento dello scrittore non traspare, almeno non nell’immediato. Tutto è diretto, riferito, oggettivo.

In verità, nel complesso tutto ciò che viene descritto e riportato ha echi, significati nascosti che non vengono resi attraverso termini difficili o voli pindarici: l’oggetto più semplice, il pesce più piccolo e l’uccellino più insignificante diventano la personificazione di un concetto, di un sentimento personale del personaggio, del romanzo o dell’uomo in generale.

Nel maggio del 1954, Ernest Hemingway risponde alle domande di George Plimpton, durante un’intervista rilasciata a Madrid. In quella chiacchierata emerge il “principio dell’Iceberg”: sostanzialmente i sette ottavi di uno scritto sono sommersi… lo scrittore conosce tutto ma ne mette la maggior parte sott’acqua.

In fine, ciò che appare oggettivo e striminzito è una totalità che parla attraverso frasi corte, facili. Essere facili è estremamente difficile… così dice Carver (e non lo cito testualmente), e ciò ci mostra Hemingway.

L’idea romantica che abbiamo sulla scrittura spesso è un costrutto di fascinazione e poca conoscenza. Sì, è vero che gli scrittori sono gente strana… ma dietro vi è conoscenza, metodo e vita. L’abnegazione è indubbia quando si parla di grandissime penne come Hemingway, che presumibilmente ha scelto di uccidersi pur di non vedersi impossibilitato a scrivere. Ma ciò che si scrive viene solo dalla mente? Perché quando affronto un autore per la prima volta mi piace dilungarmi proponendo dei cenni biografici? È davvero evidente che la vita è il grembo da cui gli artisti portano alla luce storie, sentimenti e convinzioni… filosofie. Unisci la vita all’abilità e alla pratica costante e, se la fortuna ci mette del suo, ecco che può venir fuori il capolavoro.

Hemingway è riuscito a partecipare a due Guerre Mondiali, a sposarsi quattro volte, a girare mezzo mondo e ad esser mezzo morto per decine di volte… e a scrivere grandi capolavori vincendo il Nobel. Davanti a questi esempi è difficile non sentirsi abbastanza inetti. Ma, in realtà, dovremmo pensare che partire da esempi e dimenticarsi di vivere la propria vita per prendersi le proprie verità è una follia; questo ce lo dimostra lo stesso Hemingway, e basta guardare al modo in cui egli si rapportava alla scrittura. Lui scriveva al mattino, in piedi, e appuntava un numero di battute che doveva raggiungere su una tabella. A mezzogiorno chiudeva tutto e andava a farsi un bagno in piscina. Ecco tutto. L’emulazione è un brutto tarlo, ma sicuramente possiamo trarre ispirazione dalle vite dei grandi artist. Ricordiamoci innanzitutto di vivere E DI NON SCONTRARCI CONTRO QUALCHE ICEBERG: è meglio pensare alla profondità prima di fermarsi sulla pericolosa apparenza.

 

IL VECCHIO E IL MARE: accenni di trama, lo stile e il gioco del “trova i temi”

Santiago è il protagonista di questo romanzo, anzi, è uno dei protagonisti; e Santiago non è solo ciò che sembra. Questo personaggio è vecchio e la sua anzianità va oltre il conto degli anni e si misura tramite i giorni e le notti in mare… e tutte le sfide che ha dovuto affrontare tra il sole cocente, l’uccisione di innumerevoli esseri marini… e gli ancor più innumerevoli addii; siano essi alla moglie defunta, alla “fortuna” o ai tanti luoghi attraversati su un’imbarcazione. La storia è ambientata a Cuba, nelle acque del Golfo e sotto le luci delle stelle e dell’Avana.

Sono ottantaquattro giorni che Santiago non pesca nulla. La descrizione del suo aspetto fisico sembra sottolineare quella vecchiaia non solo anagrafica che lo affligge. Santiago ha la parte posteriore del collo solcata da rughe profonde, il viso è segnato dai tumori della pelle e dalla vita in barca fatta di sole cocente, di freddo vento notturno e di fatica inimmaginabile, per noi. Il vecchio è un solitario e vive in una capanna umile e spoglia, senza nulla di confortevole. A prendersi cura di lui solo un ragazzo di nome Manolin.

Manolin ha iniziato ad andare in mare da bimbo, e proprio con Santiago. Da qualche tempo, però, Manolin è andato a pescare su un’altra barca per volontà dei genitori… perché il vecchio è, oramai, salao: è sotto i colpi della più terribile sfortuna. Il ragazzo ha dovuto seguire gli ordini del padre, e va a prendere pesci su una barca che non è quella di Santiago con la vela consunta e rattoppata con dei vecchi sacchi di farina. Manolin, però, non abbandona il vecchio e si prende cura di lui come farebbe il figlio più amorevole. Il ragazzo fa finta di credere alle stringate frasi di rassicurazione di Santiago… che si alternano a bugie buone e alle informazioni su pasti mai consumati. Manolin, grazie alla solidarietà di quel posto di pescatori, riesce sempre a procurare del cibo caldo al vecchio. I due mangiano insieme e parlano del Baseball. La realtà umile e “fuori dal tempo” di quel porto cubano entra in contrasto con il sogno americano che ha il volto del grande Di Maggio, il giocatore di Baseball che Santiago ammira tanto… anche perché il padre del grande Di Maggio era pescatore, e forse quell’idolo mondiale potrebbe capire… forse.

Santiago ogni mattina va a svegliare il ragazzo e i due fanno parte l’uno della quotidianità dell’altro. Il vecchio è solo, ma non troppo: ha Manolin, e ha il mare. L’acqua è la vera casa di Santiago, e lì entra in contatto con i suoi fratelli che sono i pesci, anzi tutte le creature dell’acqua e del cielo.

Un giorno, il vecchio parte con la convinzione che quella giornata di pesca sarebbe stata diversa. Manolin lo accompagna all’imbarcazione, gli procura la colazione e insiste per aiutarlo con i pesci che serviranno da esca. Santiago parte… e va molto al largo. La decisione di spingersi verso un certo punto, così lontano, sarà ciò che porterà vittoria e rovina.

Oramai tutti sappiamo che Santiago avrà a che fare con un Marlin, un pesce enorme. Non tutti, ma la maggior parte di voi, probabilmente, saprà se Santiago prenderà il pesce o no. La pesca di quell’enorme e “nobile” creatura si estende per giorni, ma occupa la prima parte del romanzo e potremmo venir disorientati pensando che la questione si potrebbe considerare risolta. La fortuna, però, ha il suo bel da fare… anche se uno è “a posto”: Santiago crede di essere perfettamente pronto a tutto, perché è convinto che la fortuna può arrivare in ogni momento, anche se non si sa quando, e un uomo devi farsi trovare “a posto”. Santiago si renderà presto conto delle cose che non aveva considerato prima della partenza: molte cose non sono affatto pronte, tante eventualità vengono dimenticate… perché ottantaquattro giorni di inattività annebbiano la mente più della fatica.

Ciò che colpisce durante la lettura è che sembra di leggere una cronaca. Tutto viene riportato in maniera pulita e oggettiva. Gli eventi sono raccontati tra i pensieri della gente di quel luogo che vive grazie al mare, riferiti senza alcun commento e fortificati dall’uso di termini nella lingua madre di Santiago. Lo stile è maschile e vigoroso: non si perde in chiacchiere e in metafore pindariche… anche se tutto è in realtà allegorico. Mentre il mare ci culla tra la corrente e i pesci che tirano le lenze, possiamo godere della dolcezza dello sguardo che Santiago riserva a tutte le creature. I poli della compassione e della necessità si mettono su un tavolaccio umido e consunto dal sale e giocano a braccio di ferro. Anche Santiago era stato, un tempo, un campione di braccio di ferro… Santiago, tanti anni prima, era stato EL CAMPEON.

Il vecchio è un pescatore e la gente tra le capanne si nutre grazie ai pescatori. Chi non è pescatore si nutre comunque del lavoro di mani callose e braccia corrose dal sole. Pescare e uccidere è una necessità imprescindibile. Anche gli animali uccidono: ognuno ha il suo ruolo e lo persegue senza remore. Santiago fa ciò che deve fare ma non manca di addolorarsi della sorte degli uccelli più indifesi del cielo, e di provare pena nel ricordare quando, con Manolin, catturò un grande Marlin femmina mentre il maschio non la lasciò per tutto il tempo… alla fine i due pescatori si affrettarono a uccidere il grande pesce a bastonate, per compassione, senza esitare. A volte l’esitazione è un prolungamento della pena. Al lettore tutto potrebbe apparire estremamente crudele, a partire dal racconto di come i pescatori amano accanirsi sulle tartarughe solo perché il cuore di quella specie continua a battere per lungo tempo dopo la morte. Santiago, però, è diverso: pensa alle tartarughe constatando quanto quei cuori e persino quelle zampe siano quelle di una creatura affine. Per Santiago i pesci che uccide e gli uccelli che vede assassinati da uccelli più grandi sono FRATELLI. Anche il grande Marlin che abbocca al suo amo così “a posto” è suo fratello. Il lirismo di questo romanzo si mostra tra i pensieri e il parlar da solo di Santiago. Si sa che i pescatori non amano parlare; ma da quando il ragazzo ha abbandonato il vecchio quest’ultimo ha iniziato a parlar da solo a voce alta. Santiago si rivolge a ogni creatura, da quelle bellissime e fragili che gli nuotano o volano intorno, fino a quelle che uccide e di cui si ciba non per gola ma per rendersi forte. La transustanziazione del mare, attraverso la materialità di prede svariate, e soprattutto di una che Santiago si pente di aver acciuffato dopo essersi rotto la schiena e le mani. Il vecchio si ciba dei fratelli che vivono nel mare, e quei pasti ci appaiono qualcosa di più di una semplice sussistenza, anche se così ci vengono raccontati.

 Santiago non manca di dialogare con se stesso, con Dio, o forse con l’idea che si ha di Dio… e con la sua mano sinistra. Tutto il corpo del vecchio si piegherà alla più grande battuta di pesca della sua vita. La mano sinistra è afflitta da continui crampi, la sola cura che conosce Santiago è fatta di dialoghi alla stessa mano, di acqua di mare e del calore del sole.

Non possiamo non tifare per il vecchio, ma da un lato tifiamo anche per il suo avversario… e anche Santiago fa il suo dovere addolorandosi di quello che c’è da fare. In lui c’è sensibilità, c’è cuore; lui è però un pescatore e i pescatori sono nati per prendere pesci, come Di Maggio è nato per il Baseball e il padre di Di Maggio era nato per essere anch’egli un pescatore, come il vecchio.

In questo romanzo uno dei tanti protagonisti è l’onore, anche se Santiago riflette più volte sul fatto che l’uomo è più forte perché inganna.

Per tutto il romanzo abbiamo a che fare, praticamente, con un solo uomo… così sembra: ci sono anche la Fortuna, l’onore, le necessità; i pesci volanti, i delfini e i dentusi; i sogni di Santiago che vede i leoni che una volta scorse su una spiaggia, in Africa. Ci sono anche tutti gli elementi naturali: il vento, la luna e le stelle. Santiago si rallegra che l’uomo non debba uccidere le stelle; quell’uomo che può morire ma non essere battuto. Santiago sarà un vincitore o un perdente? Ho paura che la risposta non ci sia o che ognuno di voi ne possa avere una, diversa da quella degli altri fratelli lettori.

L’osservatore che sembra non smettere mai di fissare silenziosamente la vicenda è l’oceano.

Santiago si rivolge alle acque marine chiamandole al femminile, apostrofandole con l’espressione la mar. Tutti quelli che amano il mare gli parlano come a una donna… anche perché il mare va dietro alla luna, come le femmine dell’uomo. I giovani pescatori usano l’espressione el mar, al maschile, come rivolgendosi a un avversario da battere a pugni.

Santiago combatterà duramente con diversi avversari, in quei tre giorni solitari al largo. Il suo sfidante principale è un fratello, è messo al maschile ma la lotta non è fatta solo di violenza e sofferenza ma anche di amore, un amore che non è romantico e non è poetico. Pensando alle lunghe giornate di guerra vissute da Hemingway non si può cogliere l’evocazione di valori militari e di drammi e necessità che solo la guerra può portare. Nel combattimento ci sono ruoli e cose da fare, simile contro simile: c’è chi è spietato e sadico e chi fa il dovere che è chiamato a compiere sapendo anche piangere per il fratello nemico.

In questo breve romanzo, fatto di oggettività e pochi fronzoli, dobbiamo stare attenti a guardare sotto la superficie dell’acqua; o possiamo pregare che ciò che si nasconde sotto il velo possa saltare fuori e farsi vedere, finalmente. Quest’ultima riflessione la capirete leggendo il romanzo.

Siate pronti a soffrire e sentire la fame e la sete. Cercate di non farvi distrarre dalla stanchezza perché la fortuna non smette mai il suo gioco. Possiamo però sperare che ciò che salva l’uomo, anche se l’uomo uccide, è la solidarietà che può giocarsela molto bene con gli inganni della fortuna… che credo sappia barare molto meglio degli uomini.

 

LA VERSIONE GRAFICA DELLA NICOLA PESCE EDIZIONI

Questo fumetto è stato per me un colpo di coraggio. Non sapevo se sarei riuscita a formulare un’opinione dato che non sono un’esperta del genere e amo molto il romanzo Il vecchio e il mare.

Iniziamo dal fatto che la lettura della breve introduzione mi ha rassicurata e mi sono sentita “sorella” di questo progetto editoriale. Lo sceneggiatore Andrea Laprovitera parla della nascita dell’idea, partendo subito da un concetto che può riassumere il romanzo e anche lo stesso Hemingway, se si mette da parte il tragico suicidio e le sue sfumate motivazioni. Laprovitera parte analizzando cos’è la RESILIENZA:

“Resilienza: capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento. In psicologia si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di restare sensibile a quello che il mondo o la vita può (ancora) offrire.

Chissà se Hemingway voleva parlare di questo (o anche di questo) quando nel 1952 ha scritto Il vecchio e il mare.”

Il concetto di “resilienza” è sicuramente divenuto famoso specialmente negli ultimi anni, tra tatuaggi e aforismi infestanti. Chissà se dieci anni fa si pensava alla “resilienza” quando si leggeva questo romanzo. Io, sinceramente, non ci ho pensato.

Continuando a godermi l’introduzione ho avuto l’impressione di parlare con un amico; anche perché la sera prima avevo detto delle cose molto simili parlando, in casa, del romanzo appena riletto.

Lettori, lo dice Laprovitera, e io lo confermo: IL VECCHIO E IL MARE, una volta letto, si rileggerà più volte… e in diversi momenti della vita.

Concordo anche sull’efficacia del lavoro del disegnatore, Ludovico Lo Cascio, evidenziata dallo sceneggiatore. Io non sono un’esperta ma sono una lettrice… e a me le “nicchie” non piacciono, perché i prodotti di nicchia spesso sono tali per l’atteggiamento snob non di chi ama determinati prodotti ma di chi non tenta nemmeno di approcciarsi a qualcosa di “diverso” dall’edizione canonica e confortante, da leggere composti sulla propria poltrona.

Lo stile del disegno è rispettoso: il creatore della parte grafica si è messo al servizio della storia senza mettere in mezzo la questione del “IO HO IL MIO STILE”. Il fumetto è interamente in bianco e nero, anche se la copertina è meravigliosamente viva e colorata. Lo stile di Hemingway e il romanzo sono fatti di azioni, dialoghi e silenzi: il fumetto è fatto di Santiago che pesca, che parla e che lotta. Se non ci sono le parole c’è il mare e c’è il volto segnato del vecchio. Come ho già detto, questa storia può avere diverse interpretazioni e quella di questo fumetto è una delle possibili. Per trasformare un romanzo in una sceneggiatura bisogna fare scelte coraggiose. Gli incontri di Santiago vengono ridotti all’osso, e forse io avrei scelto di inserirne altri; però, il modo in cui viene resa la gestualità e viene onorato l’AVVERSARIO principale è meraviglioso. 

 Questo fumetto è come Hemingway: non si perde in orpelli e ci mette davanti la realtà nuda e cruda, non mancando di mostrare simboli che spiazzano (ma non voglio svelarvi troppo).

L’editoria dovrebbe essere una custode della letteratura; reinterpretare un grande classico è un modo per fare quello che si deve fare… ma senza dimenticare l’emozione, la commozione, e una giusta attrezzatura. Alla fine, questo è lo “Stile Santiago”.

Consiglio di leggere integralmente il romanzo e di provare, in seguito, con questa versione grafica. Avrei voluto che si inserisse la parte sulla dicotomia tra el mar e la mar; beh, però ho potuto vedere con occhi fisici e non solo mentali una delle battute di pesca più leggendarie della storia della letteratura, e forse della storia dell’uomo… di che mi voglio lamentare!

 Buona lettura...

 

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[1] Espressione resa famosa dallo stesso Hemingway che la utilizza per indicare gli scrittori che hanno raggiunto la maggiore età durane la Prima Guerra Mondiale.


sabato 11 luglio 2020

UNA BELLISSIMA STORIA DI LUIS SEPÚLVEDA SULL'AMICIZIA, IL CORAGGIO E IL RISPETTO DELLA NATURA

STORIA DI UN CANE CHE INSEGNÒ A UN BAMBINO LA FEDELTÀ

Ph. Francesca Lucidi. Libro in versione Ebook. Ugo Guanda Editore 2015.

LA VITA DI LUIS SEPÚLVEDA

Luis Sepúlveda nasce ad Ovalle, in Cile, il 4 ottobre del 1949. Già la sua venuta al mondo anticipa il peregrinare instancabile dello scrittore e la sua esistenza segnata dalle vicende politiche del Sud America.

Luis nasce in una camera d’albergo: i genitori sono ricercati per motivi politici, gli stessi che hanno costretto il nonno a fuggire dall’Andalusia. Il nonno era Gerardo Sepúlveda, detto Ricardo el Bianco, un anarchico.

Lo scrittore passa i primi anni della sua vita con il nonno a Valparaíso. In quel periodo un’altra figura importante è il prozio… ma ne parleremo tra un po', perché molto ha attinenza con il racconto in oggetto.

Nella sua infanzia impara l’amore per la narrazione; e anche per la lettura, prediligendo i romanzi di avventura.

Luis passa dalla lettura alla scrittura, e alla politica. All’età di quindici anni si iscrive al Partito Comunista.

A diciassette anni inizia l’impegno giornalistico presso il quotidiano Clarín, e lavora in radio.

Con il suo primo libro di racconti Crónicas de Pedro Nadie vince il Premio Casa de Las Americans e ottiene una borsa di Studio all’Università di Mosca. In realtà, Luis resta poco in Russia perché viene espulso per presunti contatti con dei dissidenti. Le voci sulle cause del suo allontanamento sono, però, molteplici.

Tornato in Cile, Luis viene espulso dal Partito Comunista. Il suo impegno politico e “rivoluzionario”, però, non si arresta: lo scrittore parte per la Bolivia e milita nell’Esercito di liberazione Nazionale, l’organizzazione di guerriglieri guidata da Ernesto Guevara, detto il Che, il quale era impegnato nella diffusione della rivoluzione popolare.

Luis torna poi in Cile e completa gli studi per diventare regista teatrale. Inizia a militare nel partito socialista e a sostenere con tutte le forze il presidente Salvador Allende, entrando anche nella sua guardia personale.

Purtroppo, il governo di Allende non dura… e l’11 settembre del 1973 i vertici militari prendono il potere e inizia così la dittatura guidata dal generale Pinochet. Allende resiste fino all’ultimo secondo, i militari irrompono nella residenza presidenziale dove i suoi fedelissimi sono costretti a consegnarsi… ma il Presidente non si arrende, non cede alle proposte di un presunto accordo e si spara con un Ak-47.

Luis Sepúlveda viene ARRESTATO e torturato; resta un carcere per mesi in una cella asfissiante. Lo scrittore ottiene la scarcerazione grazie all’intervento di AMNESTY INTERNATIONAL

Riprende il suo impegno nel teatro dai contenuti politici, per questo motivo viene di nuovo arrestato e viene condannato all’ergastolo. Amnesty International interviene ancora e la pena è commutata in un esilio di otto anni. La Svezia gli offre asilo politico e una cattedra universitaria… ma Luis scappa durante il viaggio, intenzionato a raggiungere il Paraguay. Riesce a raggiungere l’Uruguay; a causa di problemi politici deve, però, scappare.

Arrivato in Ecuador riprende la sua attività teatrale. Si impegna, poi, anche in un progetto dell’UNESCO rivolto allo studio delle civiltà indigene e sull’impatto da queste subito dalla “civilizzazione”.

Nel 1978, si reca in Nicaragua. Nel paese è in atto la Rivoluzione… dopo la vittoria dei rivoluzionari, Sepúlveda inizia girare l’Europa.

All’inizio degli anni ottanta inizia l’impegno dello scrittore in GREENPEACE. In seguito, si sposta in Spagna per poi tornare in Cile.

Nel febbraio del 2020, lo scrittore è in Portogallo per il festival letterario Correntes d’Escritas; purtroppo Luis e sua moglie contraggono il Coronavirus, che sta iniziando a diffondersi in tutto il mondo. Dopo un lungo coma si spegne nell’Ospedale Universitario delle Asturie, ad Oviedo, il 16 aprile.

Noto alle masse per il suo Storia di una gabbianella e del gatto le insegnò a volare, Luis Sepúlveda lascia una immensa eredità letteraria ed emozionale.

 

STORIA DI UN CANE CHE INSEGNÒ A UN BAMBINO LA FEDELTÀ

Introduzione alla storia

Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà è un libro del 2015; il titolo originale è Historia de un perro llamado Leal.

La storia ha una brevità che contrasta… anzi esalta il suo contenuto ENORME. Questo racconto è un ESEMPIO, è la descrizione dei lati più oscuri e distruttivi dell’umanità ma anche delle bellezze del mondo, e dei sentimenti puri e in linea con le leggi della Natura. Ci sono due tipi di umanità che vengono mostrati al lettore: l’uomo moderno spietato, infelice e irrazionale; e l’uomo pacifico, silenzioso e segnato dall’onore e dal coraggio, un uomo che conosce la Natura e vive in essa con rispetto e consapevolezza.

Il narratore è un cane, un pastore tedesco. La scelta della razza è assolutamente in linea con la messa a nudo dell’umanità negativa, quella legata al valore delle cose, che non è un reale “valore”.

Il cane sta cercando un fuggitivo e lo fa per degli uomini. L’oggetto delle ricerche è un Indio ed è assolutamente importante acciuffarlo. Non possiamo pensare che il cane sia cattivo e quindi siamo invitati a pensare che i motivi della ricerca siano seri, e quasi tifiamo per la cattura.

L’autore ci narra la storia attraverso lo scorrere dei pensieri dell’animale: il cane ci racconta cosa accade e il tutto viene intervallato dai dialoghi brevi e rabbiosi degli uomini. Sì, iniziamo ben presto a capire di che natura sono fatti quegli individui che arrancano tra erba, alberi, pioggia e disagi. Questi personaggi sono aggressivi ma totalmente impauriti. Il cane avverte l’odore di quel “branco”, che sa di paura. Il fetore della paura degli uomini è forte ma non attenua i sentori che provengono dal fuggiasco… quelli, però, sanno di farina, miele e di tutto ciò che il cane ha perduto.

Possiamo subito intuire che il cane non ha sempre vissuto tra quegli uomini come uno strumento senza vita da maltrattare.

Il fuggiasco riesce a muoversi velocemente e gli uomini sono costretti a fermarsi più volte: loro non conoscono lemu, il bosco, e accendono fuochi soffocati e circondati dal fumo. Se non si conosce il bosco non si sa quali sono i suoi doni: si sceglie la legna sbagliata e lemu non offre i suoi servigi se non è trattato con rispetto e sapienza. Tutti gli uomini sembrano trascinarsi senza capire nulla di ciò che intorno a loro parla e vibra. Le parole degli animali vengono udite solo dal cane, che riesce a distinguere il gracidio della rana, il canto sommesso del gufo, le ali del pipistrello che si nutre. Tutto è in perfetta armonia, tranne gli uomini. Il branco di cacciatori è a disagio. Gli uomini litigano costantemente tra loro… e il capo svetta per freddezza e crudeltà. Egli non è malvagio solo con il povero cane ma anche con i suoi simili: se uno del branco prova a nutrire l’animale il capo prende a calci il pezzo di pane e protesta… un cane deve essere affamato per cercare bene; se così egli crede non potrebbe essere diverso se ad aver fame fosse un suo simile che non ha adempiuto ai suoi presunti doveri.

Il cane in sogno vede, come accade per tutti gli esseri che riescono a “vedere” realmente: il pastore tedesco è uno sciamano, non per investitura ma grazie agli insegnamenti quotidiani che ha avuto dalla Gente della Terra.

Cane, perché così l’animale viene chiamato dagli uomini, in sogno rivive il giorno in cui cadde nella neve. Tra le alte montagne una carovana si spostava tra gli aromi di mate, carne secca e farine. Una borsa conteneva Cane, che però cadde, e nessuno se ne accorse. Abbandonato e acciecato dalla corsa per raggiungere i cavalli che poco prima trasportavano lui, uomini e merci rimase solo, ma ecco che una tiepida lingua giunse a rassicurare il cucciolo. Un salvatore grande e fiero prese con sé Cane. La nuova casa che trovò ad accoglierli era una caverna. Ma un pichitrewa, un cucciolo di cane, non poteva restare con quella creatura. In pochi giorni Cane venne nutrito, e iniziò ad imparare la forza delle sue zampe… ma non poteva restare: il suo compagno aveva già in mente un piano.

Dopo questa visione onirica giunge il mattino: a Cane viene ancora negato un pasto dal capobranco, che si scaglia contro un suo simile il quale, spinto dalla compassione, lancia un pezzo di pane all’animale.

Cane è affamato e stanco… ma non è arrabbiato: è lucido e intenzionato a portare avanti la sua missione. Gli uomini, invece, sono completamente furiosi e confusi dal disagio provato nello stare nella foresta, e dalla stanchezza. Cosa fanno gli uomini quando sono arrabbiati e in difficoltà? Si scagliano l’un l’altro… questa gente che proviene dalla civiltà è molto diversa dalla Gente della Terra.

Il fuggiasco ha lasciato tracce di sangue… il cane avverte ogni suo segno. Ma l’animale ha un piano, come il suo salvatore, tanto tempo fa. Il pastore tedesco fa il suo lavoro e fiuta e sa benissimo dove si sta dirigendo il fuggitivo. Gli uomini pensano che la cattura sia vicina e seguono ogni segnale lanciato dal loro schiavo a quattro zampe. Ma Cane ha un piano e gli uomini non giungono a nulla se non a luoghi scomodi che loro sono incapaci di sopportare… il branco corre, anzi arranca. Cane si distanzia da loro e si ferma a gustare l’acqua fresca tra le pietre del fiume; i morsi della fame sono sempre più forti e l’animale cattura un topo di montagna, un tunduku. Cane uccide in modo molto diverso dagli uomini e dalle loro armi per ammazzare. Il pastore tedesco non appartiene al mondo civilizzato: lui appartiene alla Gente della Terra. Cane sgozza il topolino… e poi gli chiede PERDONO: dalla Gente della Terra ha imparato che l’uomo, il che, deve chiedere perdono all’albero che abbatte, alla pecora che tosa. L’animale ha imparato che ci si ciba per quel che basta, e agli altri fratelli viventi si lascia il resto, come in un grande banchetto dove tutti si è alla pari senza affamare, odiare, umiliare.

Ecco che il tuono, un altro fratello, arriva a sconquassare l’aria e a portare il temporale. Cane riesce a trovare un riparo, mentre gli uomini restano a urlarsi contro tra i canneti e la fanghiglia. Il sogno ritorna a portare visioni all’animale/sciamano addormentato. Nello spazio del sogno, una storia racconta di un giaguaro, un nawel, che un giorno portò qualcosa tra le ruka, le case della Gente della Terra. Ogni porta di quelle abitazioni è puntata ad est, dove il sole sorge… ma in quella mattina fredda un altro dono della Natura arrivò su quelle soglie.

Wenchulaf, che significa uomo felice, trovò qualcosa e lo portò dentro alla ruka. Dentro quelle abitazioni si svolgeva l’ayekantun, l’appuntamento quotidiano in cui si narravano storie… e Wenchulaf era la voce di quella sapienza tramandata tra le generazioni. Il cielo aveva portato un dono e la Gente della Terra sa che si accettano e amano tutti i doni che il cielo manda.

Cane riesce a sentire le braccia di Wenchulaf, mentre sogna.

Nei ricordi vivi di Cane vi è un altro nome: Aukaman, cioè condor libero. Un sogno può avere profumi, e quegli odori piacevoli sono fatti di farina e di latte e di miele… come quelli del fuggiasco. Mentre imperversa il temporale, il sogno di Cane gli ricorda il suo VERO NOME: AUFMAN, che nella lingua della Gente della Terra significa leale, fedele.

“Questo cucciolo ha dimostrato lealtà a monwen, la vita, non ha ceduto al comodo invito di lakonn, la morte, perciò si chiamerà Aufman, che nella nostra lingua significa leale e fedele.”

Ciò che lo Spirito della Terra porta è per il nostro bene; la gratitudine è il nostro dovere verso di esso. Cane lo sa bene ed è grato della sua missione.

Il mattino arriva e solo le frustate attendono il pastore tedesco; è proprio la sua razza a far diventare Cane una proprietà degli Uomini della “Civiltà”. Un giorno era diventato il cane del capobranco… per un merito che Cane aveva guadagnato più per istinto che per intento: il pastore tedesco non avrebbe mai voluto vivere in una gabbia o ricevere ordini dal capobranco. Questo accadde, e tante cose Cane perdette.

Un giorno, però, il suo ruolo di cacciatore per il capobranco aveva assunto tutta un’altra importanza: odio, un abbaio e uno sparo… e da lì Aufman era tornato a essere se stesso, fingendo, però, di essere Cane.

Il fuggiasco verrà trovato? E qual è il piano di Aufman? Chissà se le cose che ha perduto possono essere ritrovate…

In questa storia molti Giusti vengono oppressi; qualcuno perde la vita… e la Natura ascolta e vede e osserva. Dimenticare lo Spirito della Terra priva gli uomini della VERA vita. Morire è un ricongiungimento, la brama di afferrare e rubare altre vite, invece, è un tipo di "morte" che non avrà mai consolazione e pace.

 

PERCHÉ SEPÚLVEDA HA SCELTO DI SCRIVERE QUESTA STORIA

Lo scrittore sente di avere un debito: la sua vocazione di scrittore la deve ai suoi nonni, che come tutti i nonni raccontavano tante storie; e soprattutto al suo prozio Ignacio Kallfukurá, un mapuche, un appartenente alla Gente della Terra. Luis ascoltava le storie, che il prozio narrava nella lingua dei mapuche, non capiva molto ma riusciva a comprendere tutto… perché dopotutto anche Luis era un mapuche.

Nell’introduzione, lo scrittore ci racconta di tutto questo passando anche per il ricordo del succo delle mele appena raccolte. Lui avrebbe voluto poter raccontare storie ai bambini mapuche, alla fine sceglie di portare tutti bambini del mondo davanti a quei falò nella Wallmapu, il paese della Gente della Terra.

Intraprendere questo viaggio significa stare in silenzio, come quando si ascolta qualunque storia. Le voci più importanti non sono quelle altisonanti della “civiltà” ma quelle della vita come si manifesta attraverso lo Spirito della Terra che tutto permea. Ogni cosa ha una vita. Sedersi intorno a questo immaginario falò implica la crescita interiore attraverso il rispetto, la sapienza di ciò da cui ogni cosa nasce… è una lezione che non passa per grandi calcoli, no. La Natura aspetta come anche il vero e puro Amore, e l’amicizia.

Credo che questa piccola storia abbia una grandezza che a stento si può contenere in una sola lettura di qualche ora. Sepúlveda è un cammino di vita. Lui voleva rivoluzionare il mondo: ha combattuto, ha sofferto il carcere e la repressione… alla fine la sua GRANDE RIVOLUZIONE è riuscito a farla. Volete rivoluzionare il mondo? A volte basta solo saper ascoltare.

 

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Buona lettura!