martedì 28 luglio 2020

SUSANNA TAMARO: LIBRI "CATTIVISSIMI" PER RECUPERARE IL DIRITTO A SOGNARE

IL ROMANZO PER RAGAZZI IL CERCHIO MAGICO

Ph. Francesca Lucidi. In foto la recente edizione GIUNTI JUNIOR illustrata da Adriano Gon; affiancata dalla prima edizione di Mondadori del 1995, illustrata da Tony Ross.

CENNI BIOGRAFICI

Susanna Tamaro nasce il 12 dicembre del 1957 a Trieste. La famiglia appartiene all’ambiente borghese. Lontana parente di Italo Svevo, Susanna ha due fratelli: Stefano, il maggiore, e Lorenzo, il minore.

Dopo il diploma magistrale, grazie a una borsa di studio, inizia la sua formazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma; si diploma in regia e inizia a collaborare saltuariamente con la RAI. Susanna ha difficoltà a trovare una collocazione stabile perché il suo titolo di studio non è riconosciuto come laurea. Il suo carattere poliedrico e particolare si nutre di stimoli di ogni genere… tra i quali vi è anche il Karate.

Esordisce nel mondo della letteratura nel 1989, grazie a un’iniziativa dell’editore Marsilio, rivolta agli emergenti. Il suo romanzo d’esordio La Testa fra le nuvole (titolo iniziale La Dormeuse electronique) viene rifiutato ventotto volte prima di essere letto direttamente dal direttore della Marsilio. Il libro viene pubblicato e l’editoria si accorge di questa autrice totalmente nuova, strana, coraggiosa… irriverente e malinconica. La Testa fra le nuvole vince il Premio Elsa Morante. Il protagonista della storia, Ruben, viene costretto a vivere mille rocambolesche avventure e a cambiare identità; l’autrice dichiara di avere molte analogie con quel personaggio: lei che sbaglia sempre l’entrata dal bagno e si rivolge alla cameriera dell’albergo pensando sia la proprietaria. Susanna è una scrittrice sbagliata e diversa, e proprio per questo è assolutamente giusta e pertinente, e abile ad attirare il lettore che si riconosce nelle vicende assurde e nefaste raccontate alla scrittrice: dopotutto sono davvero simili alla vita, soprattutto a quella che corre e muta di continuo all’affacciarsi degli anni Novanta.

Due anni dopo viene pubblicata la raccolta di racconti Per voce sola. Il nuovo lavoro della scrittrice è un nido di storie dure e crudeli: bambini abbandonati fisicamente ed emotivamente, infanzia violata e mancati riscatti di donne… di anziani. Il tragico dramma degli ebrei, ladri di bambini e genitori violenti: pagine che racchiudono solitudini marce, e tumori che crescono da dolori mai affrontati, da esperienze mai compiute, come accade per una delle protagoniste.

Per voce sola attira l’attenzione di un fan molto speciale: Federico Fellini. Il famoso regista si imbatte nel libro della Tamaro quasi per caso, in libreria, in un piccolo spazio a parte… quasi fosse un volume negletto.

Fellini non riesce a staccare gli occhi da quelle pagine piene di dolore e decide che vuole assolutamente conoscerne la creatrice. La scrittrice resta colpita da questo importante ammiratore, ma non si fa certo intimorire. Susanna si reca all’incontro in bicicletta, tanto che Fellini la apostrofa “Lucignolo in bicicletta”. Lei è una donna schiva, libera e poco incline alla mondanità; racconta del fastidio che ha provato verso l’insistenza dello scrittore nel volerle mandare una macchina, descrive il regista come narcisista e lei come solitaria e, quindi, poco attratta da quelle circostanze. La Tamaro ha goduto dell’onore, ma a suo modo[1].

L’autrice sceglie di scrivere ancora di bambini ma in un modo totalmente diverso (o forse simile): tra il 1992 e il 1994 pubblica con Mondadori Cuore di Ciccia, Papirofobia e Il Cerchio Magico. Le tre storie parlano di bambini soli e disconosciuti da una società opprimente e ossessionata dall’ordine e dalla forma. Chi inneggia all’aspetto fisico, chi vuole obbligare il proprio figlio a leggere… e chi desidera un mondo “pulito” senza fiori, alberi e animali. La sterilità del presuntuoso e cieco universo degli adulti si scontra con bambini fragili, umani e allo stesso tempo assurdi. Queste storie sono confortanti solo alla fine: durante la narrazione esce fuori il peggio dell’umanità con la sua violenza verbale e gli abusi perpetrati contro la bellezza autentica del mondo, e quindi anche contro i bambini. In Cuore di Ciccia un bimbo che vive ignorato dai propri genitori trova conforto nel frigorifero, fino a chiamarlo per nome e a proiettare su di esso un sentimento confuso. La madre del protagonista si accorge del figlio solo quando è il caso di rimembrargli quanto sia schifoso il suo corpo grasso. In Papirofobia due genitori vogliono costringere, a tutti i costi, il loro figlio a leggere. Il protagonista ha altre necessità e viene solo additato e persino considerato “malato”; in realtà nessuno aveva centrato il vero problema del bambino: ancora la stoltezza dei grandi che si credono perfetti e proiettano un perfezionismo malato verso dei piccoli uomini visti solo come cuccioli da educare. Proprio di un cucciolo parla Il Cerchio Magico: Rick ha una mamma adottiva che ama tantissimo, un cane lupo. Guendy, che è metà cane e metà lupo, ha salvato il bimbo da un cassonetto e lo alleva con l’amore incondizionato e la saggezza che solo un animale può avere, in un mondo dove le persone stanno iniziando a odiare ogni gatto, ogni uccello canterino e ogni filo d’erba. Rick e Guendy vivono in un posto molto speciale… che sarà, però, l’oggetto dell’odio della città ormai preda di una malattia della mente e soprattutto del cuore. L’amore contrasta l’odio attraverso mille peripezie: morte, prigionia, lavaggio del cervello. La Tamaro racconta storie per bambini parlando a tutti; narra della vita esasperandone i lati negativi, non esagerandoli ma dipingendoli di assurdo… ma solo per mostrare la vera immagine di un mondo ossessionato dagli schermi televisivi e la pubblicità, dalla perfezione e dall’automatismo confortante di chi smette di pensare e amare. Anche leggere diventa un obbligo, e dire questo a una “Lucignolo”, con il dono della parola e della narrazione, può solo avere effetti prorompenti.

Nel 1994 la scrittrice affida alla Baldini Castoldi il suo nuovo romanzo Va’ dove ti porta il cuore, e il libro ottiene un successo e una risonanza enormi. La storia, attraverso diverse forme di narrazione che vanno dal diaristico, all’epistolare, al “testamento” parla della fine di una vita rivista a ritroso dalla sua protagonista. Un’anziana si avvia verso la morte e sente la necessità di raccontare alla nipote, tramite una lettera, molti rimpianti e soprattutto molte verità non facili da sgranare su una collana fatta di morti, sentimenti mancati, costrizioni e parole non dette. Il titolo del libro è l’eredità che l’anziana lascia alla nipote, l’invito più importante e difficile da seguire in una vita. L’attenzione guadagnata dalla Tamaro non si risolve solo in esperienze positive: innanzitutto si accende una feroce lotta tra la Baldini Castoldi e la Marsilio che si esprime in accuse non troppo velate verso l’autrice, da parte del direttore della Marsilio… così dice la Baldini Castoldi; il tutto alza un polverone che finisce per colpire l’innocente Susanna che si vede accusata di messe in scena organizzate a tavolino per attrarre l’opinione pubblica. I critici non sono tutti gentili ed entusiasti e molti si esprimono in maniere poco lusinghiere fino a definire la scrittura della Tamaro prevedibile e buonista. La nostra “Lucignolo” non manca di rispondere nella sua maniera tagliente e pacata: 

“Io avrei un grande talento linguistico, ma in questo momento non mi interessa, voglio la semplicità.”

Il modo non lusinghiero in cui l’autrice tratta la rivoluzione sessantottina nella trama la fa etichettare come “berlusconiana”, quando lei dice di aver solo mostrato uno dei lati di quella realtà, che non si è risolta totalmente in progetti portati a termine e in slanci totalmente positivi. Alle accuse, che si protrarranno per anni, piene di parole usate con accezione negativa come “gay”, “sentimentalismo”… la Tamaro risponde sempre con il suo piglio sincero. L’atteggiamento della scrittrice ha molto a che fare con una sindrome neurologica manifestatasi da tempo, e di cui parleremo. Il lavoro successivo, intitolato Anima Mundi, viene criticato per il titolo troppo ambizioso; la sua collaborazione con Famiglia Cristiana la fa chiamare “Cattolica”. Diciamo che tutti, ad un certo punto, si sono sentiti in diritto di etichettare una persona che rifiuta ogni sorta di collocazione umana e letteraria. Susanna è uno spirito libero, incastrato in una mente brillante e sofferente. Il clamore mediatico e una bronchite cronica la spingono a trasferirsi in una residenza più ritirata a Orvieto. Lì vive con i suoi cani e la compagna che la affianca dal 1988, Roberta Mazzoni[2]. Anche questo rapporto è un altro degli appigli da cui indicare e giudicare la scrittrice, che non si dichiarerà apertamente omosessuale ma rivendica la libertà della sua scelta: vivere con una persona che è amica e confidente e il che non significa rientrare in un orientamento sessuale definibile. Per i ben pensati la Tamaro è un’omosessuale, per la comunità LGBT è un’ipocrita che non vuole rivelarsi al mondo.

Riguardo alle accuse di “sentimentalismo” Susanna scherza, molto seriamente, definendo i suoi libri “CATTIVISSIMI”, e dice che chi la accusa dovrebbe innanzitutto leggerli quei libri. Beh, questo è vero: le sue storie non sono buone e sono pervase da tutte le crudeltà che un uomo possa infliggere; la Tamaro ci racconta il mondo come lo stiamo "costruendo" e non lo fa usando mezzi termini. Lei è chiara, dura e veritiera. La Tamaro non ha mai avuto paura di dire la sua… solo che non lo fa con i modi imposti dalla società che vuole per forza etichettare qualunque cosa.

In lei si alternano profonda oscurità e bontà silenziosa e educata. Nelle sue narrazioni si parla spesso di morte, ed è lei stessa a evidenziare questo aspetto quando viene chiamata a parlare di sé in interviste, negli anni sempre meno frequenti. Lei ha un modo di fare le cose DIVERSO. Nel 2000 crea un’associazione: la Fondazione Tamaro, che si occupa dei più deboli, specialmente donne e bambini. Il lavoro della fondazione è sostenuto dai diritti dei libri dell’autrice e da donazioni esterne. Negli anni, Susanna Tamaro pubblica diversi lavori, ma la sua vita pubblica si riduce sempre di più. Tutti hanno cercato di prendere possesso della sua figura e delle sue posizioni, riguardo a svariate questioni. Lei non ama la “proprietà”. Anche la maternità viene trattata nelle sue storie in modo anticonvenzionale e assolutamente moderno. I genitori si comportano spesso da padroni e trattano la propria prole come oggetti, come beni; di contro, ci sono diversi personaggi che fanno i genitori in maniera magnifica, pur non essendolo biologicamente. La Tamaro non ha mai avuto figli ma racconta di come abbia quasi cresciuto i bambini di una famiglia peruviana che ha vissuto a lungo con lei. Il PEL DI CAROTA tanto ammirato da Fellini è un’entità sopra ogni classificazione che dice quello che pensa in modo brusco e fantasioso, come farebbe un bambino. Lei conosce profondamente l’amicizia e la fedeltà, l’altruismo e il coraggio.

Il suo coraggio viene evidenziato ancora di più alla fine del 2019 quando annuncia il suo ritiro dalla vita pubblica a causa anche dell’inasprirsi della sua malattia, che le impedisce di viaggiare e star troppo in mezzo alla gente: tra il mondo fuori dalla casa di Orvieto e la scrittura lei sceglie quest’ultima. Per continuare ad avere la lucidità e le energie per raccontare deve staccarsi dalla confusione e dalla velocità del “fuori”; noi che siamo lì fuori riusciamo forse ad orientarci meglio anche grazie ai suoi libri CATTIVISSIMI, ma così veri e pieni di sentimenti crudi, e lotte interiori vinte a suon di riflessioni e confessioni.

 

 LA SINDROME DI ASPERGER

La sindrome neurologica che affligge Susanna Tamaro è racchiusa tra i disturbi dello spettro autistico. Prende il nome dal medico austriaco Hans Asperger, e solo nel 1994 è stata inserita nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Chi è affetto dalla Sindrome di Asperger non sperimenta ritardi nel linguaggio e nelle capacità cognitive ma, oltre a mostrare segni clinici, vive la compromissione dell’esperienza delle interazioni sociali. Spesso chi è affetto da questa sindrome compie movimenti ripetuti, ha difficoltà a comprendere il “tono” delle parole altrui e, nonostante abbia un vocabolario ampio e forbito, spesso manifesta una certa pedanteria nel parlare. Questa condizione porta fissazioni particolari e straordinarie capacità, ad esempio mnemoniche. Apparentemente queste persone possono apparire fredde e permalose… ma in realtà non riescono a comprendere molti segnali comunicativi e prendono le parole sempre in modo letterale. Ogni paziente, però, è un caso a sé. Spesso si sperimentano delle difficoltà negli sport di gruppo per la difficoltà nell’approcciarsi a un gran numero di stimoli esterni che diventano una grande confusione. Susanna Tamaro con gli anni sente sempre di più il peso della sua condizione e viaggiare o frequentare troppi posti, e tante persone, è un sovraccarico assai pesante. Queste persone fanno una grande fatica a rapportarsi con l’esterno, nonostante siano spesso i portatori di un ricco mondo interiore e di una brillante genialità. Pensate cosa hanno comportato tutte quelle accuse per una persona che dice sempre la verità e sente tutto ciò che gli viene detto come vero. La scrittrice, negli anni, ha anche ricevuto diverse minacce di morte. Io mi stupisco di chi dice che non leggerebbe mai i libri della Tamaro a un bambino: beh, la vita è dura e credo che dire la verità sia una buona cosa se può essere accompagnato da amore, lotta per qualcosa che riteniamo giusto, e qualche cioccolata calda sorseggiata a tarda notte parlando delle proprie paure (e mi riferisco a molti punti de IL CERCHIO MAGICO). I bambini vivono spesso in un mondo peggiore del nostro: si sentono dire offese indicibili e spesso tacciono appunto perché i grandi vogliono vivere nella convinzione che sia tutto confetti e fiorellini. Io lessi i libri per ragazzi della Tamaro quando avevo undici anni: beh, mi hanno fatto alzare la testa contro il bullismo di chi vessa gli animi puri, liberi e diversi. Io parlavo con il mio gatto per colpa della Tamaro, e per merito suo io ancora riesco a udire le voci della natura e il coraggio che può sopravvivere in un cuore spezzato.

Non sono certa di non avere anche io la Sindrome di Asperger…


IL CERCHIO MAGICO

Ph.Francesca Lucidi. Edizione Giunti Junior 2010

SBIRCIAMO NELLA STORIA, MA NON TROPPO

Questa storia è il prodotto della società in cui nacque. Verso la metà degli anni Novanta i canali televisivi si moltiplicarono, con annesse pubblicità inneggianti al consumismo sfrenato; i personal computer iniziarono a entrare nelle case degli italiani e i giganteschi centri commerciali si affacciarono anche fuori dalle grandi città.

Il narratore si divide tra le stupide credenze della gente e la demolizione di quelle convinzioni che diventano il pretesto per una caccia alle streghe assai particolare. La storia è arricchita dai pensieri del protagonista e dai numerosi discorsi diretti legati che ci presentano dialoghi che vanno a mostrare ciò che accade, accadde e ciò che borbotta nell’animo dei personaggi. Il tutto inizia con un flashback che si dirige disperato verso i ricordi felici del protagonista: Rick.

Rick è un bambino, anzi è un lupo… anche se in realtà la mamma non era un lupo intero. Il piccolo è stato “salvato” da un cane lupo femmina di nome Guendy. Il rapporto tra i due è quello amorevole di una madre e il suo cucciolo: un “cucciolo nudo”, così la scimmia Ursula chiama Rick. La tana è il luogo dove questa famiglia, formata da una madre single adottiva e ibrida e un bambino che non si riconosce nella sua pelle, si manifesta attraverso i racconti della buona notte che ci permettono di conoscere la storia del piccolo e del bellissimo e fiero animale dal pelo argentato. 

Ph.Francesca Lucidi. Edizione Giunti Junior 2010

Ma cos’è il CERCHIO MAGICO? Questa espressione indica un oggetto reale e un luogo figurato. Quel cerchio si riesce a vedere realmente, a ogni notte di luna piena… anche se una volta si poteva vedere sospeso nel cielo ogni notte, e questo non è un buon segno. Il Cerchio Magico si crea dove cade una stella, e una stella cade dove viene formulato un desiderio. Quell’anello dorato è ciò che permette a un bosco di animali felici di vivere protetto. All’interno del parco cittadino vi è infatti un agglomerato misterioso di vegetazione e animali che inizia a spaventare gli abitanti umani. Nel Cerchio Magico non vi è nulla di spaventoso, anche se molti dicono che un giardiniere vi sparì inspiegabilmente. In quel bosco vivono tantissimi animali che parlano tra loro e raccontano storie; come Ursula, una scimmia astronauta che è riuscita a sfuggire all’uomo grazie alla sua “buona stella”… e, ragazzi, le stelle vibrano e Ursula ha avvertito la loro voce direttamente nello spazio.

Rick ama ascoltare le storie della sapiente scimmia anziana, e le fa moltissime domande; una sera, però, Ursula si lascia sfuggire la sua preoccupazione riguardo a una fine che pare palesarsi giorno dopo giorno. Rick non è mai stato triste, o almeno ha pianto solo quando si è fatto male cacciando qualche cavalletta… adesso però piange come un uomo e sente la tristezza. Guendy, come ogni brava mamma, riesce a consolare il suo cucciolo spiegandogli che il Cerchio Magico non è solo nel bosco ma nel cuore delle persone, e le persone che si vogliono bene sono legate da questo cerchio dorato che nulla può spezzare.

Purtroppo, il cuore del piccolo Rick viene spezzato in mille pezzi, la sua natura viene umiliata e il bosco subirà l’ira degli uomini che dichiarano apertamente guerra alla natura. Le persone sono sempre più inorridite dallo sporco che portano uccelli, cani, gatti (e bambini): la città decide di demolire il parco e il bosco. La superstizione è la giustificazione, un uomo ambizioso ne diventa il braccio armato che guida un popolo di teste vuote. Triponzo è il portavoce delle preoccupazioni dei cittadini; lui ha vocione in capitolo perché ha due doppimenti e tre pance. Ma, a monte, il vero dittatore del rinnovamento è un essere ancora più crudele, e piuttosto disgustoso. Un piano malvagio viene messo su mentre Rick è imprigionato nella villa del suo “PAPÀ” adottivo. Beh, i motti sono facili e gli intenti chiari:

“Bruciamo gli alberi, bruciamo l’erba,

bruciamo i fiori e i loro orridi odori!

Per il sonno dei nostri bambini

degli uccellini facciamo spiedini!”

Essì, i bambini… la loro educazione è cosa primaria: le loro menti sono così simili a quelle degli animali che sedare i loro slanci vitali e i loro ragionamenti liberi è un bel problema. A proposito… se vedete un bambino con gli occhi quadrati potete liberarlo in un solo modo, ma forse non posso ancora dirlo; lo suggerisco e dico “CLICK!”

L’allergia ai fiori è davvero un crudele affronto da parte della natura e la cattiveria va ripagata con la cattiveria. C’è addirittura una donna pericolosissima, di nome Amalia Cipolloni, che annaffia piantine colorate e puzzolenti e nutre gattacci randagi pieni di malattie. Saranno proprio Amalia e la regina dei cassonetti Dodò, un gatto, a incontrare il destino di Rick.

Rick dovrà essere un perfetto “triponzino”, un cane e un bambino… ma lui è un LUPO, e non smette di ripeterlo.

Il cucciolo nudo si chiede cosa significhi la fine della felicità; il CERCHIO sarà la risposta.

La lotta sarà davvero dura, e a tratti assai ripugnante.

L’amore e il coraggio possono salvare capre (o bambini) e cavoli (fiori)?

Il motto è uno solo:

“CODA ALTA E SGUARDO DRITTO E NON SARAI MAI SCONFITTO!”

 

ANALISI, ANZI, DIREI ESAME DI COSCIENZA

“Un mondo pulito e obbediente:

panza piena e in testa niente.”

Ok, prendetevi un minuto e rileggete queste due frasi.

Questo è l’inno della rivoluzione della “società civile” di questa storia.

Perché prendere un cane quando si può acquistare un televisore? Non saprei… rispondete voi.

Il Cerchio Magico è una storia coraggiosa di famiglie non tradizionali, di bestialità primigenia e di stelle che vibrano. “La vita è un soogno o un sogno è la vita?” Per gli uomini che vivono dentro questo libro il sogno è uno solo, il loro. La vita può essere meravigliosa se non ci si sforza più neanche a sognare.  

L’autrice mette molto di sé e tutto si ritrova tra l’amore per la natura, le vite segnate da solitudine coraggiosa, e da modi di fare considerati bislacchi. Rick è un bambino selvaggio ma può essere anche visto come un individuo che ha difficoltà relazionali e si pone tante domande sulle cose del mondo che non riesce a capire. Rick è intelligente ma si incastra sugli spigoli della società… e qui si torna agli effetti della Sindrome di Asperger.

Tutto è congeniato per parlare il linguaggio dei bambini tra mani sporche, musi impiastricciati e la voglia di stare con la mamma. Gli adulti, però, sono il bersaglio che può essere colpito per cambiare le cose. In una realtà dove le cose naturali ci fanno sempre più schifo, e ci danno mortalmente fastidio i petali dei gerani dell’inquilino del piano di sopra che ci cadono sul balcone, credo che Il Cerchio Magico sia un esame di coscienza necessario per riappropriarci dei nostri sogni. Una scampagnata al tramonto è la meta, non il comprare l’ultima cosa di tutto… giusto perché si è liberi quando non si dipende da troppe cose, non credete? Non voglio fare la paternale ma riflettere imparando dalla forza dei lupi, dalla scaltrezza dei gatti e dalla furbizia delle scimmie.

Anche la beneficenza fasulla viene messa in ridicolo aprendo uno spioncino verso intenti poco umanitari e molto utilitaristici.

A distanza di anni dalla sua venuta al mondo, questo ibrido di libro è una simulazione di un futuro assai probabile e poco auspicabile.

Di certo questo non è un cieco invito ad abbracciare tutti i bambini del mondo e a radere al suolo ogni cosa di cemento… ma quando si rade al suolo il mondo per ucciderci abbattendo alberi e non pensando più ai bambini, se non con un senso di “possesso”, penso che forse ci si dovrebbe fermare, come vi ho invitati a fare all’inizio di questo paragrafo.

La narrazione è facile ma spinosa, il linguaggio poetico e anche assurdo. I nomi dei potenti sono orrendi da pronunciare e all’inizio siamo chiamati a soffrire non poco.

Il “CERCHIO” è la risposta che ci attende alla fine del libro, anche a noi, oltre che a Rick.

Buona lettura!

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GRAZIE MILLE! 

 

 

 Ph. Francesca Lucidi. Edizione Mondadori 1995



[1] Susanna Tamaro racconta la vicenda durante un’intervista a Repubblica del 21 novembre 1990.

[2] Sceneggiatrice e scrittrice.


venerdì 24 luglio 2020

GIOVANNI VERGA: LA VITA, LO STILE E LA NARRAZIONE REALISTICA DI UN'ITALIA SOFFERENTE

IL VERISMO E LE SUE MANIFESTAZIONI

NOVELLE SCELTE: ROSSO MALPELO, LA LUPA, LA ROBA, LA LIBERTÀ
E JELI IL PASTORE

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

CENNI BIOGRAFICI

Giovanni Verga nasce il 2 settembre del 1840 e viene registrato all’anagrafe di Catania. Vi è una curiosa congettura che ipotizza come data di nascita reale il 31 agosto. Secondo questa idea lo scrittore sarebbe, in realtà, nato a Vizzini, cittadina al confine meridionale della Provincia di Catania. Non vi sono documenti ufficiali ma solo piccoli indizi.

I Verga sono proprietari terrieri e a Vizzini hanno molti possedimenti. Le origini del cognome sono molto antiche e sarebbero riconducibili a lontane radici spagnole. I Verga appartengono a un ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca. La madre dello scrittore è Caterina di Mauro e fa parte di una famiglia borghese di Catania. Le ipotesi sulla fittizia nascita di Giovanni a Catania sarebbero, quindi, riconducibili a motivazioni legate alle origini della madre… e anche all’eventuale maggior pregio di una nascita cittadina piuttosto che provinciale. Vizzini è comunque impressa nel sangue dei Verga: il nonno fu addirittura deputato presso il parlamento siciliano, proprio per la cittadina.

Verga compie gli studi primari presso la scuola Francesco Carrara; gli studi secondari vengono portati a termine presso la scuola di Don Antonio Abate, fervente patriota.

La figura di Don Antonio diventa molto importante: Verga viene coinvolto dal suo sincero e ardente patriottismo… mentre le letture di Dante, Petrarca, Manzoni e Ariosto foraggiano un interesse letterario sempre più vivo.

Nel 1854, Verga deve rifugiarsi in campagna per sfuggire a un’epidemia di colera. Vi resta per quasi due anni. Questa esperienza va ad aggiungersi alle altre maturate durante i suoi studi: il tutto va nutrire il terreno da cui si caratterizzerà tutta la futura opera dello scrittore.

Giovanni Verga scrive il suo primo romanzo all’età di quindici anni. Don Antonio sembra apprezzare il lavoro del giovane e brillante allievo; il professore di latino è molto più scettico e l’opera, alla fine, viene lasciata in fondo a un cassetto.

Nel 1858 l’iscrizione all’Università di Catania, alla facoltà di legge. Il richiamo delle lettere è per Verga troppo forte: lascia gli studi e inizia a dedicarsi completamente alla scrittura, partendo dal lavoro di giornalista. In realtà, nel 1861 spende tutti i soldi della retta universitaria per la sua prima pubblicazione: I carbonari della montagna.

All’amore per la scrittura è sempre legato il patriottismo e il vincolo con la Sicilia; lo scrittore, infatti, finisce anche per arruolarsi nella Guardia Nazionale di Catania.

Verga tenta più volte di far sopravvivere un suo giornale, senza successo.

La scrittura giornalistica resta, però, un punto fondamentale da cui partire per osservare e comprendere la tecnica narrativa che impiegherà Verga.

Nel 1865 muore Giovan Battista Catalano, il padre dello scrittore.

Dopo la morte del genitore, Verga si trasferisce nella capitale del Regno d’Italia: Firenze. Lì conosce Luigi Capuana. Nel 1871 esce il romanzo Storia di una capinera.

Nel 1872, Verga pubblica il racconto Nedda, che narra degli stenti di una raccoglitrice di olive siciliana: la conversione all’impostazione e ai temi veristi, a quel punto, è completata.

Dopo l’unità, l’Italia appare estremamente frammentata sia culturalmente sia economicamente. Il sud della penisola è particolarmente attanagliato dalla piaga del lavoro minorile… e proprio riguardo alla realtà lavorativa in Sicilia il Parlamento decide di avviare un’inchiesta. A quel punto, è chiaro a Verga come il tema principe delle sue opere debba essere la terra natia, con i suoi dolori e i suoi paesaggi così selvaggi e meravigliosi.

Dal germe delle origini siciliane dello scrittore nascono i capolavori che segneranno la storia della letteratura. Del 1880 è la raccolta di novelle Vita dei campi, incentrata sul tema della lotta per la sopravvivenza; un anno dopo esce il primo romanzo intimamente verista dello scrittore: I Malavoglia, opera incardinata sulla rovina di una piccola famiglia di pescatori che tenta di intraprendere un’attività commerciale. Nel 1882 esce una seconda raccolta di novelle intitolata Novelle Rusticane, basata sul tema della “roba”.

Durante il 1889 viene pubblicato il secondo romanzo dello scrittore: Mastro Don Gesualdo.

Verga decide di tornare in Sicilia. Nel 1893 è a Catania.

Lo scrittore inizia la redazione de La duchessa di Leyra, ma non riesce a proseguire nel progetto. I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo e La duchessa di Leyra, insieme ad altri due romanzi, dovevano entrare a far parte di un unico progetto: Il “Ciclo dei Vinti”; l’idea iniziale, purtroppo, non verrà mai portata a termine dallo scrittore. L’ispirazione artistica di Verga si esaurisce… e lascia spazio alla depressione e alla solitudine.

Giovanni Verga è un individuo che preferisce vivere da solo, non si sposa e non ha figli. Ha una visione molto particolare del matrimonio: lo considera una gabbia per topi dalla quale quelli che son dentro vogliono uscire, mentre tutti gli altri vi girano intorno per entrarvi. Lo scrittore intraprende una relazione importante: Verga si lega con Giselda Fojanesi, moglie del poeta catanese Mario Rapisardi. La relazione viene scoperta dal marito tradito che ripudia la moglie.

Un’altra donna riesce a entrare, in tutt’altra veste, nella vita dello scrittore: Dina Castellazzi. La Castellazzi resta un’amica fedele, per tutta la vita di Verga.

Verga sceglie per sé una vita ritirata; non manca, però, di occuparsi dei tre figli del fratello morto giovane.

Nel 1920 arriva la nomina di Senatore del Regno, che lascia il Nostro piuttosto perplesso e non particolarmente entusiasta. Verga, però, apprezza sinceramente il discorso di intitolazione tenuto da Luigi Pirandello.

Giovanni Verga muore a Catania nel 1922.

 

L’ACCOGLIENZA DEL PUBBLICO

La prima uscita de I Malavoglia non raccolse molti consensi. Verga incontrò diversi problemi finanziari e un po' di ossigeno venne dalla trasposizione teatrale della novella Cavalleria Rusticana, testo facente parte della raccolta Vita dei Campi. La prima rappresentazione della versione per il teatro si tenne a Torino il 14 gennaio del 1884. Per ottenere i compensi dovuti lo scrittore dovette rivolgersi a dei legali che curassero i suoi interessi. Sulla scia del successo della mia trasposizione, Pietro Mascagni decise di creare dalla novella un melodramma, rappresentato per la prima volta a Roma il 17 maggio del 1890.

Nel frattempo, nel 1889, venne pubblicato il romanzo Mastro Don Gesualdo, presso l’editore Treves. Intorno alla casa editrice milanese si andava delineando il gusto letterario di fine Ottocento; infatti, sempre nel 1889 fu pubblicato anche il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio: Il piacere. Ecco che due poli diversissimi si trovano a contendersi l’attenzione del pubblico: da una parte la narrazione della realtà italiana attraverso uno sguardo oggettivo in cui l’autore e il narratore scompaiono a favore dei fatti raccontati, dall’altra la rivendicazione dell’eccezionalità del singolo all’interno della società massificata. Il lavoro di D’Annunzio attira l’attenzione della borghesia e vince la battaglia delle vendite. Mastro Don Gesualdo, comunque, riesce a vendere millecinquecento copie in pochi giorni. Evidentemente, le classi che leggono si indentificano meglio negli slanci d’dannunziani piuttosto che nelle dure denunce proposte da Verga.

Luigi Capuana e Giovanni Verga fanno una scelta non facile: raccontare la realtà, il mondo e l’Italia alla maniera dei naturalisti francesi.

 

LA NARRAZIONE REALISTICA

Voler raccontare il mondo in maniera fedele implica la scelta di rappresentare i fatti in modo verosimile.

Gli eventi realmente accaduti o che potrebbero accadere realmente sono il materiale per la costruzione di una narrazione realistica. I luoghi sono reali e non figurati; la collocazione temporale è ben definita e spesso si racconta usato i tempi verbali del passato. Il narratore non interviene nei fatti e non propone alcuna interpretazione. A fare da collante ai contenuti e ai modi vi è la forma: il linguaggio scelto deve essere coerente con il contesto rappresentato; ciò va tenuto bene in considerazione nell’uso del discorso diretto e indiretto, i modi dell’autore per riportare le parole dei personaggi.

Il narratore è nascosto ed esterno; anche la focalizzazione è esterna e gli eventi sembrano raccontarsi da sé. Tutto ciò è l’estremo opposto del narratore onnisciente che va a produrre un testo con focalizzazione zero, riuscendo a vedere ogni cosa e a imporre la sua presenza nell’interpretazione di personaggi e situazioni che vengono filtrati attraverso l’occhio di chi racconta, e che tutto sa.

Nella narrazione realistica si osserva e non si interpreta.

La rappresentazione del mondo tenendo conto della storicità e delle manifestazioni sociali ha radici profonde. Lo stesso Decamerone del Boccaccio ci fornisce un quadro della società mercantile e delle dinamiche relazionali ed economiche del tempo. Ma è nell’Ottocento che il realismo si afferma attraverso un fedele affresco della realtà, con metodologie peculiari. Da questa impostazione prende corpo la corrente letteraria del Naturalismo.

 

IL NATURALISMO

La corrente letteraria del Naturalismo cresce in seno al clima Positivista.

Il Positivismo era una tendenza di pensiero e azione che promuoveva una visione della conoscenza strettamente legata alla scienza e ai suoi progressi, con piena fiducia.

In ambito letterario, l’approccio che privilegia una visione sperimentale e oggettiva mostra le sue forme dall’opera di Gustave Flaubert, che parla di questo nuovo tipo di narratore il quale “Deve essere nella sua opera come Dio nella creazione”. Flaubert pubblica nel 1857 il romanzo Madame Bovary, ritraendo efficacemente la piccola borghesia francese attraverso lo sfacelo a cui vanno in contro le cieche e ridicole ambizioni della protagonista.

Il romanzo diventa il mezzo di una rappresentazione oggettiva, “fotografica” della realtà. L’arte si prefigge di essere lo specchio fedele del mondo, senza alcuna contaminazione da parte dell’autore. In tutto questo processo c’è la convinzione che si possa, in questo modo, dare un contributo al progresso dell’umanità.

I risultati della letteratura mirano a valori pratici, non prettamente etici o morali.

Il caposcuola fu Émile Zola (1840-1902). Il comportamento dei personaggi di Zola è determinato dal contesto: fisiologia e psicologia sono il prodotto dell’ambiente, del momento storico e dell’eredità sociale di un individuo.

Nel 1880, Zola pubblica il saggio Il romanzo sperimentale: il manifesto del Naturalismo. Secondo la visione espressa da Zola lo scrittore è un osservatore e uno sperimentatore. Chi redige un testo letterario non è più un interprete ma una sorta di scienziato che prende dei personaggi e li mette in un contesto a reagire con tutte le componenti sociali e ambientali. L’osservazione si completa con la sperimentazione che è l’applicazione di un “metodo” vero e proprio che possa permettere, poi, la registrazione dei fenomeni in modo impassibile. Le cause del comportamento sono viste come determinate in modo univoco. L’autore lascia “reagire” i suoi materiali umani e redige ciò che è riscontrabile in maniera oggettiva. Le riflessioni morali che possiamo trarre da questi testi non vengono accese dal lirismo, o dalla pietà di una scrittura che sia mossa dalla volontà di colpire i sentimenti o gli animi. Ciò che avviene nel lettore è un altro prodotto determinato dal contesto: dal nostro approccio a un testo e ad elementi con cui siamo messi a reagire. Spesso si parla dei testi del Naturalismo come di accuse morali; non vi sono accuse ma solo le fotografie di situazioni reali che hanno una loro voce autonoma, che riesce a ingenerare in noi riflessioni. Non siamo portati a pensare o ad avere pena o considerazioni perché l’autore ci propone un insegnamento (come ad esempio accade in Manzoni). Ciò che è reale è ciò che viene raccontato; ciò che viene raccontato è solo la realtà, di un esperimento fatto di cavie umane.

Il termine Naturalismo potrebbe trarre in inganno facendoci pensare che le trame raccontino la natura in senso stretto… in realtà, l’attenzione è in primis sulla società, che determina la natura umana.

La natura umana non è il soggetto primario e puro, in senso romantico, ma è un oggetto preso in esame attraverso un’analisi sperimentale.

 

IL VERISMO

Il rinnovamento dei meccanismi narrativi proposto dal Naturalismo viene ripreso in Italia da Luigi Capuana e Giovanni Verga. Sia nell’approccio francese che in quello italiano è riscontrabile il rifiuto del precedente romanzo storico, il quale celava un intellettuale di ceto agiato che mostrava un certo pietismo verso personaggi ed eventi; il tutto con il tocco evidente di un narratore che conosce ogni cosa… ma non la mostra in modo diretto scegliendo di filtrarla attraverso la propria onnisciente presenza.

In Italia vengono ripresi i mezzi dell’impersonalità e dell’oggettività. Verga, nella prefazione de L’amante di Gramigna, scrive che l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. È quindi evidente l’adesione ai temi della realtà, scegliendo di mettere il narratore al di fuori degli eventi raccontati. Mentre si diffondeva lo sguardo naturalista, l’Italia si avviava verso l’unificazione. L’unità della Penisola chiamava a una presunta accelerazione del progresso: in realtà le classi più umili vivevano ad una velocità assai lenta, come lenta appariva la crescita del loro benessere. Il contesto storico non può non giocare un ruolo nella traduzione italiana del Naturalismo, e ciò è coerente anche con i principi di quest’ultimo.

Come nel modello francese le opere letterarie vengono portate avanti con la volontà di non mostrare il processo di creazione. Ma cosa traspare se si confrontano le due modalità di narrare la realtà? Se si legge Verga è innegabile la presenza di un impegno morale, anche se non dichiarato. Lo scopo di una denuncia sociale traspare, in modo evidente. Rispetto ai romanzi francesi, che raccontavano di personaggi appartenenti alla borghesia su vari livelli, e di ambienti cittadini, il racconto realistico verista è lo specchio della realtà contemporanea ad autori e personaggi. Nel Verismo si prediligono gli ambienti regionali, piccoli e di campagna; anche perché era quella l’Italia di fine Ottocento.

Verga racconta la sua Sicilia con un forte pessimismo sociale fatto di riscatti mancati, di una condizione miserabile agghiacciante. Questo tipo di approccio stride con la fiducia positivista che permeava il Naturalismo. Se osserviamo i personaggi di Verga pare mancare totalmente la possibilità di un reale progresso individuale e sociale. Lo scrittore verista non fa lo scienziato perché non c’è effettivo distacco. Verga condivide lo stesso DNA e la stessa specie dei suoi soggetti… gli ambienti sono gli stessi, anche se le classi sociali di appartenenza sono differenti. L’autore mostra partecipazione… perché è, appunto, della stessa specie delle cavie messe ad agire nel loro ambiente per essere osservate.

 

IL VERISMO IN VERGA

L’attività giornalistica di Giovanni Verga lascia una profonda impronta nella sua scrittura: la parola tende all’oggettività e i pensieri e le parole dei personaggi vengono riportati fedelmente, senza epurazione. Le espressioni dialettali infestano testi che parlano da soli; però, la presenza dell’autore, come si è già osservato, non resta totalmente in disparte. La durezza dell’inchiesta sociale di Verga ha nel cuore i valori patriottici che si sentono feriti guardando a una popolazione che dopo l’unità non appare coesa, libera o migliore. Lo sguardo borghese dell’autore vede sfumati gli ideali di uguaglianza e progresso, e ne diventa il portavoce scegliendo di non abbellire o “romanzare” ma di riportare, descrivere, mostrare. Con un occhio puntato alla biografia di Verga, e l’altro sulla critica verso l’immobilità delle classi sociali e verso l’istituzione matrimoniale riscontrabile nelle sue opere, siamo obbligati a riunire i due punti focali. Molti elementi delle narrazioni dello scrittore sono gli stessi che hanno caratterizzato la sua esistenza, compreso il perenne senso di solitudine. A partire dalla geografia reale ed emozionale percorsa attraversando luoghi fisici e sociali che Verga ha realmente vissuto, e che hanno indubbiamente ingenerato in lui una compassione che non resta pietas pura e semplice… ma diventa denuncia. La visione di Verga è amara e non prospetta alcuna speranza. La sua ricerca non è asettica osservazione di contesti e “reazioni” ma è una fusione: lo scrittore entra nel parlato e nel mondo dei personaggi, nelle loro debolezze… e lo fa profondamente. Negli scritti di Verga, i ricordi dell’infanzia vengono passati attraverso il setaccio dei nuovi modi del narrare appresi negli ambienti letterari milanesi, diventando una cronaca che ha nel sangue versato anche il sangue dello stesso autore.

 

ROSSO MALPELO E ALTRE NOVELLE di Edizioni LA SPIGA

Ph. Francesca Lucidi. Edizioni La Spiga, 2013

L’edizione presa in esame è datata 2013 ed è a cura di Moreno Giannattasio. Le illustrazioni sono di Marco Lorenzetti.

La nota introduttiva è una sorta di avvertimento su ciò che saremo portati a vivere: le novelle di Verga saranno le mani attraverso le quali vestire determinati panni e provare sentimenti segnati dalla fame, la rabbia e la paura. Vengono citati i demoni che siamo destinati a incontrare: la gelosia, la superstizione, la vendetta e l’avidità. Questa pagina di “benvenuto” non manca di far notare come saremo costretti ad ascoltare e imparare una nuova lingua, che è quella dei personaggi. Il libro promette, però, di portarci per mano… e questo si può avvertire nell’estrema cura di ogni dettaglio. Il pensiero finale, prima della lettura del materiale vero e proprio, è una riflessione sul grande valore della buona scrittura, quella che nutre la conoscenza.

Il volume prende Rosso Malpelo, La lupa e Jeli il Pastore dalla raccolta Vita dei Campi; La Roba e La libertà dalla raccolta Novelle Rusticane.

Rosso Malpelo è il duro racconto della terrificante realtà del lavoro minorile. I temi della condizione sociale italiana post-unitaria e della bestialità umana, tanto cari a Verga, sono i cardini dove si regge lo scricchiolante portone di una storia che non conosce il senso della casa e del conforto. Malpelo è una creatura nata con un destino segnato: è rosso di capelli e quello determina il suo nome e la sua natura. Il narratore non riflette sulla veridicità della pessima considerazione che la gente ha del protagonista, Verga riporta i fatti come vengono visti dai personaggi. L’incipit è noto ed esemplificativo:

“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che promettere di riuscire un fior di birbone.”

 Il ragazzo non ha mai conosciuto amore e delicatezza, è nato tra la polvere della miniera… e il tocco del padre è il solo, breve, gesto gentile mai sentito dalle sporche carni di Malpelo. Il genitore è Mastro Misciu Bestia: sì, una “bestia”. Nelle storie raccontate da Verga gli umili sono cani rabbiosi e muli da soma e asini da prendere a calci. Gli animali sono gli unici interlocutori che sembrano dialogare sinceramente con i protagonisti umani, ma sono anche l’oggetto della violenza di quell’umanità schiacciata dalla vita. La sorte del padre di Malpelo segna la vita e il carattere del ragazzo ancora di più… da quel momento non ci sarà che violenza, una violenza che è anche il solo mezzo attraverso il quale Malpelo riesce a mostrare tutti i suoi sentimenti, anche quelli migliori. Il ragazzo ha una costituzione forte e una prestanza fisica che paiono più simili all’animale da lavoro che all’uomo; tutta questa forza trae origine da una rabbia che è un urlo di rifiuto verso la vita stessa, e questo si capirà alla fine di questa triste vicenda. Gli unici esseri viventi che sembrano meritare un minimo di tenerezza da parte di Malpelo sono un povero asino grigio e un ragazzo gracile e zoppo chiamato Ranocchio; entrambi assaggeranno la cura del protagonista… fatta di calci e botte e male parole. Malpelo conosce solo la violenza e pensa che soffrire sia una sorta di vaccino alla vita: lo ripete a Ranocchio e lo pensa mentre fa stramazzare a terra gli asini della miniera a forza di angherie.

Malpelo riesce a guadagnarsi il nostro sgomento e il nostro odio… e qui sta la magnificenza della scrittura di Verga. Leggendo questa novella ci si trova davanti a un disprezzo della vita che forse ci fa riuscire a guardare le stelle con uno spirito diverso. Una creatura della miniera guarda al cielo come a un estraneo… la luce non è contemplata nella vita di Malpelo e degli operai del sottosuolo. I cani rosicchiano le carni putrescenti di un asino morto, una madre piangerà un povero figlio vinto dalla malattia… Malpelo osserva e non avverte speranza alcuna. La rabbia è il veleno più insidioso dell’esistenza.

La Lupa è una storia di donne, ma non è la vicenda di femmine ispiratrici e combattive o pure. La novella è contesa da una donna che è una bestia selvatica avvinta dal fuoco degli istinti incontrollati, e da una giovane che si piega all’unico altro destino che sembra toccare a un personaggio femminile. Una è una poco di buono e l’altra sarà solo una moglie che sforna figli e inghiotte rospi amari.

Le due donne sono madre e figlia… e nel mezzo? Nel mezzo il pezzo di carne che la Lupa vuole spolpare: Nanni.

Nanni è un giovane che pare riunire in sé le virtù dell’uomo ligio, e grande lavoratore. Il giovanotto vuole prender moglie e la vuole graziosa, pacata… e ne avrà una, e avrà tanti figli; come è deciso che sia, sempre.

Nanni cerca di resistere alla tentazione proveniente da neri capelli e seni brucianti, da una bestia che schiuma di voglie sommesse, su un pagliericcio messo a terra. Nanni cederà? Cosa può diventare l’uomo che cede agli istinti e si scontra contro il sottile vetro che separa onore e dovere e desideri e istinti bestiali?

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Lupa, Edizioni La Spiga, 2013

La roba è una storia che non è fatta di azione ma di elenchi. Veniamo accompagnati attraverso territori bellissimi e fecondi… ma non riusciamo a godere di bellezze e profumi, iniziamo solo a sentire il peso del lavoro, dell’avarizia, della vita senza godimento… e ancora di lavoro e di sacchi di grano infiniti. Questa novella è la storia di Mazzarò, e Mazzarò non ha una storia vera e propria o una vita: quest’uomo è la sua roba. Gli elenchi delle terre e dei beni sono la pelle, le braccia e il sangue di Mazzarò. Potremmo pensare che un onorevole lavoro ben ripagato sia un ottimo esempio da raccontare: niente di più sbagliato. La storia di Mazzarò è fatta sì di lavoro ma anche di furberie, di prevaricazione e mania. Se la vita di un uomo diventa soppesabile non nello spirito e nelle gioie ma solo nei numeri e nei pesi stilati in un elenco… cosa succede quando quell’uomo muore? Se Mazzarò è la sua roba e la roba pare essere solo di Mazzarò… cosa resta? La roba che valore ha per voi? Questa novella è un modo per riflettere su cosa sia il benessere, il progresso e il riscatto.

La libertà è la versione romanzata di fatti realmente accaduti. Nell’agosto del 1860 ci furono delle lotte sanguinose presso Bronte; il problema dello sfruttamento delle terre demaniali avevano fatto “imbestialire” il popolo che si scagliò ferocemente sui galantuomini, ma anche su donne e bambini. Chiunque non fosse della stessa umile razza dei rivoltosi veniva ucciso a colpi di ascia, per schiacciamento… veniva massacrato come nel giorno in cui si uccidevano i maiali.

Il Comitato di guerra creato da Garibaldi inviò a Bronte un battaglione di Garibaldini guidati dal generale Nino Bixio. 150 persone furono giudicate nel giro di poche ore e cinque persone furono condannate a morte. Tra i giustiziati anche due innocenti: il pazzo del paese e un uomo che aveva avuto la colpa di essere stato nominato dai rivoltosi come possibile sindaco; quest’ultimo era un avvocato (un altro galantuomo ucciso, però, dalla giustizia). Bixio si piegò al suo dovere provando fastidio, fatica e disprezzo; in una lettera inviata alla moglie scrisse:

“Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili!”

In questa novella la libertà non solo non appare possibile, dato che quando si calmarono le acque tutti gli umili si sentirono persi senza i galantuomini, ma non è nemmeno adatta a quegli ignoranti che conoscono solo soprusi, privazioni e odio, subiti e gentilmente restituiti. L’ignoranza è ciò che rende l’uomo della terra incapace di comprendere e riscattarsi.

Proprio l’ignoranza è una delle “virtù” del protagonista dell’ultima novella Jeli il pastore. La scelta di inserire per ultima questa storia è davvero intelligente. Jeli racchiude nella sua vicenda personale tutte le miserie e le sferzate della vita come la racconta Verga. L’incapacità di emanciparsi davvero dalla propria, e miserabile, condizione… le falsità e i dolori che caratterizzano l’istituzione matrimoniale; neanche l’amicizia, che inizialmente sembra rischiarare questa novella, riesce in alcuna missione, anzi. L’ignoranza di Jeli e il suo animo fondamentalmente buono si riassumono in un foglietto che il pastorello porta con sé: quel foglio ha sopra il nome “Marta”; la scrittura non è, ovviamente, di Jeli. Il protagonista comprende più le sue bestie che gli altri suoi simili, anche perché i suoi simili sono diversi da ciò che la loro natura li chiamerebbe a essere. Ma dopotutto cos’è l’uomo? Forse la vera umanità non sta nel non cedere alle tentazioni e nel non incontrare i “cattivi” sentimenti; forse l’umanità sta nell’accettare il lato bestiale: comprenderlo e saperlo gestire. In fine, l’umanità animale di Verga si consuma nello sfacelo perché non sa chi è, non conosce altro che il lavoro e la fatica… le braccia e la testa e il cuore non hanno un qualcosa che li possa conciliare e armonizzare.

Ph. Francesca Lucidi. Illustrazione di Marco Lorenzetti de La Libertà, Edizioni La Spiga, 2013

Alla fine del volume ci sono degli apparati molto interessanti, rari da trovare in un’edizione per adulti. Ciò che è estremamente apprezzabile delle versioni didattiche è la missione di informare su autore e contesto storico in modo semplice, diretto e pertinente. Forse un giorno si smetterà di pensare che gli adulti non hanno bisogno di essere formati ma solo imboccati di nozioni.

Devo dire che sono ben felice di aver acquistato questo libro. Se volete leggerlo anche voi potete approfittare della mia AFFILIAZIONE AMAZON, e acquistare cliccando QUI: si aprirà la pagina Amazon del prodotto, e se sceglierete di prenderlo con voi il blog potrà avere la possibilità di avere una piccola percentuale, da reinvestire in tanti altri libri sui quali discorrere insieme. Buona Lettura! 

  

venerdì 17 luglio 2020

ERNEST HEMINGWAY

IL VECCHIO E IL MARE

Ph. Francesca Lucidi

HEMINGWAY, IL “PAPA”

Cenni biografici

Ernest Hemingway fu un uomo solido, coraggioso… la personificazione del mito dell’Americano forte e indistruttibile. Come tutti i miti, purtroppo, vengono chiamati in causa il “cammino”, la tragedia e i simboli. Hemingway era come un iceberg, e questa similitudine ha le sue ragioni, che vedremo con calma.

La sua fu una vita avventurosa, che fatichiamo a immaginare intorno a un solo uomo.

Entriamo nel dettaglio, che ne dite?

Beh, lui ebbe ben quattro mogli; è stato padre e combattente. Ha attraversato due Guerre Mondiali, dittature. Hemingway ha percorso  continenti e visto i leoni; è sopravvissuto a incidenti potenzialmente mortali, ha tirato di boxe e ha ottenuto le sue belle soddisfazioni. Tutto questo è stato facile? Le vincite facili sono anch’esse un mito.

Dal fuoco delle bombe, lo scrittore è arrivato alla Guerra Fredda… anzi, a due Guerre Fredde: una storica e una personale.

Ernest Hemingway nasce ad Oak Park, negli USA, nel 1899. Suo padre era medico e proprio insieme al suo papà Hemingway ha conosciuto e vissuto la natura dei Grandi Laghi: la pesca, la caccia e la vicinanza con gli Indiani d’America. Ernest non va all’università: dopo i nostri “studi superiori” inizia subito a scrivere e a lavorare come cronista per il Kansas City Star.

Nel 1917 gli Usa entrano in guerra. Ernest non viene arruolato per un difetto all’occhio sinistro, però il Nostro non si arrende e riesce a partecipare al conflitto come autista volontario nella Croce Rossa. Viene mandato in Italia sul fronte del Piave e viene ferito; ricoverato a Milano vi resta diverso tempo.

Torna in patria come un eroe. Inizia a impegnarsi nella scrittura di racconti ma la madre vede questa attività come una perdita di tempo. Ernest si trasferisce a Chicago e inizia a lavorare per il Toronto Star e lo Star Weekly.

La sua lunga sfilza di matrimoni inizia con una donna più grande di lui di sei anni: Elizabeth Hadley Richardson. La donna gode di una cospicua rendita e i due progettano di andare in Italia. In realtà, la meta diventa Parigi, dove lo scrittore conosce importanti personaggi della Lost Generation[1] come Ezra Pound e Scott Fitzgerald.

Poi, lo scrittore scopre la Spagna e durante il suo soggiorno entra in contatto con le tradizioni locali come la corrida. Tra il 1923 e il 1926 vengono pubblicati Tre racconti e dieci poesie, Torrenti di Primavera e Fiesta. Arriva il primo divorzio ed Hemingway scrive contestualmente Uomini senza donne.

Sposa Pouline Pfeiffer, nasce un altro figlio. La famiglia si trasferisce in Florida e lo scrittore termina Addio alle armi.

I viaggi si fanno sempre più intensi e tra le varie mete spicca l’Africa. Ernest e Pouline si godono anche un lungo Safari; lo scrittore, durante il viaggio, viene però colto da una grave dissenteria che gli provoca il prolasso dell’intestino. Questo problema di salute è solamente uno tra i tanti che tra le mille avventure incontreranno il volitivo Hemingway. È da ricordare un bizzarro infortunio causato da un sacco da boxe.

La personalità e la fisicità dello scrittore sono ormai leggendarie; gli amici finiscono per soprannominarlo “IL PAPA”.

Il rapporto di Ernest con la Guerra e le battaglie di mezzo mondo resta il più duraturo nella vita dello scrittore. Scoppia la guerra civile in Spagna, e nel 1937 Hemingway abbraccia questa nuova avventura portando avanti con passione e cieca abnegazione il suo lavoro di corrispondente.

Durante l’attività sul fronte spagnolo incontra la scrittrice e giornalista Martha Gellhorn, conosciuta, però, un anno prima negli Stati Uniti… a Key West, dove lo scrittore aveva vissuto una tranquilla parentesi familiare con Pouline e i figli.

Nel 1939 Ernest si trasferisce a Cuba; lì si gode la sua leggendaria barca: Pilar, acquistata qualche anno prima tra i suoi viaggi e i suoi altri soggiorni a Cuba.

Questo periodo è però segnato dalla rottura del suo secondo matrimonio e dal consolidamento del rapporto sentimentale con Martha.

Nel 1940, lo scrittore pubblica Per chi suona la campana. Il romanzo trae ispirazione dalle vicende della Guerra Civile Spagnola. La Gellhorn ha spinto molto per la redazione di quest’opera. Per chi suona la campana sfiora il Premio Pulitzer. Martha ed Ernest si sposano.

Hemingway non resta mai fermo da qualche parte, e anche i suoi manoscritti viaggiano insieme a lui: Per chi suona la campana viene scritto tra Cuba, la residenza estiva in Idaho, e il Wyoming.

Nel 1941 Martha viene mandata in Cina, per il suo lavoro da giornalista. Hemingway la raggiunge ma non prova la stessa attrazione avvertita per altri luoghi e i due tornano presto a Cuba, prima della dichiarazione di guerra degli Stati Uniti. Lo scrittore salpa con la sua leggendaria Pilar e inizia a pattugliare le acque cubane alla ricerca di sottomarini tedeschi. Hemingway è così convinto della sua missione che ha equipaggiato la sua barca con bombe e mitragliatori. Il governo cubano è a conoscenza dell’attività dello scrittore che, infatti, prosegue nella caccia agli U-Boats tedeschi proprio dietro approvazione governativa (il piano viene presentato a Washington dall'ambasciatore americano a Cuba). Quest’atto porta lo scrittore sotto il mirino dell’FBI che, da quel momento, lo sorveglierà per tutta la vita…

Hemingway viene mandato in Europa come corrispondente di guerra nel secondo conflitto mondiale. A Londra conosce Mary Welsh, di cui si infatua immediatamente mentre il rapporto con Pouline è al capolinea.

Il 6 giugno del 1944 partecipa allo sbarco in Normandia. Come semplice testimone dei fatti lo scrittore non dovrebbe intervenire direttamente… ma Hemingway non è abituato a starsene con le mani in mano, a scrivere solamente. Il “Papa” arriva persino a guidare una milizia poco fuori Parigi, e la cosa non passa inosservata. Il coraggioso Ernest viene accusato formalmente…  nonostante questo, però, riceve la medaglia di bronzo per il coraggio dimostrato durante la Seconda Guerra Mondiale, ma solo nel 1947.

La salute dello scrittore diventa sempre più precaria e il suo rapporto con la scrittura diventa piuttosto complicato. Ciò che ancora non scema è la sua irrequietezza, la sua eterna ricerca. I viaggi continuano ed Hemingway viene richiamato dal fascino europeo; in realtà, ciò nel senso più stretto del termine dato che a Venezia si infatua, addirittura, di una diciannovenne.

Tornato negli Stati Uniti, termina le bozze de Il vecchio e il mare in poche settimane. Il romanzo, che lo scrittore aveva intrapreso con l’intento di creare la sua opera migliore, viene pubblicato nel 1952. La breve storia di Hemingway vende milioni di copie in due giorni… e questa volta sì, vince il premio Pulitzer.

Saremmo tentati di pensare che a quel punto lo scrittore si sarebbe potuto sentire “a posto”, con la fortuna e con la sua coscienza di scrittore. In realtà no. Hemingway decide di tornare in Africa.

Durante il soggiorno nel continente africano, lo scrittore viene coinvolto in ben due incidenti aerei e viene dato per morto. La vita di Ernest, invece, vince ancora la fortuna. Hemingway riporta gravi ferite e ulteriori traumi… che vanno ad aggiungersi a quelli regalati da tutti i precedenti scontri con la morte.

Nel 1954 viene insignito del Premio Nobel. Lo scrittore accetta il premio in denaro ma non si reca a Stoccolma per la premiazione: la sua salute inizia a piegarsi sotto i colpi di quella fortuna che sembra aver sempre battuto.

A Cuba, il rifugio preferito di Hemingway inizia ad essere in pericolo. Castro è intenzionato a nazionalizzare le proprietà degli americani, lo scrittore e la moglie lasciano così Cuba per l’ultima volta, nel 1960. Beni e manoscritti vengono messi al sicuro in una banca dell’Avana. In realtà le proprietà di Hemingway verranno espropriate dopo gli eventi della Baia dei Porci; la moglie dello scrittore chiederà aiuto al presidente Kennedy che riuscirà a intervenire con successo: ciò che verrà recuperato sarà donato dalla vedova al Museo Presidenziale. In verità, Castro non ha ceduto senza nulla in cambio: durante l’incontro con la vedova, organizzato grazie all’impegno del Presidente, si riuscirà a riavere documenti e manoscritti solo dopo la donazione da parte della vedova della tanto amata residenza cubana di Hemingway.

Lo scrittore continua a rimaneggiare manoscritti ma inizia ad avvertire difficoltà nell’organizzare le stesure. Va in Spagna e viene fotografato dalla rivista Life… ma non il suo stato di salute appare sempre più provato, a tutti.

Il vigoroso corpo di Hemingway e la sua mente lucidissima iniziano ad abbandonarlo ed egli si presenta sempre più sofferente e preoccupato.

Lo scrittore viene ricoverato alla Mayo Clinic nel Minnesota, sotto falso nome; l’FBI, però, che lo tiene nel mirino dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, viene subito a conoscenza della difficile situazione di Ernest Hemingway.

Dopo le dimissioni, e il ritorno nell’Idaho, non vi è alcuna evidente ripresa. Lo scrittore viene trovato con in mano il suo fucile… e viene ricoverato per una seconda volta. Al quadro clinico difficile di Hemingway si era aggiunto un problema alla vista, che lo affliggeva particolarmente  perché gli toglieva la possibilità di continuare la sua più grande partita con la fortuna e con se stesso: la scrittura.

Alla fine, Hemingway si spara nella sua casa di Ketchum, in Idaho. È il 2 luglio del 1961.

Anche suo padre, anni prima, aveva deciso di suicidarsi per sfuggire a un male incurabile; in realtà si è molto ipotizzato su problemi di salute ereditari al sangue, che potrebbero aver minato la salute fisica e mentale di molti membri della famiglia Hemingway. Si è addotto anche ai numerosi traumi cranici che avrebbero potuto portare a un deterioramento della mente dello scrittore. Alla fine, si cerca sempre di spiegare ciò che è terribilmente doloroso, si cerca di sopravvivere ponendo spesso domande che non hanno risposta. Negli anni successivi alla morte dello scrittore, si suicidano anche la sorella Ursula e il fratello Leicester.

Quando lo scrittore riceve il Nobel, anche se non si reca a Stoccolma, manda un discorso da leggere pubblicamente. Nel discorso spiccano parole dure, chiare e che esplodono di significati forti… come tutta la scrittura di Hemingway:

“SCRIVERE, NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI, È UNA VITA SOLITARIA.”

 

IL PRINCIPIO DELL’ICEBERG, e dopo mezzogiorno a nuotare…

Per comprendere la scrittura di Hemingway basta aprire a caso uno dei suoi romanzi: se leggiamo poche righe sembra di trovarsi dinanzi a un articolo di giornale. Non è da dimenticare che Hemingway fu un corrispondete di guerra: uno abituato a vedere gli orrori peggiori senza far “poesia”. Il sentimento dello scrittore non traspare, almeno non nell’immediato. Tutto è diretto, riferito, oggettivo.

In verità, nel complesso tutto ciò che viene descritto e riportato ha echi, significati nascosti che non vengono resi attraverso termini difficili o voli pindarici: l’oggetto più semplice, il pesce più piccolo e l’uccellino più insignificante diventano la personificazione di un concetto, di un sentimento personale del personaggio, del romanzo o dell’uomo in generale.

Nel maggio del 1954, Ernest Hemingway risponde alle domande di George Plimpton, durante un’intervista rilasciata a Madrid. In quella chiacchierata emerge il “principio dell’Iceberg”: sostanzialmente i sette ottavi di uno scritto sono sommersi… lo scrittore conosce tutto ma ne mette la maggior parte sott’acqua.

In fine, ciò che appare oggettivo e striminzito è una totalità che parla attraverso frasi corte, facili. Essere facili è estremamente difficile… così dice Carver (e non lo cito testualmente), e ciò ci mostra Hemingway.

L’idea romantica che abbiamo sulla scrittura spesso è un costrutto di fascinazione e poca conoscenza. Sì, è vero che gli scrittori sono gente strana… ma dietro vi è conoscenza, metodo e vita. L’abnegazione è indubbia quando si parla di grandissime penne come Hemingway, che presumibilmente ha scelto di uccidersi pur di non vedersi impossibilitato a scrivere. Ma ciò che si scrive viene solo dalla mente? Perché quando affronto un autore per la prima volta mi piace dilungarmi proponendo dei cenni biografici? È davvero evidente che la vita è il grembo da cui gli artisti portano alla luce storie, sentimenti e convinzioni… filosofie. Unisci la vita all’abilità e alla pratica costante e, se la fortuna ci mette del suo, ecco che può venir fuori il capolavoro.

Hemingway è riuscito a partecipare a due Guerre Mondiali, a sposarsi quattro volte, a girare mezzo mondo e ad esser mezzo morto per decine di volte… e a scrivere grandi capolavori vincendo il Nobel. Davanti a questi esempi è difficile non sentirsi abbastanza inetti. Ma, in realtà, dovremmo pensare che partire da esempi e dimenticarsi di vivere la propria vita per prendersi le proprie verità è una follia; questo ce lo dimostra lo stesso Hemingway, e basta guardare al modo in cui egli si rapportava alla scrittura. Lui scriveva al mattino, in piedi, e appuntava un numero di battute che doveva raggiungere su una tabella. A mezzogiorno chiudeva tutto e andava a farsi un bagno in piscina. Ecco tutto. L’emulazione è un brutto tarlo, ma sicuramente possiamo trarre ispirazione dalle vite dei grandi artist. Ricordiamoci innanzitutto di vivere E DI NON SCONTRARCI CONTRO QUALCHE ICEBERG: è meglio pensare alla profondità prima di fermarsi sulla pericolosa apparenza.

 

IL VECCHIO E IL MARE: accenni di trama, lo stile e il gioco del “trova i temi”

Santiago è il protagonista di questo romanzo, anzi, è uno dei protagonisti; e Santiago non è solo ciò che sembra. Questo personaggio è vecchio e la sua anzianità va oltre il conto degli anni e si misura tramite i giorni e le notti in mare… e tutte le sfide che ha dovuto affrontare tra il sole cocente, l’uccisione di innumerevoli esseri marini… e gli ancor più innumerevoli addii; siano essi alla moglie defunta, alla “fortuna” o ai tanti luoghi attraversati su un’imbarcazione. La storia è ambientata a Cuba, nelle acque del Golfo e sotto le luci delle stelle e dell’Avana.

Sono ottantaquattro giorni che Santiago non pesca nulla. La descrizione del suo aspetto fisico sembra sottolineare quella vecchiaia non solo anagrafica che lo affligge. Santiago ha la parte posteriore del collo solcata da rughe profonde, il viso è segnato dai tumori della pelle e dalla vita in barca fatta di sole cocente, di freddo vento notturno e di fatica inimmaginabile, per noi. Il vecchio è un solitario e vive in una capanna umile e spoglia, senza nulla di confortevole. A prendersi cura di lui solo un ragazzo di nome Manolin.

Manolin ha iniziato ad andare in mare da bimbo, e proprio con Santiago. Da qualche tempo, però, Manolin è andato a pescare su un’altra barca per volontà dei genitori… perché il vecchio è, oramai, salao: è sotto i colpi della più terribile sfortuna. Il ragazzo ha dovuto seguire gli ordini del padre, e va a prendere pesci su una barca che non è quella di Santiago con la vela consunta e rattoppata con dei vecchi sacchi di farina. Manolin, però, non abbandona il vecchio e si prende cura di lui come farebbe il figlio più amorevole. Il ragazzo fa finta di credere alle stringate frasi di rassicurazione di Santiago… che si alternano a bugie buone e alle informazioni su pasti mai consumati. Manolin, grazie alla solidarietà di quel posto di pescatori, riesce sempre a procurare del cibo caldo al vecchio. I due mangiano insieme e parlano del Baseball. La realtà umile e “fuori dal tempo” di quel porto cubano entra in contrasto con il sogno americano che ha il volto del grande Di Maggio, il giocatore di Baseball che Santiago ammira tanto… anche perché il padre del grande Di Maggio era pescatore, e forse quell’idolo mondiale potrebbe capire… forse.

Santiago ogni mattina va a svegliare il ragazzo e i due fanno parte l’uno della quotidianità dell’altro. Il vecchio è solo, ma non troppo: ha Manolin, e ha il mare. L’acqua è la vera casa di Santiago, e lì entra in contatto con i suoi fratelli che sono i pesci, anzi tutte le creature dell’acqua e del cielo.

Un giorno, il vecchio parte con la convinzione che quella giornata di pesca sarebbe stata diversa. Manolin lo accompagna all’imbarcazione, gli procura la colazione e insiste per aiutarlo con i pesci che serviranno da esca. Santiago parte… e va molto al largo. La decisione di spingersi verso un certo punto, così lontano, sarà ciò che porterà vittoria e rovina.

Oramai tutti sappiamo che Santiago avrà a che fare con un Marlin, un pesce enorme. Non tutti, ma la maggior parte di voi, probabilmente, saprà se Santiago prenderà il pesce o no. La pesca di quell’enorme e “nobile” creatura si estende per giorni, ma occupa la prima parte del romanzo e potremmo venir disorientati pensando che la questione si potrebbe considerare risolta. La fortuna, però, ha il suo bel da fare… anche se uno è “a posto”: Santiago crede di essere perfettamente pronto a tutto, perché è convinto che la fortuna può arrivare in ogni momento, anche se non si sa quando, e un uomo devi farsi trovare “a posto”. Santiago si renderà presto conto delle cose che non aveva considerato prima della partenza: molte cose non sono affatto pronte, tante eventualità vengono dimenticate… perché ottantaquattro giorni di inattività annebbiano la mente più della fatica.

Ciò che colpisce durante la lettura è che sembra di leggere una cronaca. Tutto viene riportato in maniera pulita e oggettiva. Gli eventi sono raccontati tra i pensieri della gente di quel luogo che vive grazie al mare, riferiti senza alcun commento e fortificati dall’uso di termini nella lingua madre di Santiago. Lo stile è maschile e vigoroso: non si perde in chiacchiere e in metafore pindariche… anche se tutto è in realtà allegorico. Mentre il mare ci culla tra la corrente e i pesci che tirano le lenze, possiamo godere della dolcezza dello sguardo che Santiago riserva a tutte le creature. I poli della compassione e della necessità si mettono su un tavolaccio umido e consunto dal sale e giocano a braccio di ferro. Anche Santiago era stato, un tempo, un campione di braccio di ferro… Santiago, tanti anni prima, era stato EL CAMPEON.

Il vecchio è un pescatore e la gente tra le capanne si nutre grazie ai pescatori. Chi non è pescatore si nutre comunque del lavoro di mani callose e braccia corrose dal sole. Pescare e uccidere è una necessità imprescindibile. Anche gli animali uccidono: ognuno ha il suo ruolo e lo persegue senza remore. Santiago fa ciò che deve fare ma non manca di addolorarsi della sorte degli uccelli più indifesi del cielo, e di provare pena nel ricordare quando, con Manolin, catturò un grande Marlin femmina mentre il maschio non la lasciò per tutto il tempo… alla fine i due pescatori si affrettarono a uccidere il grande pesce a bastonate, per compassione, senza esitare. A volte l’esitazione è un prolungamento della pena. Al lettore tutto potrebbe apparire estremamente crudele, a partire dal racconto di come i pescatori amano accanirsi sulle tartarughe solo perché il cuore di quella specie continua a battere per lungo tempo dopo la morte. Santiago, però, è diverso: pensa alle tartarughe constatando quanto quei cuori e persino quelle zampe siano quelle di una creatura affine. Per Santiago i pesci che uccide e gli uccelli che vede assassinati da uccelli più grandi sono FRATELLI. Anche il grande Marlin che abbocca al suo amo così “a posto” è suo fratello. Il lirismo di questo romanzo si mostra tra i pensieri e il parlar da solo di Santiago. Si sa che i pescatori non amano parlare; ma da quando il ragazzo ha abbandonato il vecchio quest’ultimo ha iniziato a parlar da solo a voce alta. Santiago si rivolge a ogni creatura, da quelle bellissime e fragili che gli nuotano o volano intorno, fino a quelle che uccide e di cui si ciba non per gola ma per rendersi forte. La transustanziazione del mare, attraverso la materialità di prede svariate, e soprattutto di una che Santiago si pente di aver acciuffato dopo essersi rotto la schiena e le mani. Il vecchio si ciba dei fratelli che vivono nel mare, e quei pasti ci appaiono qualcosa di più di una semplice sussistenza, anche se così ci vengono raccontati.

 Santiago non manca di dialogare con se stesso, con Dio, o forse con l’idea che si ha di Dio… e con la sua mano sinistra. Tutto il corpo del vecchio si piegherà alla più grande battuta di pesca della sua vita. La mano sinistra è afflitta da continui crampi, la sola cura che conosce Santiago è fatta di dialoghi alla stessa mano, di acqua di mare e del calore del sole.

Non possiamo non tifare per il vecchio, ma da un lato tifiamo anche per il suo avversario… e anche Santiago fa il suo dovere addolorandosi di quello che c’è da fare. In lui c’è sensibilità, c’è cuore; lui è però un pescatore e i pescatori sono nati per prendere pesci, come Di Maggio è nato per il Baseball e il padre di Di Maggio era nato per essere anch’egli un pescatore, come il vecchio.

In questo romanzo uno dei tanti protagonisti è l’onore, anche se Santiago riflette più volte sul fatto che l’uomo è più forte perché inganna.

Per tutto il romanzo abbiamo a che fare, praticamente, con un solo uomo… così sembra: ci sono anche la Fortuna, l’onore, le necessità; i pesci volanti, i delfini e i dentusi; i sogni di Santiago che vede i leoni che una volta scorse su una spiaggia, in Africa. Ci sono anche tutti gli elementi naturali: il vento, la luna e le stelle. Santiago si rallegra che l’uomo non debba uccidere le stelle; quell’uomo che può morire ma non essere battuto. Santiago sarà un vincitore o un perdente? Ho paura che la risposta non ci sia o che ognuno di voi ne possa avere una, diversa da quella degli altri fratelli lettori.

L’osservatore che sembra non smettere mai di fissare silenziosamente la vicenda è l’oceano.

Santiago si rivolge alle acque marine chiamandole al femminile, apostrofandole con l’espressione la mar. Tutti quelli che amano il mare gli parlano come a una donna… anche perché il mare va dietro alla luna, come le femmine dell’uomo. I giovani pescatori usano l’espressione el mar, al maschile, come rivolgendosi a un avversario da battere a pugni.

Santiago combatterà duramente con diversi avversari, in quei tre giorni solitari al largo. Il suo sfidante principale è un fratello, è messo al maschile ma la lotta non è fatta solo di violenza e sofferenza ma anche di amore, un amore che non è romantico e non è poetico. Pensando alle lunghe giornate di guerra vissute da Hemingway non si può cogliere l’evocazione di valori militari e di drammi e necessità che solo la guerra può portare. Nel combattimento ci sono ruoli e cose da fare, simile contro simile: c’è chi è spietato e sadico e chi fa il dovere che è chiamato a compiere sapendo anche piangere per il fratello nemico.

In questo breve romanzo, fatto di oggettività e pochi fronzoli, dobbiamo stare attenti a guardare sotto la superficie dell’acqua; o possiamo pregare che ciò che si nasconde sotto il velo possa saltare fuori e farsi vedere, finalmente. Quest’ultima riflessione la capirete leggendo il romanzo.

Siate pronti a soffrire e sentire la fame e la sete. Cercate di non farvi distrarre dalla stanchezza perché la fortuna non smette mai il suo gioco. Possiamo però sperare che ciò che salva l’uomo, anche se l’uomo uccide, è la solidarietà che può giocarsela molto bene con gli inganni della fortuna… che credo sappia barare molto meglio degli uomini.

 

LA VERSIONE GRAFICA DELLA NICOLA PESCE EDIZIONI

Questo fumetto è stato per me un colpo di coraggio. Non sapevo se sarei riuscita a formulare un’opinione dato che non sono un’esperta del genere e amo molto il romanzo Il vecchio e il mare.

Iniziamo dal fatto che la lettura della breve introduzione mi ha rassicurata e mi sono sentita “sorella” di questo progetto editoriale. Lo sceneggiatore Andrea Laprovitera parla della nascita dell’idea, partendo subito da un concetto che può riassumere il romanzo e anche lo stesso Hemingway, se si mette da parte il tragico suicidio e le sue sfumate motivazioni. Laprovitera parte analizzando cos’è la RESILIENZA:

“Resilienza: capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento. In psicologia si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di restare sensibile a quello che il mondo o la vita può (ancora) offrire.

Chissà se Hemingway voleva parlare di questo (o anche di questo) quando nel 1952 ha scritto Il vecchio e il mare.”

Il concetto di “resilienza” è sicuramente divenuto famoso specialmente negli ultimi anni, tra tatuaggi e aforismi infestanti. Chissà se dieci anni fa si pensava alla “resilienza” quando si leggeva questo romanzo. Io, sinceramente, non ci ho pensato.

Continuando a godermi l’introduzione ho avuto l’impressione di parlare con un amico; anche perché la sera prima avevo detto delle cose molto simili parlando, in casa, del romanzo appena riletto.

Lettori, lo dice Laprovitera, e io lo confermo: IL VECCHIO E IL MARE, una volta letto, si rileggerà più volte… e in diversi momenti della vita.

Concordo anche sull’efficacia del lavoro del disegnatore, Ludovico Lo Cascio, evidenziata dallo sceneggiatore. Io non sono un’esperta ma sono una lettrice… e a me le “nicchie” non piacciono, perché i prodotti di nicchia spesso sono tali per l’atteggiamento snob non di chi ama determinati prodotti ma di chi non tenta nemmeno di approcciarsi a qualcosa di “diverso” dall’edizione canonica e confortante, da leggere composti sulla propria poltrona.

Lo stile del disegno è rispettoso: il creatore della parte grafica si è messo al servizio della storia senza mettere in mezzo la questione del “IO HO IL MIO STILE”. Il fumetto è interamente in bianco e nero, anche se la copertina è meravigliosamente viva e colorata. Lo stile di Hemingway e il romanzo sono fatti di azioni, dialoghi e silenzi: il fumetto è fatto di Santiago che pesca, che parla e che lotta. Se non ci sono le parole c’è il mare e c’è il volto segnato del vecchio. Come ho già detto, questa storia può avere diverse interpretazioni e quella di questo fumetto è una delle possibili. Per trasformare un romanzo in una sceneggiatura bisogna fare scelte coraggiose. Gli incontri di Santiago vengono ridotti all’osso, e forse io avrei scelto di inserirne altri; però, il modo in cui viene resa la gestualità e viene onorato l’AVVERSARIO principale è meraviglioso. 

 Questo fumetto è come Hemingway: non si perde in orpelli e ci mette davanti la realtà nuda e cruda, non mancando di mostrare simboli che spiazzano (ma non voglio svelarvi troppo).

L’editoria dovrebbe essere una custode della letteratura; reinterpretare un grande classico è un modo per fare quello che si deve fare… ma senza dimenticare l’emozione, la commozione, e una giusta attrezzatura. Alla fine, questo è lo “Stile Santiago”.

Consiglio di leggere integralmente il romanzo e di provare, in seguito, con questa versione grafica. Avrei voluto che si inserisse la parte sulla dicotomia tra el mar e la mar; beh, però ho potuto vedere con occhi fisici e non solo mentali una delle battute di pesca più leggendarie della storia della letteratura, e forse della storia dell’uomo… di che mi voglio lamentare!

 Buona lettura...

 

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[1] Espressione resa famosa dallo stesso Hemingway che la utilizza per indicare gli scrittori che hanno raggiunto la maggiore età durane la Prima Guerra Mondiale.