venerdì 17 luglio 2020

ERNEST HEMINGWAY

IL VECCHIO E IL MARE

Ph. Francesca Lucidi

HEMINGWAY, IL “PAPA”

Cenni biografici

Ernest Hemingway fu un uomo solido, coraggioso… la personificazione del mito dell’Americano forte e indistruttibile. Come tutti i miti, purtroppo, vengono chiamati in causa il “cammino”, la tragedia e i simboli. Hemingway era come un iceberg, e questa similitudine ha le sue ragioni, che vedremo con calma.

La sua fu una vita avventurosa, che fatichiamo a immaginare intorno a un solo uomo.

Entriamo nel dettaglio, che ne dite?

Beh, lui ebbe ben quattro mogli; è stato padre e combattente. Ha attraversato due Guerre Mondiali, dittature. Hemingway ha percorso  continenti e visto i leoni; è sopravvissuto a incidenti potenzialmente mortali, ha tirato di boxe e ha ottenuto le sue belle soddisfazioni. Tutto questo è stato facile? Le vincite facili sono anch’esse un mito.

Dal fuoco delle bombe, lo scrittore è arrivato alla Guerra Fredda… anzi, a due Guerre Fredde: una storica e una personale.

Ernest Hemingway nasce ad Oak Park, negli USA, nel 1899. Suo padre era medico e proprio insieme al suo papà Hemingway ha conosciuto e vissuto la natura dei Grandi Laghi: la pesca, la caccia e la vicinanza con gli Indiani d’America. Ernest non va all’università: dopo i nostri “studi superiori” inizia subito a scrivere e a lavorare come cronista per il Kansas City Star.

Nel 1917 gli Usa entrano in guerra. Ernest non viene arruolato per un difetto all’occhio sinistro, però il Nostro non si arrende e riesce a partecipare al conflitto come autista volontario nella Croce Rossa. Viene mandato in Italia sul fronte del Piave e viene ferito; ricoverato a Milano vi resta diverso tempo.

Torna in patria come un eroe. Inizia a impegnarsi nella scrittura di racconti ma la madre vede questa attività come una perdita di tempo. Ernest si trasferisce a Chicago e inizia a lavorare per il Toronto Star e lo Star Weekly.

La sua lunga sfilza di matrimoni inizia con una donna più grande di lui di sei anni: Elizabeth Hadley Richardson. La donna gode di una cospicua rendita e i due progettano di andare in Italia. In realtà, la meta diventa Parigi, dove lo scrittore conosce importanti personaggi della Lost Generation[1] come Ezra Pound e Scott Fitzgerald.

Poi, lo scrittore scopre la Spagna e durante il suo soggiorno entra in contatto con le tradizioni locali come la corrida. Tra il 1923 e il 1926 vengono pubblicati Tre racconti e dieci poesie, Torrenti di Primavera e Fiesta. Arriva il primo divorzio ed Hemingway scrive contestualmente Uomini senza donne.

Sposa Pouline Pfeiffer, nasce un altro figlio. La famiglia si trasferisce in Florida e lo scrittore termina Addio alle armi.

I viaggi si fanno sempre più intensi e tra le varie mete spicca l’Africa. Ernest e Pouline si godono anche un lungo Safari; lo scrittore, durante il viaggio, viene però colto da una grave dissenteria che gli provoca il prolasso dell’intestino. Questo problema di salute è solamente uno tra i tanti che tra le mille avventure incontreranno il volitivo Hemingway. È da ricordare un bizzarro infortunio causato da un sacco da boxe.

La personalità e la fisicità dello scrittore sono ormai leggendarie; gli amici finiscono per soprannominarlo “IL PAPA”.

Il rapporto di Ernest con la Guerra e le battaglie di mezzo mondo resta il più duraturo nella vita dello scrittore. Scoppia la guerra civile in Spagna, e nel 1937 Hemingway abbraccia questa nuova avventura portando avanti con passione e cieca abnegazione il suo lavoro di corrispondente.

Durante l’attività sul fronte spagnolo incontra la scrittrice e giornalista Martha Gellhorn, conosciuta, però, un anno prima negli Stati Uniti… a Key West, dove lo scrittore aveva vissuto una tranquilla parentesi familiare con Pouline e i figli.

Nel 1939 Ernest si trasferisce a Cuba; lì si gode la sua leggendaria barca: Pilar, acquistata qualche anno prima tra i suoi viaggi e i suoi altri soggiorni a Cuba.

Questo periodo è però segnato dalla rottura del suo secondo matrimonio e dal consolidamento del rapporto sentimentale con Martha.

Nel 1940, lo scrittore pubblica Per chi suona la campana. Il romanzo trae ispirazione dalle vicende della Guerra Civile Spagnola. La Gellhorn ha spinto molto per la redazione di quest’opera. Per chi suona la campana sfiora il Premio Pulitzer. Martha ed Ernest si sposano.

Hemingway non resta mai fermo da qualche parte, e anche i suoi manoscritti viaggiano insieme a lui: Per chi suona la campana viene scritto tra Cuba, la residenza estiva in Idaho, e il Wyoming.

Nel 1941 Martha viene mandata in Cina, per il suo lavoro da giornalista. Hemingway la raggiunge ma non prova la stessa attrazione avvertita per altri luoghi e i due tornano presto a Cuba, prima della dichiarazione di guerra degli Stati Uniti. Lo scrittore salpa con la sua leggendaria Pilar e inizia a pattugliare le acque cubane alla ricerca di sottomarini tedeschi. Hemingway è così convinto della sua missione che ha equipaggiato la sua barca con bombe e mitragliatori. Il governo cubano è a conoscenza dell’attività dello scrittore che, infatti, prosegue nella caccia agli U-Boats tedeschi proprio dietro approvazione governativa (il piano viene presentato a Washington dall'ambasciatore americano a Cuba). Quest’atto porta lo scrittore sotto il mirino dell’FBI che, da quel momento, lo sorveglierà per tutta la vita…

Hemingway viene mandato in Europa come corrispondente di guerra nel secondo conflitto mondiale. A Londra conosce Mary Welsh, di cui si infatua immediatamente mentre il rapporto con Pouline è al capolinea.

Il 6 giugno del 1944 partecipa allo sbarco in Normandia. Come semplice testimone dei fatti lo scrittore non dovrebbe intervenire direttamente… ma Hemingway non è abituato a starsene con le mani in mano, a scrivere solamente. Il “Papa” arriva persino a guidare una milizia poco fuori Parigi, e la cosa non passa inosservata. Il coraggioso Ernest viene accusato formalmente…  nonostante questo, però, riceve la medaglia di bronzo per il coraggio dimostrato durante la Seconda Guerra Mondiale, ma solo nel 1947.

La salute dello scrittore diventa sempre più precaria e il suo rapporto con la scrittura diventa piuttosto complicato. Ciò che ancora non scema è la sua irrequietezza, la sua eterna ricerca. I viaggi continuano ed Hemingway viene richiamato dal fascino europeo; in realtà, ciò nel senso più stretto del termine dato che a Venezia si infatua, addirittura, di una diciannovenne.

Tornato negli Stati Uniti, termina le bozze de Il vecchio e il mare in poche settimane. Il romanzo, che lo scrittore aveva intrapreso con l’intento di creare la sua opera migliore, viene pubblicato nel 1952. La breve storia di Hemingway vende milioni di copie in due giorni… e questa volta sì, vince il premio Pulitzer.

Saremmo tentati di pensare che a quel punto lo scrittore si sarebbe potuto sentire “a posto”, con la fortuna e con la sua coscienza di scrittore. In realtà no. Hemingway decide di tornare in Africa.

Durante il soggiorno nel continente africano, lo scrittore viene coinvolto in ben due incidenti aerei e viene dato per morto. La vita di Ernest, invece, vince ancora la fortuna. Hemingway riporta gravi ferite e ulteriori traumi… che vanno ad aggiungersi a quelli regalati da tutti i precedenti scontri con la morte.

Nel 1954 viene insignito del Premio Nobel. Lo scrittore accetta il premio in denaro ma non si reca a Stoccolma per la premiazione: la sua salute inizia a piegarsi sotto i colpi di quella fortuna che sembra aver sempre battuto.

A Cuba, il rifugio preferito di Hemingway inizia ad essere in pericolo. Castro è intenzionato a nazionalizzare le proprietà degli americani, lo scrittore e la moglie lasciano così Cuba per l’ultima volta, nel 1960. Beni e manoscritti vengono messi al sicuro in una banca dell’Avana. In realtà le proprietà di Hemingway verranno espropriate dopo gli eventi della Baia dei Porci; la moglie dello scrittore chiederà aiuto al presidente Kennedy che riuscirà a intervenire con successo: ciò che verrà recuperato sarà donato dalla vedova al Museo Presidenziale. In verità, Castro non ha ceduto senza nulla in cambio: durante l’incontro con la vedova, organizzato grazie all’impegno del Presidente, si riuscirà a riavere documenti e manoscritti solo dopo la donazione da parte della vedova della tanto amata residenza cubana di Hemingway.

Lo scrittore continua a rimaneggiare manoscritti ma inizia ad avvertire difficoltà nell’organizzare le stesure. Va in Spagna e viene fotografato dalla rivista Life… ma non il suo stato di salute appare sempre più provato, a tutti.

Il vigoroso corpo di Hemingway e la sua mente lucidissima iniziano ad abbandonarlo ed egli si presenta sempre più sofferente e preoccupato.

Lo scrittore viene ricoverato alla Mayo Clinic nel Minnesota, sotto falso nome; l’FBI, però, che lo tiene nel mirino dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, viene subito a conoscenza della difficile situazione di Ernest Hemingway.

Dopo le dimissioni, e il ritorno nell’Idaho, non vi è alcuna evidente ripresa. Lo scrittore viene trovato con in mano il suo fucile… e viene ricoverato per una seconda volta. Al quadro clinico difficile di Hemingway si era aggiunto un problema alla vista, che lo affliggeva particolarmente  perché gli toglieva la possibilità di continuare la sua più grande partita con la fortuna e con se stesso: la scrittura.

Alla fine, Hemingway si spara nella sua casa di Ketchum, in Idaho. È il 2 luglio del 1961.

Anche suo padre, anni prima, aveva deciso di suicidarsi per sfuggire a un male incurabile; in realtà si è molto ipotizzato su problemi di salute ereditari al sangue, che potrebbero aver minato la salute fisica e mentale di molti membri della famiglia Hemingway. Si è addotto anche ai numerosi traumi cranici che avrebbero potuto portare a un deterioramento della mente dello scrittore. Alla fine, si cerca sempre di spiegare ciò che è terribilmente doloroso, si cerca di sopravvivere ponendo spesso domande che non hanno risposta. Negli anni successivi alla morte dello scrittore, si suicidano anche la sorella Ursula e il fratello Leicester.

Quando lo scrittore riceve il Nobel, anche se non si reca a Stoccolma, manda un discorso da leggere pubblicamente. Nel discorso spiccano parole dure, chiare e che esplodono di significati forti… come tutta la scrittura di Hemingway:

“SCRIVERE, NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI, È UNA VITA SOLITARIA.”

 

IL PRINCIPIO DELL’ICEBERG, e dopo mezzogiorno a nuotare…

Per comprendere la scrittura di Hemingway basta aprire a caso uno dei suoi romanzi: se leggiamo poche righe sembra di trovarsi dinanzi a un articolo di giornale. Non è da dimenticare che Hemingway fu un corrispondete di guerra: uno abituato a vedere gli orrori peggiori senza far “poesia”. Il sentimento dello scrittore non traspare, almeno non nell’immediato. Tutto è diretto, riferito, oggettivo.

In verità, nel complesso tutto ciò che viene descritto e riportato ha echi, significati nascosti che non vengono resi attraverso termini difficili o voli pindarici: l’oggetto più semplice, il pesce più piccolo e l’uccellino più insignificante diventano la personificazione di un concetto, di un sentimento personale del personaggio, del romanzo o dell’uomo in generale.

Nel maggio del 1954, Ernest Hemingway risponde alle domande di George Plimpton, durante un’intervista rilasciata a Madrid. In quella chiacchierata emerge il “principio dell’Iceberg”: sostanzialmente i sette ottavi di uno scritto sono sommersi… lo scrittore conosce tutto ma ne mette la maggior parte sott’acqua.

In fine, ciò che appare oggettivo e striminzito è una totalità che parla attraverso frasi corte, facili. Essere facili è estremamente difficile… così dice Carver (e non lo cito testualmente), e ciò ci mostra Hemingway.

L’idea romantica che abbiamo sulla scrittura spesso è un costrutto di fascinazione e poca conoscenza. Sì, è vero che gli scrittori sono gente strana… ma dietro vi è conoscenza, metodo e vita. L’abnegazione è indubbia quando si parla di grandissime penne come Hemingway, che presumibilmente ha scelto di uccidersi pur di non vedersi impossibilitato a scrivere. Ma ciò che si scrive viene solo dalla mente? Perché quando affronto un autore per la prima volta mi piace dilungarmi proponendo dei cenni biografici? È davvero evidente che la vita è il grembo da cui gli artisti portano alla luce storie, sentimenti e convinzioni… filosofie. Unisci la vita all’abilità e alla pratica costante e, se la fortuna ci mette del suo, ecco che può venir fuori il capolavoro.

Hemingway è riuscito a partecipare a due Guerre Mondiali, a sposarsi quattro volte, a girare mezzo mondo e ad esser mezzo morto per decine di volte… e a scrivere grandi capolavori vincendo il Nobel. Davanti a questi esempi è difficile non sentirsi abbastanza inetti. Ma, in realtà, dovremmo pensare che partire da esempi e dimenticarsi di vivere la propria vita per prendersi le proprie verità è una follia; questo ce lo dimostra lo stesso Hemingway, e basta guardare al modo in cui egli si rapportava alla scrittura. Lui scriveva al mattino, in piedi, e appuntava un numero di battute che doveva raggiungere su una tabella. A mezzogiorno chiudeva tutto e andava a farsi un bagno in piscina. Ecco tutto. L’emulazione è un brutto tarlo, ma sicuramente possiamo trarre ispirazione dalle vite dei grandi artist. Ricordiamoci innanzitutto di vivere E DI NON SCONTRARCI CONTRO QUALCHE ICEBERG: è meglio pensare alla profondità prima di fermarsi sulla pericolosa apparenza.

 

IL VECCHIO E IL MARE: accenni di trama, lo stile e il gioco del “trova i temi”

Santiago è il protagonista di questo romanzo, anzi, è uno dei protagonisti; e Santiago non è solo ciò che sembra. Questo personaggio è vecchio e la sua anzianità va oltre il conto degli anni e si misura tramite i giorni e le notti in mare… e tutte le sfide che ha dovuto affrontare tra il sole cocente, l’uccisione di innumerevoli esseri marini… e gli ancor più innumerevoli addii; siano essi alla moglie defunta, alla “fortuna” o ai tanti luoghi attraversati su un’imbarcazione. La storia è ambientata a Cuba, nelle acque del Golfo e sotto le luci delle stelle e dell’Avana.

Sono ottantaquattro giorni che Santiago non pesca nulla. La descrizione del suo aspetto fisico sembra sottolineare quella vecchiaia non solo anagrafica che lo affligge. Santiago ha la parte posteriore del collo solcata da rughe profonde, il viso è segnato dai tumori della pelle e dalla vita in barca fatta di sole cocente, di freddo vento notturno e di fatica inimmaginabile, per noi. Il vecchio è un solitario e vive in una capanna umile e spoglia, senza nulla di confortevole. A prendersi cura di lui solo un ragazzo di nome Manolin.

Manolin ha iniziato ad andare in mare da bimbo, e proprio con Santiago. Da qualche tempo, però, Manolin è andato a pescare su un’altra barca per volontà dei genitori… perché il vecchio è, oramai, salao: è sotto i colpi della più terribile sfortuna. Il ragazzo ha dovuto seguire gli ordini del padre, e va a prendere pesci su una barca che non è quella di Santiago con la vela consunta e rattoppata con dei vecchi sacchi di farina. Manolin, però, non abbandona il vecchio e si prende cura di lui come farebbe il figlio più amorevole. Il ragazzo fa finta di credere alle stringate frasi di rassicurazione di Santiago… che si alternano a bugie buone e alle informazioni su pasti mai consumati. Manolin, grazie alla solidarietà di quel posto di pescatori, riesce sempre a procurare del cibo caldo al vecchio. I due mangiano insieme e parlano del Baseball. La realtà umile e “fuori dal tempo” di quel porto cubano entra in contrasto con il sogno americano che ha il volto del grande Di Maggio, il giocatore di Baseball che Santiago ammira tanto… anche perché il padre del grande Di Maggio era pescatore, e forse quell’idolo mondiale potrebbe capire… forse.

Santiago ogni mattina va a svegliare il ragazzo e i due fanno parte l’uno della quotidianità dell’altro. Il vecchio è solo, ma non troppo: ha Manolin, e ha il mare. L’acqua è la vera casa di Santiago, e lì entra in contatto con i suoi fratelli che sono i pesci, anzi tutte le creature dell’acqua e del cielo.

Un giorno, il vecchio parte con la convinzione che quella giornata di pesca sarebbe stata diversa. Manolin lo accompagna all’imbarcazione, gli procura la colazione e insiste per aiutarlo con i pesci che serviranno da esca. Santiago parte… e va molto al largo. La decisione di spingersi verso un certo punto, così lontano, sarà ciò che porterà vittoria e rovina.

Oramai tutti sappiamo che Santiago avrà a che fare con un Marlin, un pesce enorme. Non tutti, ma la maggior parte di voi, probabilmente, saprà se Santiago prenderà il pesce o no. La pesca di quell’enorme e “nobile” creatura si estende per giorni, ma occupa la prima parte del romanzo e potremmo venir disorientati pensando che la questione si potrebbe considerare risolta. La fortuna, però, ha il suo bel da fare… anche se uno è “a posto”: Santiago crede di essere perfettamente pronto a tutto, perché è convinto che la fortuna può arrivare in ogni momento, anche se non si sa quando, e un uomo devi farsi trovare “a posto”. Santiago si renderà presto conto delle cose che non aveva considerato prima della partenza: molte cose non sono affatto pronte, tante eventualità vengono dimenticate… perché ottantaquattro giorni di inattività annebbiano la mente più della fatica.

Ciò che colpisce durante la lettura è che sembra di leggere una cronaca. Tutto viene riportato in maniera pulita e oggettiva. Gli eventi sono raccontati tra i pensieri della gente di quel luogo che vive grazie al mare, riferiti senza alcun commento e fortificati dall’uso di termini nella lingua madre di Santiago. Lo stile è maschile e vigoroso: non si perde in chiacchiere e in metafore pindariche… anche se tutto è in realtà allegorico. Mentre il mare ci culla tra la corrente e i pesci che tirano le lenze, possiamo godere della dolcezza dello sguardo che Santiago riserva a tutte le creature. I poli della compassione e della necessità si mettono su un tavolaccio umido e consunto dal sale e giocano a braccio di ferro. Anche Santiago era stato, un tempo, un campione di braccio di ferro… Santiago, tanti anni prima, era stato EL CAMPEON.

Il vecchio è un pescatore e la gente tra le capanne si nutre grazie ai pescatori. Chi non è pescatore si nutre comunque del lavoro di mani callose e braccia corrose dal sole. Pescare e uccidere è una necessità imprescindibile. Anche gli animali uccidono: ognuno ha il suo ruolo e lo persegue senza remore. Santiago fa ciò che deve fare ma non manca di addolorarsi della sorte degli uccelli più indifesi del cielo, e di provare pena nel ricordare quando, con Manolin, catturò un grande Marlin femmina mentre il maschio non la lasciò per tutto il tempo… alla fine i due pescatori si affrettarono a uccidere il grande pesce a bastonate, per compassione, senza esitare. A volte l’esitazione è un prolungamento della pena. Al lettore tutto potrebbe apparire estremamente crudele, a partire dal racconto di come i pescatori amano accanirsi sulle tartarughe solo perché il cuore di quella specie continua a battere per lungo tempo dopo la morte. Santiago, però, è diverso: pensa alle tartarughe constatando quanto quei cuori e persino quelle zampe siano quelle di una creatura affine. Per Santiago i pesci che uccide e gli uccelli che vede assassinati da uccelli più grandi sono FRATELLI. Anche il grande Marlin che abbocca al suo amo così “a posto” è suo fratello. Il lirismo di questo romanzo si mostra tra i pensieri e il parlar da solo di Santiago. Si sa che i pescatori non amano parlare; ma da quando il ragazzo ha abbandonato il vecchio quest’ultimo ha iniziato a parlar da solo a voce alta. Santiago si rivolge a ogni creatura, da quelle bellissime e fragili che gli nuotano o volano intorno, fino a quelle che uccide e di cui si ciba non per gola ma per rendersi forte. La transustanziazione del mare, attraverso la materialità di prede svariate, e soprattutto di una che Santiago si pente di aver acciuffato dopo essersi rotto la schiena e le mani. Il vecchio si ciba dei fratelli che vivono nel mare, e quei pasti ci appaiono qualcosa di più di una semplice sussistenza, anche se così ci vengono raccontati.

 Santiago non manca di dialogare con se stesso, con Dio, o forse con l’idea che si ha di Dio… e con la sua mano sinistra. Tutto il corpo del vecchio si piegherà alla più grande battuta di pesca della sua vita. La mano sinistra è afflitta da continui crampi, la sola cura che conosce Santiago è fatta di dialoghi alla stessa mano, di acqua di mare e del calore del sole.

Non possiamo non tifare per il vecchio, ma da un lato tifiamo anche per il suo avversario… e anche Santiago fa il suo dovere addolorandosi di quello che c’è da fare. In lui c’è sensibilità, c’è cuore; lui è però un pescatore e i pescatori sono nati per prendere pesci, come Di Maggio è nato per il Baseball e il padre di Di Maggio era nato per essere anch’egli un pescatore, come il vecchio.

In questo romanzo uno dei tanti protagonisti è l’onore, anche se Santiago riflette più volte sul fatto che l’uomo è più forte perché inganna.

Per tutto il romanzo abbiamo a che fare, praticamente, con un solo uomo… così sembra: ci sono anche la Fortuna, l’onore, le necessità; i pesci volanti, i delfini e i dentusi; i sogni di Santiago che vede i leoni che una volta scorse su una spiaggia, in Africa. Ci sono anche tutti gli elementi naturali: il vento, la luna e le stelle. Santiago si rallegra che l’uomo non debba uccidere le stelle; quell’uomo che può morire ma non essere battuto. Santiago sarà un vincitore o un perdente? Ho paura che la risposta non ci sia o che ognuno di voi ne possa avere una, diversa da quella degli altri fratelli lettori.

L’osservatore che sembra non smettere mai di fissare silenziosamente la vicenda è l’oceano.

Santiago si rivolge alle acque marine chiamandole al femminile, apostrofandole con l’espressione la mar. Tutti quelli che amano il mare gli parlano come a una donna… anche perché il mare va dietro alla luna, come le femmine dell’uomo. I giovani pescatori usano l’espressione el mar, al maschile, come rivolgendosi a un avversario da battere a pugni.

Santiago combatterà duramente con diversi avversari, in quei tre giorni solitari al largo. Il suo sfidante principale è un fratello, è messo al maschile ma la lotta non è fatta solo di violenza e sofferenza ma anche di amore, un amore che non è romantico e non è poetico. Pensando alle lunghe giornate di guerra vissute da Hemingway non si può cogliere l’evocazione di valori militari e di drammi e necessità che solo la guerra può portare. Nel combattimento ci sono ruoli e cose da fare, simile contro simile: c’è chi è spietato e sadico e chi fa il dovere che è chiamato a compiere sapendo anche piangere per il fratello nemico.

In questo breve romanzo, fatto di oggettività e pochi fronzoli, dobbiamo stare attenti a guardare sotto la superficie dell’acqua; o possiamo pregare che ciò che si nasconde sotto il velo possa saltare fuori e farsi vedere, finalmente. Quest’ultima riflessione la capirete leggendo il romanzo.

Siate pronti a soffrire e sentire la fame e la sete. Cercate di non farvi distrarre dalla stanchezza perché la fortuna non smette mai il suo gioco. Possiamo però sperare che ciò che salva l’uomo, anche se l’uomo uccide, è la solidarietà che può giocarsela molto bene con gli inganni della fortuna… che credo sappia barare molto meglio degli uomini.

 

LA VERSIONE GRAFICA DELLA NICOLA PESCE EDIZIONI

Questo fumetto è stato per me un colpo di coraggio. Non sapevo se sarei riuscita a formulare un’opinione dato che non sono un’esperta del genere e amo molto il romanzo Il vecchio e il mare.

Iniziamo dal fatto che la lettura della breve introduzione mi ha rassicurata e mi sono sentita “sorella” di questo progetto editoriale. Lo sceneggiatore Andrea Laprovitera parla della nascita dell’idea, partendo subito da un concetto che può riassumere il romanzo e anche lo stesso Hemingway, se si mette da parte il tragico suicidio e le sue sfumate motivazioni. Laprovitera parte analizzando cos’è la RESILIENZA:

“Resilienza: capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento. In psicologia si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di restare sensibile a quello che il mondo o la vita può (ancora) offrire.

Chissà se Hemingway voleva parlare di questo (o anche di questo) quando nel 1952 ha scritto Il vecchio e il mare.”

Il concetto di “resilienza” è sicuramente divenuto famoso specialmente negli ultimi anni, tra tatuaggi e aforismi infestanti. Chissà se dieci anni fa si pensava alla “resilienza” quando si leggeva questo romanzo. Io, sinceramente, non ci ho pensato.

Continuando a godermi l’introduzione ho avuto l’impressione di parlare con un amico; anche perché la sera prima avevo detto delle cose molto simili parlando, in casa, del romanzo appena riletto.

Lettori, lo dice Laprovitera, e io lo confermo: IL VECCHIO E IL MARE, una volta letto, si rileggerà più volte… e in diversi momenti della vita.

Concordo anche sull’efficacia del lavoro del disegnatore, Ludovico Lo Cascio, evidenziata dallo sceneggiatore. Io non sono un’esperta ma sono una lettrice… e a me le “nicchie” non piacciono, perché i prodotti di nicchia spesso sono tali per l’atteggiamento snob non di chi ama determinati prodotti ma di chi non tenta nemmeno di approcciarsi a qualcosa di “diverso” dall’edizione canonica e confortante, da leggere composti sulla propria poltrona.

Lo stile del disegno è rispettoso: il creatore della parte grafica si è messo al servizio della storia senza mettere in mezzo la questione del “IO HO IL MIO STILE”. Il fumetto è interamente in bianco e nero, anche se la copertina è meravigliosamente viva e colorata. Lo stile di Hemingway e il romanzo sono fatti di azioni, dialoghi e silenzi: il fumetto è fatto di Santiago che pesca, che parla e che lotta. Se non ci sono le parole c’è il mare e c’è il volto segnato del vecchio. Come ho già detto, questa storia può avere diverse interpretazioni e quella di questo fumetto è una delle possibili. Per trasformare un romanzo in una sceneggiatura bisogna fare scelte coraggiose. Gli incontri di Santiago vengono ridotti all’osso, e forse io avrei scelto di inserirne altri; però, il modo in cui viene resa la gestualità e viene onorato l’AVVERSARIO principale è meraviglioso. 

 Questo fumetto è come Hemingway: non si perde in orpelli e ci mette davanti la realtà nuda e cruda, non mancando di mostrare simboli che spiazzano (ma non voglio svelarvi troppo).

L’editoria dovrebbe essere una custode della letteratura; reinterpretare un grande classico è un modo per fare quello che si deve fare… ma senza dimenticare l’emozione, la commozione, e una giusta attrezzatura. Alla fine, questo è lo “Stile Santiago”.

Consiglio di leggere integralmente il romanzo e di provare, in seguito, con questa versione grafica. Avrei voluto che si inserisse la parte sulla dicotomia tra el mar e la mar; beh, però ho potuto vedere con occhi fisici e non solo mentali una delle battute di pesca più leggendarie della storia della letteratura, e forse della storia dell’uomo… di che mi voglio lamentare!

 Buona lettura...

 

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[1] Espressione resa famosa dallo stesso Hemingway che la utilizza per indicare gli scrittori che hanno raggiunto la maggiore età durane la Prima Guerra Mondiale.


sabato 11 luglio 2020

UNA BELLISSIMA STORIA DI LUIS SEPÚLVEDA SULL'AMICIZIA, IL CORAGGIO E IL RISPETTO DELLA NATURA

STORIA DI UN CANE CHE INSEGNÒ A UN BAMBINO LA FEDELTÀ

Ph. Francesca Lucidi. Libro in versione Ebook. Ugo Guanda Editore 2015.

LA VITA DI LUIS SEPÚLVEDA

Luis Sepúlveda nasce ad Ovalle, in Cile, il 4 ottobre del 1949. Già la sua venuta al mondo anticipa il peregrinare instancabile dello scrittore e la sua esistenza segnata dalle vicende politiche del Sud America.

Luis nasce in una camera d’albergo: i genitori sono ricercati per motivi politici, gli stessi che hanno costretto il nonno a fuggire dall’Andalusia. Il nonno era Gerardo Sepúlveda, detto Ricardo el Bianco, un anarchico.

Lo scrittore passa i primi anni della sua vita con il nonno a Valparaíso. In quel periodo un’altra figura importante è il prozio… ma ne parleremo tra un po', perché molto ha attinenza con il racconto in oggetto.

Nella sua infanzia impara l’amore per la narrazione; e anche per la lettura, prediligendo i romanzi di avventura.

Luis passa dalla lettura alla scrittura, e alla politica. All’età di quindici anni si iscrive al Partito Comunista.

A diciassette anni inizia l’impegno giornalistico presso il quotidiano Clarín, e lavora in radio.

Con il suo primo libro di racconti Crónicas de Pedro Nadie vince il Premio Casa de Las Americans e ottiene una borsa di Studio all’Università di Mosca. In realtà, Luis resta poco in Russia perché viene espulso per presunti contatti con dei dissidenti. Le voci sulle cause del suo allontanamento sono, però, molteplici.

Tornato in Cile, Luis viene espulso dal Partito Comunista. Il suo impegno politico e “rivoluzionario”, però, non si arresta: lo scrittore parte per la Bolivia e milita nell’Esercito di liberazione Nazionale, l’organizzazione di guerriglieri guidata da Ernesto Guevara, detto il Che, il quale era impegnato nella diffusione della rivoluzione popolare.

Luis torna poi in Cile e completa gli studi per diventare regista teatrale. Inizia a militare nel partito socialista e a sostenere con tutte le forze il presidente Salvador Allende, entrando anche nella sua guardia personale.

Purtroppo, il governo di Allende non dura… e l’11 settembre del 1973 i vertici militari prendono il potere e inizia così la dittatura guidata dal generale Pinochet. Allende resiste fino all’ultimo secondo, i militari irrompono nella residenza presidenziale dove i suoi fedelissimi sono costretti a consegnarsi… ma il Presidente non si arrende, non cede alle proposte di un presunto accordo e si spara con un Ak-47.

Luis Sepúlveda viene ARRESTATO e torturato; resta un carcere per mesi in una cella asfissiante. Lo scrittore ottiene la scarcerazione grazie all’intervento di AMNESTY INTERNATIONAL

Riprende il suo impegno nel teatro dai contenuti politici, per questo motivo viene di nuovo arrestato e viene condannato all’ergastolo. Amnesty International interviene ancora e la pena è commutata in un esilio di otto anni. La Svezia gli offre asilo politico e una cattedra universitaria… ma Luis scappa durante il viaggio, intenzionato a raggiungere il Paraguay. Riesce a raggiungere l’Uruguay; a causa di problemi politici deve, però, scappare.

Arrivato in Ecuador riprende la sua attività teatrale. Si impegna, poi, anche in un progetto dell’UNESCO rivolto allo studio delle civiltà indigene e sull’impatto da queste subito dalla “civilizzazione”.

Nel 1978, si reca in Nicaragua. Nel paese è in atto la Rivoluzione… dopo la vittoria dei rivoluzionari, Sepúlveda inizia girare l’Europa.

All’inizio degli anni ottanta inizia l’impegno dello scrittore in GREENPEACE. In seguito, si sposta in Spagna per poi tornare in Cile.

Nel febbraio del 2020, lo scrittore è in Portogallo per il festival letterario Correntes d’Escritas; purtroppo Luis e sua moglie contraggono il Coronavirus, che sta iniziando a diffondersi in tutto il mondo. Dopo un lungo coma si spegne nell’Ospedale Universitario delle Asturie, ad Oviedo, il 16 aprile.

Noto alle masse per il suo Storia di una gabbianella e del gatto le insegnò a volare, Luis Sepúlveda lascia una immensa eredità letteraria ed emozionale.

 

STORIA DI UN CANE CHE INSEGNÒ A UN BAMBINO LA FEDELTÀ

Introduzione alla storia

Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà è un libro del 2015; il titolo originale è Historia de un perro llamado Leal.

La storia ha una brevità che contrasta… anzi esalta il suo contenuto ENORME. Questo racconto è un ESEMPIO, è la descrizione dei lati più oscuri e distruttivi dell’umanità ma anche delle bellezze del mondo, e dei sentimenti puri e in linea con le leggi della Natura. Ci sono due tipi di umanità che vengono mostrati al lettore: l’uomo moderno spietato, infelice e irrazionale; e l’uomo pacifico, silenzioso e segnato dall’onore e dal coraggio, un uomo che conosce la Natura e vive in essa con rispetto e consapevolezza.

Il narratore è un cane, un pastore tedesco. La scelta della razza è assolutamente in linea con la messa a nudo dell’umanità negativa, quella legata al valore delle cose, che non è un reale “valore”.

Il cane sta cercando un fuggitivo e lo fa per degli uomini. L’oggetto delle ricerche è un Indio ed è assolutamente importante acciuffarlo. Non possiamo pensare che il cane sia cattivo e quindi siamo invitati a pensare che i motivi della ricerca siano seri, e quasi tifiamo per la cattura.

L’autore ci narra la storia attraverso lo scorrere dei pensieri dell’animale: il cane ci racconta cosa accade e il tutto viene intervallato dai dialoghi brevi e rabbiosi degli uomini. Sì, iniziamo ben presto a capire di che natura sono fatti quegli individui che arrancano tra erba, alberi, pioggia e disagi. Questi personaggi sono aggressivi ma totalmente impauriti. Il cane avverte l’odore di quel “branco”, che sa di paura. Il fetore della paura degli uomini è forte ma non attenua i sentori che provengono dal fuggiasco… quelli, però, sanno di farina, miele e di tutto ciò che il cane ha perduto.

Possiamo subito intuire che il cane non ha sempre vissuto tra quegli uomini come uno strumento senza vita da maltrattare.

Il fuggiasco riesce a muoversi velocemente e gli uomini sono costretti a fermarsi più volte: loro non conoscono lemu, il bosco, e accendono fuochi soffocati e circondati dal fumo. Se non si conosce il bosco non si sa quali sono i suoi doni: si sceglie la legna sbagliata e lemu non offre i suoi servigi se non è trattato con rispetto e sapienza. Tutti gli uomini sembrano trascinarsi senza capire nulla di ciò che intorno a loro parla e vibra. Le parole degli animali vengono udite solo dal cane, che riesce a distinguere il gracidio della rana, il canto sommesso del gufo, le ali del pipistrello che si nutre. Tutto è in perfetta armonia, tranne gli uomini. Il branco di cacciatori è a disagio. Gli uomini litigano costantemente tra loro… e il capo svetta per freddezza e crudeltà. Egli non è malvagio solo con il povero cane ma anche con i suoi simili: se uno del branco prova a nutrire l’animale il capo prende a calci il pezzo di pane e protesta… un cane deve essere affamato per cercare bene; se così egli crede non potrebbe essere diverso se ad aver fame fosse un suo simile che non ha adempiuto ai suoi presunti doveri.

Il cane in sogno vede, come accade per tutti gli esseri che riescono a “vedere” realmente: il pastore tedesco è uno sciamano, non per investitura ma grazie agli insegnamenti quotidiani che ha avuto dalla Gente della Terra.

Cane, perché così l’animale viene chiamato dagli uomini, in sogno rivive il giorno in cui cadde nella neve. Tra le alte montagne una carovana si spostava tra gli aromi di mate, carne secca e farine. Una borsa conteneva Cane, che però cadde, e nessuno se ne accorse. Abbandonato e acciecato dalla corsa per raggiungere i cavalli che poco prima trasportavano lui, uomini e merci rimase solo, ma ecco che una tiepida lingua giunse a rassicurare il cucciolo. Un salvatore grande e fiero prese con sé Cane. La nuova casa che trovò ad accoglierli era una caverna. Ma un pichitrewa, un cucciolo di cane, non poteva restare con quella creatura. In pochi giorni Cane venne nutrito, e iniziò ad imparare la forza delle sue zampe… ma non poteva restare: il suo compagno aveva già in mente un piano.

Dopo questa visione onirica giunge il mattino: a Cane viene ancora negato un pasto dal capobranco, che si scaglia contro un suo simile il quale, spinto dalla compassione, lancia un pezzo di pane all’animale.

Cane è affamato e stanco… ma non è arrabbiato: è lucido e intenzionato a portare avanti la sua missione. Gli uomini, invece, sono completamente furiosi e confusi dal disagio provato nello stare nella foresta, e dalla stanchezza. Cosa fanno gli uomini quando sono arrabbiati e in difficoltà? Si scagliano l’un l’altro… questa gente che proviene dalla civiltà è molto diversa dalla Gente della Terra.

Il fuggiasco ha lasciato tracce di sangue… il cane avverte ogni suo segno. Ma l’animale ha un piano, come il suo salvatore, tanto tempo fa. Il pastore tedesco fa il suo lavoro e fiuta e sa benissimo dove si sta dirigendo il fuggitivo. Gli uomini pensano che la cattura sia vicina e seguono ogni segnale lanciato dal loro schiavo a quattro zampe. Ma Cane ha un piano e gli uomini non giungono a nulla se non a luoghi scomodi che loro sono incapaci di sopportare… il branco corre, anzi arranca. Cane si distanzia da loro e si ferma a gustare l’acqua fresca tra le pietre del fiume; i morsi della fame sono sempre più forti e l’animale cattura un topo di montagna, un tunduku. Cane uccide in modo molto diverso dagli uomini e dalle loro armi per ammazzare. Il pastore tedesco non appartiene al mondo civilizzato: lui appartiene alla Gente della Terra. Cane sgozza il topolino… e poi gli chiede PERDONO: dalla Gente della Terra ha imparato che l’uomo, il che, deve chiedere perdono all’albero che abbatte, alla pecora che tosa. L’animale ha imparato che ci si ciba per quel che basta, e agli altri fratelli viventi si lascia il resto, come in un grande banchetto dove tutti si è alla pari senza affamare, odiare, umiliare.

Ecco che il tuono, un altro fratello, arriva a sconquassare l’aria e a portare il temporale. Cane riesce a trovare un riparo, mentre gli uomini restano a urlarsi contro tra i canneti e la fanghiglia. Il sogno ritorna a portare visioni all’animale/sciamano addormentato. Nello spazio del sogno, una storia racconta di un giaguaro, un nawel, che un giorno portò qualcosa tra le ruka, le case della Gente della Terra. Ogni porta di quelle abitazioni è puntata ad est, dove il sole sorge… ma in quella mattina fredda un altro dono della Natura arrivò su quelle soglie.

Wenchulaf, che significa uomo felice, trovò qualcosa e lo portò dentro alla ruka. Dentro quelle abitazioni si svolgeva l’ayekantun, l’appuntamento quotidiano in cui si narravano storie… e Wenchulaf era la voce di quella sapienza tramandata tra le generazioni. Il cielo aveva portato un dono e la Gente della Terra sa che si accettano e amano tutti i doni che il cielo manda.

Cane riesce a sentire le braccia di Wenchulaf, mentre sogna.

Nei ricordi vivi di Cane vi è un altro nome: Aukaman, cioè condor libero. Un sogno può avere profumi, e quegli odori piacevoli sono fatti di farina e di latte e di miele… come quelli del fuggiasco. Mentre imperversa il temporale, il sogno di Cane gli ricorda il suo VERO NOME: AUFMAN, che nella lingua della Gente della Terra significa leale, fedele.

“Questo cucciolo ha dimostrato lealtà a monwen, la vita, non ha ceduto al comodo invito di lakonn, la morte, perciò si chiamerà Aufman, che nella nostra lingua significa leale e fedele.”

Ciò che lo Spirito della Terra porta è per il nostro bene; la gratitudine è il nostro dovere verso di esso. Cane lo sa bene ed è grato della sua missione.

Il mattino arriva e solo le frustate attendono il pastore tedesco; è proprio la sua razza a far diventare Cane una proprietà degli Uomini della “Civiltà”. Un giorno era diventato il cane del capobranco… per un merito che Cane aveva guadagnato più per istinto che per intento: il pastore tedesco non avrebbe mai voluto vivere in una gabbia o ricevere ordini dal capobranco. Questo accadde, e tante cose Cane perdette.

Un giorno, però, il suo ruolo di cacciatore per il capobranco aveva assunto tutta un’altra importanza: odio, un abbaio e uno sparo… e da lì Aufman era tornato a essere se stesso, fingendo, però, di essere Cane.

Il fuggiasco verrà trovato? E qual è il piano di Aufman? Chissà se le cose che ha perduto possono essere ritrovate…

In questa storia molti Giusti vengono oppressi; qualcuno perde la vita… e la Natura ascolta e vede e osserva. Dimenticare lo Spirito della Terra priva gli uomini della VERA vita. Morire è un ricongiungimento, la brama di afferrare e rubare altre vite, invece, è un tipo di "morte" che non avrà mai consolazione e pace.

 

PERCHÉ SEPÚLVEDA HA SCELTO DI SCRIVERE QUESTA STORIA

Lo scrittore sente di avere un debito: la sua vocazione di scrittore la deve ai suoi nonni, che come tutti i nonni raccontavano tante storie; e soprattutto al suo prozio Ignacio Kallfukurá, un mapuche, un appartenente alla Gente della Terra. Luis ascoltava le storie, che il prozio narrava nella lingua dei mapuche, non capiva molto ma riusciva a comprendere tutto… perché dopotutto anche Luis era un mapuche.

Nell’introduzione, lo scrittore ci racconta di tutto questo passando anche per il ricordo del succo delle mele appena raccolte. Lui avrebbe voluto poter raccontare storie ai bambini mapuche, alla fine sceglie di portare tutti bambini del mondo davanti a quei falò nella Wallmapu, il paese della Gente della Terra.

Intraprendere questo viaggio significa stare in silenzio, come quando si ascolta qualunque storia. Le voci più importanti non sono quelle altisonanti della “civiltà” ma quelle della vita come si manifesta attraverso lo Spirito della Terra che tutto permea. Ogni cosa ha una vita. Sedersi intorno a questo immaginario falò implica la crescita interiore attraverso il rispetto, la sapienza di ciò da cui ogni cosa nasce… è una lezione che non passa per grandi calcoli, no. La Natura aspetta come anche il vero e puro Amore, e l’amicizia.

Credo che questa piccola storia abbia una grandezza che a stento si può contenere in una sola lettura di qualche ora. Sepúlveda è un cammino di vita. Lui voleva rivoluzionare il mondo: ha combattuto, ha sofferto il carcere e la repressione… alla fine la sua GRANDE RIVOLUZIONE è riuscito a farla. Volete rivoluzionare il mondo? A volte basta solo saper ascoltare.

 

Io ho preso questo libro in formato ebook e cartaceo (che è in arrivo). Consiglio tutte le versioni che potete preferire. Se volete acquistarlo vi inserisco il link diretto di Amazon: se acquisterete tramite il link potrete aiutare il Penny Blood Blog che riceverà piccolissimi compensi virtuali che verranno reinvestiti in altri meravigliosi libri, su cui discorrere insieme! Trovate il link alla pagina Amazon del libro sul lato destro del blog, insieme ad altri fratellini.

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Buona lettura!




mercoledì 8 luglio 2020

FRIDA KAHLO RACCONTATA ATTRAVERSO UNO STRAORDINARIO ALBO ILLUSTRATO

FRIDA KAHLO. UNA BIOGRAFIA
di
MARÍA HESSE

Frida Kahlo. Una biografia, edizioni Solferino. Ph. Francesca Lucidi 

MARÍA HESSE

María è nata in Spagna nel 1982; ha una personalità rivoluzionaria, libera e desiderosa di comunicare importanti messaggi sociali ed emozionali. “Hesse” non è il suo vero cognome: è stata una scelta autonoma dettata da un profondo legame con Hermann Hesse. María è esattamente così: entra in un legame profondo con realtà e carni e le assorbe per poi cesellarle con gli splendenti materiali del suo talento e del suo animo.  Le connessioni che lei ricerca sinceramente, e perpetra, diventano un generoso regalo da fare a tutti.

María inizia a esprimersi con i colori fin da piccola. Una volta cresciuta pensa che l’Accademia delle Belle Arti sia la strada più sensata… in realtà non riesce ad essere ammessa. María, allora, si forma nel campo dell’istruzione infantile e diventa maestra.

Qualcosa manca.

Non riesce ad abbandonare il suo sogno, o destino. María inizia la carriera da illustratrice professionista. Il suo primo grande successo è “FRIDA KAHLO. Una biografia”, edito da Lumen.

Il libro viene tradotto in quattordici lingue; María vince in Brasile il National Children's and Youth Book Foundation Award.

María crea anche a un’altra biografia, dedicata a David Bowie. Questo lavoro è stato realizzato in collaborazione con Fran Ruiz, grande fan di Bowie. Frida, invece, è una creatura interamente curata dalla Hesse. Due icone ormai impresse ossessivamente quasi su ogni oggetto di uso quotidiano; due personaggi eccentrici e dolorosi… due personalità che hanno mescolato realtà e finzione da un’argilla originaria assolutamente inaccessibile all’uomo comune. María, infatti, riflette sulle volte in cui Frida parlò di molti eventi mutandoli; María sceglie di partire da pochi fatti certi per creare un documento che è innanzitutto un monumento alla VITA e alla COLORATA voce delle emozioni: anche il dolore ha i suoi colori, e grazie a María e a Frida possiamo affrontare un esercizio delle emozioni che non punta sul nozionismo ma sull’ESPRESSIONE.

María è presente sui social e ha un sito ufficiale adorabile. All’interno potrete trovare anche uno shop fin troppo accattivante.

Le biografie su Frida Kahlo e David Bowie sono uscite in Italia nell’ottobre del 2018, edite da Solferino.

 

FRIDA KAHLO. Una biografia

Questo libro è un albo illustrato, colorato, irriverente e rispettoso allo stesso tempo. La Hesse ci accoglie con il suo “manifesto” programmatico che invoca la volontà di ritrarre Frida Kahlo tra i poli della realtà e della finzione. L’illustratrice si prende la responsabilità del lavoro di scrittrice partendo dalla sua conoscenza di Frida… mondandola dalle pretese di eccessiva adesione alla realtà (una realtà altresì sfuggente), e si prefigge l’obiettivo di raccontare la straordinaria vita della pittrice cercando di esserne la portavoce; attraverso una mimesi profonda, sincera e rispettosa.

L’aspetto delle illustrazioni è giocoso, allegro e infantile. Tutto appare come un diario in forma di immagini, partendo da come Frida stessa ha raccontato la sua vita: con colori, contorni e trasfigurazioni.

Ph. Francesca Lucidi
Se si vuole leggere un saggio questo albo non è la scelta giusta, ovviamente. L’intento è la CONNESSIONE; non una conoscenza nozionistica ma emozionale. Tutti i punti salienti della vita di Frida sono riportati in un’apertura a inizio libro che ne sintetizza i passaggi fondamentali. Da lì, anche i profani possono partire con una panoramica generale chiara, semplice ed esaustiva.

Dopo, la narrazione inizia a dipendere dalle immagini in una maniera dolce e trasognata.  Frida non ci appare con la sua immagine iconica ma con linee che la ritraggono come un essere fatato, da amare immediatamente.

Tutto l’aspetto dell’albo ricorda un libro di fiabe. I dipinti di Frida vengono inseriti nella narrazione attraverso l’interpretazione dell’illustratrice, che intervalla il tutto con elementi nuovi che richiamano ogni singolo aspetto dell’esistenza, del gusto e della quotidianità della Kahlo.

Possiamo conoscere la Frida bambina che interagisce con le sorelle, e con l’amica immaginaria con la quale raggiungeva perfino il centro dalla terra. Quell’amica non ha volto ma i suoi movimenti, perfettamente orchestrati dai tratti della Hesse, sono ciò che più identifica il significato della sua presenza.

Sfogliando le pagine sembra di entrare a casa della famiglia Kahlo; ci pare di avvertire una inaspettata intimità con quella quotidianità qui riportata solo con pochi aneddoti. Si può riscontrare la gestualità forte e caratteristica di Frida, si può scorgere l’animo fermo ed elegante del papà… si può contemplare la gamba malata della pittrice che riesce ad essere un legno fermo ma allo stesso tempo un germoglio che non smette di voler vivere a tutti i costi.

Frida nasce con una malattia che viene nascosta a tutti per vergogna. La stessa vergogna fa sì che lo spirito rivoluzionario di Frida non venga compreso dagli altri. Il papà è una figura forte e amorevole… Frida non è una bambina come le altre: è debole e non si muove bene… quindi vi aspettereste che il Signor Kalho la iscrivesse a un corso di lotta libera? Tutto, qui, è stupore. Frida è un monumento sofferente al coraggio e alle risorse interiori urlanti.

Le pagine dell’albo sembrano tramutarsi in un quaderno assemblato tra fogli sparsi, schizzi e pensieri appassionati… come quello che Frida portava con sé il giorno del terribile incidente.

Nel 1925 l’autobus su cui è salita Frida si scontra con un tram; Frida non sarebbe neanche dovuta essere su quella prigione di metallo. L’impatto è lento e terribile. Frida viene trapassata da un corrimano che vìola la pura “femminilità” della giovane.

Nessuno crede nella sopravvivenza di Frida che, invece, ce la fa.

La convalescenza nel letto della sua casa è circondata dalle premure dei suoi genitori: la mamma e il papà ornano il suo giaciglio con un baldacchino e le regalano il necessario per dipingere, e uno specchio. Da quel momento inizia il viaggio di Frida nella pittura e nei significati profondi dell’esistenza, in primis della sua.

Lei inizia a dipingere ciò che è, ormai, il suo mondo: se stessa. Lei si guarda, si conosce e si reinterpreta… dandosi una forma che travalica le ferite fisiche per sublimare la sofferenza nell’espressione artistica del suo corpo, con le sue storie.

Prima dell’incidente Frida aveva un amore… aveva la passione per le bici prese a noleggio e non restituite a tempo debito. Nella borsa portava bambole, quaderni autoprodotti e tanti libri. La giovane era curiosa e vivace: una delle trentacinque donne ammesse alla Scuola nazionale preparatoria. Proprio durante i suoi studi, Frida conosce il “fattore x” del suo secondo incidente (così lei lo indentifica); la pittrice incontra Diego Rivera. L’impatto con Diego cambierà tutto… come quello che ha fatto scontrare l’autobus e il tram.

Ciò che colpisce è che la Frida prima della tragedia del 1925, che ho appena descritto, svanisce. Dal trapasso del povero e puro grembo della giovane nasce una persona nuova, risvegliata nel dolore.

Già da prima Frida si scopre più interessata alle persone che alle “nozioni” (come lo stesso albo che racconta la sua vita). La tragedia fa nascere delle consapevolezze dure da comprendere per chi non ha vissuto un dramma esistenziale e una lacerazione del corpo. Frida dice:

Perché studi tanto? Quale segreto cerchi di scoprire? La vita te lo rivelerà presto. Io so già tutto, senza bisogno di leggere o scrivere.

[…]

Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio, ma che non nasconde nulla, come se io avessi capito tutto nel giro di qualche secondo. Le mie amiche, le mie compagne sono diventate donne lentamente. Io sono invecchiata in pochi istanti e oggi tutto è bianco e limpido.

Ecco, soffermandosi sulla citazione, interamente riportata nell’albo, dobbiamo fermaci e restare in silenzio.

Dopo il silenzio inizia la seconda vita di Frida: il matrimonio con l’affermato artista Diego Rivera; gli scontri e l’amicizia con la prima moglie di lui; i tradimenti e la sofferenza pacata di Frida che cerca in tutti i modi di essere una amorevole moglie perfetta. Poi gli aborti e il senso di incompletezza. La lotta estenuante con una vita che sembra non volerla lasciare in pace. I dipinti vengono prima messi da parte e poi ripresi nella plasmazione cosciente del dolore che affligge la loro creatrice.

Da moglie perfetta Frida diventa una donna ferita nella fiducia e nel cuore; però, l’artista inizia a far vedere nel mondo la sua figura sofferente e immensa. La rottura con Diego, i numerosi rapporti sentimentali con uomini e donne. Non vorrei svelarvi i nomi di questi personaggi… assolutamente non anonimi. Vi cito solo il politico russo Lev Trockij.

Trockij e sua moglie vengono accolti e protetti, dopo la fuga dalla Russia, da Diego e da Frida che nel frattempo era tornata dal marito per recuperare il loro rapporto all’insegna dell’indipendenza.

Trockij e Frida iniziano una relazione clandestina… la moglie del politico scopre tutto e il rapporto viene troncato bruscamente. Forse anche Diego si accorge dell’accaduto, tanto che manda via i rifugiati accampando una banale scusa come l’affitto. Altri amori arrivano, con le loro magie e i loro distacchi.

I dipinti di Frida guadagnano sempre più attenzione, e la donna che dipendeva completamente dal marito inizia ad assaporare anche il piacere dell’autonomia economica.

Frida va a Parigi, dietro invito dei Surrealisti. Dopo mille peripezie, risolte da Marcel Duchamp, viene organizzata la mostra a cui Frida era stata invitata.

Lei è un animo libero e RIVOLUZIONARIO e ha difficoltà ad ambientarsi; in realtà, Frida inizia a disprezzare quegli artistoidi che si riempiono di parole… sono spocchiosi e odiosi. Purtroppo, durante il viaggio torna la malattia. A lasciare qualcosa di buono c’è però la nascita di alcune belle amicizie, come quella con Pablo Picasso.

Frida attira una grande attenzione su di sé.

Tornata in Messico, nella casa blu, il rapporto con Diego si consuma ancora tra le numerose amanti dell’uomo.

Frida si taglia per la seconda volta i capelli, per quella seconda rottura profonda.

La confusione fa avvicinare la donna a Ramón Marcader: una DISGRAZIA!

Marcader si macchia del brutale assassinio di Trockij; i sospetti ricadono su Frida che viene incarcerata per due giorni insieme alla sorella Cristina. Le donne vengono liberate… ma una delle due è ancora imprigionata nella malattia…

Diego, prende slancio dagli eventi terribili appena raccontati e chiede a Frida di sposarlo di nuovo. La donna tentenna per un po' per poi accettare di buon grado. Tutto sembra andare molto bene: il rapporto si lascia vivere nella semplicità dell’ambiente familiare e Frida si gode i nipoti e la profonda amicizia con Diego, cercando di non pensare troppo alle amanti che non smettono mai di infestare il matrimonio.

La pittrice si sente bene, si fa fotografare… inizia un diario e incomincia a insegnare alla Scuola di pittura e scultura del Ministero dell’Educazione, la cosiddetta “Esmeralda” (il nome trae origine dalla piccola via in cui sorge l’edificio).

 Frida e i suoi studenti passano il tempo sdraiati pancia a terra dando forme al mondo. Purtroppo, però, la salute della pittrice peggiora di nuovo. Costretta a stare a casa, continua a insegnare a un piccolo gruppo di fedelissimi: i “LOS FRIDOS”.

Arriva il busto di metallo e poi l’intervento chirurgico del 1946 che condanna Frida a indicibili patimenti, e alla dipendenza da medicinali. Un altro medico interviene nel 1950, il dottor Farill. Le nuove operazioni riescono a donare alla povera Frida una speranza di salvezza e un miglioramento dei dolori. Lei è così riconoscente al dottore che confeziona un “quadretto” apposta per lui.

La calma è solo apparente e l’isolamento e i tormenti di Frida tornano più forti di prima.

La pittrice smette di creare autoritratti e si dedica alle nature morte. Tra analgesici e alcool, in cui ormai si rifugia da diversi anni, ecco che tutto si alterna tra brevi sollievi e tenebra improvvisa.

Diego è sempre più distante e i due non vivono più insieme. L’uomo va a trovarla spesso… solo quello.

Il 1953 è l’anno di una bevuta di tequila diversa dalle altre: la fotografa Lola Álvarez organizza la prima personale di Frida in Messico. La pittrice non può alzarsi dal letto; il letto viene trasportato con il suo umano e bellissimo contenuto presso la mostra. Frida brinda con la tequila e canta…

La gamba destra viene amputata.

Diego non sopporta l’amputazione, piange e si dispera confusamente. Frida non smette di credere nella forza delle sue ali; anche se quelle della morte iniziano a far sentire il loro fruscio.

Il 6 luglio, Frida festeggia il suo compleanno con una forza vitale prorompente. Lei sa, per questo canta più forte e ride in modo memorabile.

Il 13 luglio il dottor Montoya si reca da Frida per un prelievo e la trova senza vita. Si parla di embolia polmonare o di dose eccessiva di analgesici.

La pittrice abbandona il suo dolore lasciando solo una BELLEZZA INESTINGUIBILE.

Tutto questo è raccontato in un modo che si può comprendere solo entrando a piedi scalzi nell’albo. L’unica cosa che forse necessitava di una piccola attenzione verso i lettori… è la forma. Le parti in corsivo riportano delle citazioni di Frida e questo forse era meglio specificarlo (non è scontato per tutti); sarebbe stato anche carino avere qualche riferimento in più sulle citazioni. Sono cose da poco, ma bisogna sempre pensare che nulla è scontato.

La fine del libro ci lascia un’altra panoramica, dopo quella iniziale sul riassunto della vita di Frida, e ci troviamo davanti a un catalogo di alcune opere della pittrice con titolo e data… ma nella trasfigurazione Hessiana.

Per SAPERE di Frida consiglio un altro tipo di libro; per CONOSCERE Frida, invece, questa è la scelta giusta!

Ph. Francesca Lucidi

 

 


lunedì 6 luglio 2020

UNA VERSIONE DARK DELL'ALICE DI LEWIS CARROLL

BUCANEVE NEL REGNO SOTTERRANEO

DI PAOLO FUMAGALLI
Img. Francesca Lucidi


INTRODUZIONE

Bucaneve nel Regno Sotterraneo è un libro di Paolo Fumagalli, pubblicato da Dark Zone Edizioni nell’aprile del 2018.

Bucaneve può considerarsi un racconto lungo: si svolge esclusivamente intorno a una misteriosa e oscura avventura vissuta dalla protagonista, a un solo nucleo narrativo.

Il tempo in cui si dipana la storia è indeterminato, e ciò contribuisce a contestualizzare il tutto in un ambiente fiabesco, dalle denotazioni mutate in senso schiettamente dark. L’autore accoglie il lettore con un’introduzione che comunica il punto di riferimento dell’intera narrazione: Alice nel Paese delle Meraviglie. Fumagalli è innanzitutto un fan, un amante appassionato delle “creature” di Lewis Carroll; e anche dell’immaginario dark contemporaneo firmato Tim Burton. Fumagalli riflette sulla versione di Alice proposta dal regista: il film non si presenta come una rilettura in chiave oscura della storia di Carroll, o del film Disney, ed è più un sequel autonomo che forse ha mancato le aspettative di Fumagalli.

L’autore di Bucaneve cerca di dare vita al suo desiderio creando una storia che possa partire da Alice per poi giungere in territori più spaventosi che “meravigliosi”; con un tocco, però, di ironia e assurdo… per non tradire gli spunti principali del modello originario.

Chi non ha letto Carroll può comunque godere del racconto di Fumagalli, cogliendone i tratti specifici che, a mio parere, sono i punti migliori del libro.

 

TRAMA

Bucaneve è una bimba costretta a letto da qualche tempo: è affetta da una misteriosa malattia che consuma energie e vitalità… e anche il colorito, che appare, ogni giorno, più evanescente e spettrale.

La piccola si consola grazie alle amorevoli letture della madre, che ogni sera la culla tra le storie di un libro ben preciso (evocato e non nominato). La stanza che racchiude questi momenti è sospesa tra il letto, i libri, uno specchio e la finestra.

Lo specchio sembra il triste monumento a una Bucaneve divenuta donna… che non sappiamo se potrà mai arrivare ad ammirare il suo riflesso. Il letto è protezione e prigione: Bucaneve cerca con tutte le forze di contrastare la sua debolezza e contempla l’orizzonte da una finestra le cui tende ogni sera vengono chiuse.

Una notte, però, quelle tende non vengono chiuse… Bucaneve si alza a fatica e inizia a contemplare i fantasmi dell’oscurità: immagini di alberi e contorni multiformi che diventano esseri fantastici.

Tra la finestra e lo specchio, a un certo punto, si crea una sorta di misteriosa connessione: piccoli riflessi (dati dalle stelle?) attirano la bimba presso la superficie riflettente. Rumori e inquietudini, strane luci e sentori senza nome. A un tratto lo spazio si dissolve per ricomporsi in qualcosa che Bucaneve non si sarebbe mai aspettato, e neanche il lettore.

La morte è la seconda protagonista del racconto: anche la piccola si interroga sulla relazione che intercorre tra la morte, il sonno e il sogno… e questi sono tre elementi che hanno grande considerazione, nel libro e nel “Regno”.

Bucaneve si trova a dover combattere per uscire da un luogo che riesce a identificare, più o meno, ma non riesce a capire come possa essere finita proprio lì. A quel punto, inizia il cammino della protagonista in luoghi tetri, neri e asfissianti. Tutto è confusione e stupore; tra animali parlanti e saccenti, tra foreste sconfinate e colori sempre vaghi nel loro cromatismo funereo.

Bucaneve è giunta, chissà perché, nel REGNO SOTTERRANEO. Lei si chiede cosa sia quello strano posto, e anche noi, leggendo, ci interroghiamo sulla natura del “trapasso” della bimba.

Tutto, lì, ha un significato, un aspetto e una velocità DIVERSI… rispetto al mondo “di sopra”.

La protagonista cerca di cogliere i sensi nascosti parlando con corvi, gatti che fingono di essere neri… e beh sì, anche cavalieri senza testa.

Come ogni regno ci sono un ordinamento, un ordine/disordine costituito, e dei governanti. Nel Regno Sotterraneo i cimiteri non sono un luogo silenzioso e le lapidi sono molto chiassose e chiacchierone; tutto ciò è ammesso ma GUAI a introdurre dei cani. I cani rosicchiano le ossa e di ossa è fatto qualcosa di veramente vitale per il Regno.

Bucaneve viene ben accolta da tutti, specialmente da due streghe mangiabambini, che le offrono una corroborante minestra rossastra. Con le streghe non si corre nessun pericolo: loro mangiano i bambini, ma solo quelli cattivi; e mai viene infranta questa regola.

Il percorso della protagonista trova una singolare evoluzione dall’incontro con il Becchino, e con il suo bizzarro caprone che un caprone non è. Proprio grazie a questo personaggio, Bucaneve verrà introdotta alla corte della Regina, la quale è una giocatrice accanita di PALLA MORTA. La partita, a cui tutto il Regno è invitato, sarà un’importante occasione di rivelazione: ciò non dall’evolversi della partita stessa ma dalle occasioni scaturite da una “palla” andata un po' troppo lontana, e da un tiro davvero pessimo.

Bucaneve chi troverà durante la sua ricerca?  E questo cosa comporterà nella narrazione?

Non è chiaro il perché la piccola si trovi lì e quale sia il senso di molte mutazioni che la piccola subisce durante la sua avventura. Le risposte non sono confortanti, o forse sì. Solo i cimiteri conoscono quelle risposte e ce le mostreranno.

 

ANALISI (E CONSIDERAZIONI)

La narrazione si divide tra il narratore onnipresente, e onnisciente, e i pensieri e i dialoghi che ruotano intorno a Bucaneve.

La passione di Fumagalli rende sovrapposti il narratore e l’autore; il tutto partendo da ciò di cui veniamo a conoscenza grazie all’introduzione. Il dichiarato materiale di partenza è riconoscibile, e crea l’ossatura generale della storia. Lo stile è razionale, pulito e ordinatissimo; ciò va a porsi dinanzi alla tempra dark e onirica dei contenuti. Significante e significato sono come un gatto nero che scrollandosi diventa bianco… anche se, forse, in questa questione di stile accade il contrario.

Il linguaggio del narratore è serio e al contempo appassionato; i modi di Bucaneve sono forse troppo simili a quelli del narratore… tanto che solo le indicazioni grafiche riescono a distinguere le due voci.

In questo caso credo che, probabilmente, la piccola sarebbe “emersa” in maniera più forte e peculiare con una costruzione del linguaggio connotata pensando a lei come ad altro rispetto a un autore adulto, razionale (anche se appassionato), e nel pieno delle forze. Non è il narratore che parla come il protagonista ma, qui, il protagonista parla e pensa in modo troppo simile al suo regista. 

Secondo me il racconto è adorabile e le ambientazioni sono fenomenali; è anche vero che, secondo me, è la veste editoriale a penalizzare il nobile intento iniziale. A mio parere, Bucaneve merita una Graphic Novel o per lo meno delle illustrazioni che possano accompagnare e colorare una storia che, in fin dei conti, è macabra e a volte anche molto triste. Questa scelta potrebbe aiutare anche nella maggiore centratura del target dichiarato (+7). La storia è per persone sensibili; ma questi animi inquieti e romantici, forse, verrebbero carezzati dalla narrazione per immagini che può alleggerire l’impatto e aiutare enormemente la figura della protagonista, e tutti i personaggi presentati.

I punti di maggior valore sono quelli che non hanno il marchio Carroll ma Fumagalli. L’incontro con le streghe è stato il momento di maggior piacere per la mia lettura. Le descrizioni, che sono il vero PUNTO FORTE di tutta la storia, sono adorabili; i personaggi hanno il loro spazio e lo occupano meravigliosamente.

Penso che le illustrazioni avrebbero permesso di affiancare e dare respiro a una narrazione che a volte vorremmo durasse un po' di più.

Alcuni hanno criticato il finale… io non vedo cosa possa esserci di assurdo in questa faccenda. Alla fine, si tratta di una fiaba macabra che si stiracchia e si lamenta in un sonno confuso… sicuramente quel finale chiamerebbe un seguito; e ciò renderebbe questo cerchio di parole e sale molto più purificante per gli amari avvenimenti.

L’autore deve credere nel suo solo immaginario, che ha le sue coerenze e le sue bellezze: non sarà Carroll ma alla fine ai curiosi interessa qualcosa di mai visto… a volte, almeno a me.

Io spero davvero che ci sarà una nuova edizione e una rivisitazione della storia; e che si possa pensare a un seguito.

Non vorrei Bucaneve morta (secondo voi lo è? LO SARÀ?).

Consiglio la lettura a chi vuole che le storie “diverse” abbiano voce. Probabilmente, pensandoci, non proporrei le complesse e multifocali macabre suggestioni della storia ai bambini di sette anni. Un giovane adulto dark, nerd, sensibile e curioso penso possa apprezzare questo libro a pieno.

Buona lettura!

  

mercoledì 1 luglio 2020

EDGAR ALLAN POE E L’ENIGMA POETICO: IL CORVO E IL SAGGIO DELL’AUTORE SULLA FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE

LA RISOLUZIONE DEL “PROBLEMA” DELLA CREAZIONE POETICA
TRA UN CORVO E UN RAGIONAMENTO MATEMATICO

Ph. Francesca Lucidi
Le edizioni in foto vengono analizzate nell'ultimo paragrafo.

INTRODUZIONE

Pochi sanno che in un primo momento Edgar Allan Poe non firmò IL CORVO.

La poesia uscì nel 1845, in un numero di febbraio della American Review… ed era firmata “Quarles”.

Il poema richiamò su di sé molta attenzione, a ragione; ma per un po' di tempo l’autore rimase sconosciuto. Poe, in quel periodo, frequentava la società “letteraria” di New York: ogni settimana, intellettuali e scrittori si riunivano nell’elegante salotto di Miss Anna C. Linch. In un altro articolo, che vi linkerò alla fine di questo intervento, ho già parlato del grande fascino che Poe esercitava sulle persone, anche se sempre in un alone di incertezza e sconcerto.

Durante una riunione, fu chiesto allo scrittore di leggere proprio IL CORVO: Poe recitò la poesia con tale profondità e in estrema, evidente, unione con le parole… che tutto l’emozionato uditorio capì che il misterioso autore era Edgar Allan Poe. Da quel momento la fama dello scrittore crebbe ancor più; siamo, però, consapevoli di quanto la sua ascesa non fu mai continua e che le disgrazie non finirono mai di incontrare l’esistenza del Nostro.

La produzione poetica accompagnò lo scrittore per tutta la vita. Poe, infatti, iniziò a scrivere poesie all’età di quattordici anni. In vita pubblicò quattro raccolte: una, anonima, nel 1827; e le altre, rispettivamente, nel 1829, nel 1831 e nel 1845. Poe scelse di pubblicare le sue poesie principalmente sui periodici letterari: le sillogi poetiche, infatti, venivano pubblicate in volume quasi completamente a spese dell’autore; Poe non ha mai fatto mistero della sua volontà, e del bisogno, di guadagnare dai suoi lavori.

Lo scrittore aveva la tendenza a tornare molto di frequente sulle sue composizioni, e questo ci aiuterà a comprendere ancor meglio ciò che andremo ad affrontare in questo articolo. Nelle prime prove si evince l’eco eccessivo degli studi letterari di Poe; via via le liriche vengono “semplificate”. Il grido lascia spazio alla suggestione.

 

A METÀ STRADA TRA CLASSICISMO E ROMANTICISMO

L’essere poetico di Poe oscilla melodiosamente tra un malinconico e puntuale Neoclassicismo e un Romanticismo che scaturisce proprio dagli elementi classici. La purezza e l’armonia della forma vengono riprese per essere guardate con una certa malinconia: lo sguardo “romantico” accompagna le forme facendone scaturire un rimpianto, una riflessione verso un mondo profondamente cambiato: il Neoclassicismo viene preso e proposto, e messo dinanzi al lettore, come una PERDITA. Poe era ossessionato dalla cura della forma, dalla musicalità della parola e dall’uso cosciente delle figure retoriche.

Per comprendere i temi che qui si vanno a trattare… non bisogna mai dimenticare il rapporto stretto tra parole e musica, che in Poe fa da contraltare alla tragicità dei temi trattati.

Tra gli argomenti scelti vi sono, però, non solo echi romantici. In Poe è riscontrabile anche un forte Panismo: la natura è presentata come il luogo privilegiato di una comunione segreta tra l’uomo e le cose. Anzi, la natura è l’unica delicata consolazione che possiamo ritrovare tra le righe di Poe. L’ambiente si trasforma, nel tempo, da un luogo aperto a un ambiente più ristretto… dove il SIMBOLO riesce ad amplificare i suoi effetti: questo è il caso del CORVO.

Ora è arrivato il momento di appollaiarci su un bianco e forte busto di Pallade Atena, accanto a una creatura oscura… è il momento di inebriarci con la lotta invisibile tra classico e romantico, tra BIANCO e NERO.


IL SAGGIO LA FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE

Se vogliamo comprendere meglio il lavoro compositivo di Poe, e soprattutto la genesi del CORVO, non dobbiamo fare altro che leggere le parole e le spiegazioni che ci lascia lo stesso autore. LA FILOSOFIA DELLA COMPOSIZIONE fu scritto in forma di conferenza e fu pubblicato per la prima volta sul «Graham’s Magazine», nel 1846. Obiettivamente, l’autore sfruttò anche la scia del successo del CORVO, per promuovere questo suo intervento. Il saggio è, appunto, un’analisi puntuale e precisissima del processo che ha portato alla nascita del famoso poema; in esso si affollano anche considerazioni più ampie sulla poesia, sullo stile e sull’onesta di molti autori. Sicuramente Poe è assolutamente onesto e trasparente: siamo abituati a pensarlo come un velato individuo indecifrabile… in realtà lo scrittore è molto umile e aperto allo svelamento dei “TRUCCHI TEATRALI” (così li chiama), che sono dietro alle sue opere. Poe non era solo un romantico individuo tormentato, ubriacone e drogato. No, Poe era un artista lucido, logico e assolutamente presente in ciò che faceva. Leggere questo saggio ci restituisce una figura più completa del NOSTRO. Per chi ha letto I DELITTI DELLA RUE MORGUE non può non scatenarsi un immediato déjà vu: anche se il racconto ha preso vita anni dopo il saggio quest’ultimo è meno noto… ed è quindi più probabile che chi sta leggendo queste parole abbia già affrontato IL DELITTI piuttosto che LA FILOSOFIA. Leggendo dei ragionamenti e dei processi mentali di Auguste Dupin, il protagonista intellettivo delle vicende della Rue Morgue, non si può non ritrovare l’impostazione mentale di Poe stesso. Leggendo il racconto possiamo aver pensato che fosse strano vedere tanto lavoro di “analisi” in un lavoro dello scrittore NERO (e sempre dalla pessima reputazione). No, Poe e Dupin si sovrappongono in un tipo di approccio al mondo fisico e creativo che innesta maglie ragionate su una catena che invischia i sensi per inebriarti; o nel caso di Dupin per farti “VEDERE”. La differenza con Dupin sta nel fatto che Poe non procede dalle condizioni generali per risalire ai particolari sfuggenti… lo scrittore determina tutti gli elementi singolarmente, volta per volta, ma attraverso una consequenzialità inversa, rispetto al canonico procedere che potremmo immaginare o che noi stessi perseguiamo.


LE PREMESSE

Il tono del saggio è assolutamente preciso e incisivo, il tutto è unito a una colloquialità che disvela le cose non come una confessione ma come un conversare sincero. All’inizio, Poe si riferisce a Charles Dickens e a una risposta che questi compie in relazione a un esame che Poe fece di Barnaby Rouge (o anche Il morto che cammina, di Dickens[1]).

Dickens propone un’analisi del Caleb Williams di William Godwin[2] (un’opera che pone le basi del moderno anarchismo), adducendo al fatto che Godwin avrebbe scritto la sua opera a ritroso. Poe dice di dubitare di questa eventualità ma non esita a confermare che questo tipo di processo ha innumerevoli vantaggi: ci spiega, infatti, che un intreccio degno di questo nome deve essere elaborato prendendo in considerazione il dénouement, l’epilogo… lo scioglimento dell’intreccio stesso; il tutto per connettersi al meglio con l’EFFETTO che si vuole ottenere.

Secondo Poe, quando si scrive si fa il comune errore di partire da una tesi o da un fatto del giorno, riempiendo gli spazi con descrizioni e dialoghi e cercando di connettere eventi e azioni. Poe dice chiaramente che il punto da cui egli parte è l’EFFETTO desiderato, cercando di ottenerlo con il massimo dell’originalità.

Lo scrittore osserva che sarebbe stato interessante se altri avessero avuto l’idea di scrivere qualcosa riguardo al loro processo di composizione… per Poe gli autori non lo fanno per pura VANITÀ.

Di solito gli scrittori sembrano, effettivamente, invocare su di essi una sorta di estatica intuizione… quasi divina, e magari su questo Poe è stato un po' duro probabilmente: magari la genesi sta tra il ragionamento e qualcosa di più impalpabile. Poe ammette che esistono delle suggestioni, ma che queste nascono più che altro dalla confusione… quasi dal caso. Il Nostro vuole invece far sbirciare dietro le quinte e mostrare come si scelgono e si usano “il belletto rosso e i nei”.

Le suggestioni di Poe non sono mai figlie del caso: vengono dalla precisione rigorosa e consequenziale tipica di un “PROBLEMA MATEMATICO” (lettori de I Delitti della Rue Morgue… percepite analogie?).

Per la sua disamina lo scrittore sceglie IL CORVO, perché è la poesia più conosciuta. L’interesse per l’analisi che va a compiere viene da lui discostato dall’interesse che meriterebbe l’oggetto esaminato. Poe è molto umile e onesto fin dalle prime battute… confessa anche che il suo intento è irrimediabilmente collegato alla volontà di SODDISFARE il gusto dei critici e del pubblico, anche se sorvola sulle motivazioni alla base di questo scopo.


ANATOMIA DEL CORVO

Edgar Allan Poe, nella sua Filosofia della composizione, scompone pezzo per pezzo il Corvo. Prende ogni singola “piuma” e ri-assembla la creatura come solo un attento scienziato farebbe… non dico “un padre” perché non si ha generazione ma vero e proprio studio, reperimento di elementi e assemblamento, per ottenere un effetto su chi entra in contatto con il risultato ottenuto.

Il primo punto esaminato è L’ESTENSIONE. La brevità è amica dell’effetto, perché qualunque intenso eccitamento non può che essere breve. La sessione di lettura necessaria, per seguire questo percorso, deve essere unica: altrimenti si ottengono tante piccole poesie spezzate, con effetti diminuiti. La matematica vene in aiuto: la lunghezza deve essere posta in relazione MATEMATICA con l’effetto. Il numero scelto da Poe per IL CORVO è 108, 108 versi.

Questo famigerato EFFETTO deve essere il punto da prendere immediatamente in considerazione una volta che si è pensato all’estensione, dato che le due cose devono essere messe in relazione. Poe chiama a sé la BELLEZZA; ed essa è il territorio proprio della poesia. La BELLEZZA viene ricondotta non a una qualità ma a un effetto, “subito” da chi la sperimenta. Nella bellezza poetica vi è reale ELEVAZIONE dell’ANIMA. Questo sentimento riesce a spingere un’anima sensibile fino alle lacrime; questo dona il tono all’opera da comporre. Guardando a quelle lacrime… il tono quale può essere se non la TRISTEZZA? Questo sentimento porta subito al tono in senso stretto, il quale si indentifica nella MALINCONIA. Il tutto è molto simile alla costruzione di uno spartito musicale, ed è stupefacente. Infatti, il passo successivo rimanda inevitabilmente alla MUSICA: la trovata “teatrale” utilizzata da Poe per incatenare tutte le successioni fino ad ora espresse è il REFRAIN (il ritornello). La monotonia del refrain è la sua forza; ma a Poe questo non basta, e punta a diversificarne il senso nel corso della scrittura. L’unità di suono e pensiero dell’elemento di ripetizione viene, infatti, elaborato per essere via via modificato.

Per soddisfare queste premesse il refrain deve essere breve. Poe decide che la posizione a fine strofa, in chiusura, risulta la più “forte”. La sonorità di questa sublime trappola per il lettore è fondamentale. Poe parte dalla scelta della vocale “o” e della consonante “r”, entrambe prolungabili e piuttosto musicali. Cercando di scegliere una parola che possa rispondere a tutte queste necessità, ricollegandosi alla MALINCONIA, a Poe viene immediatamente in mente NEVERMORE. Forse ci saremmo aspettati una genesi più sofferta, per una parola così evocativa, in realtà è stata un’intuizione scaturita dalla consequenzialità di un ragionamento incentrato sulla logica e l’analisi.

A questo punto si giunge a un DESIDERATUM assai interessante: il PRETESTO. Poe deve motivare la ripetizione del refrain e riflettendo sul fatto che solo una creatura non razionale potesse indugiare in una ossessione del genere… un animale è stato il primo pensiero; poi questa creatura prende le sembianze del pappagallo (per la sua natura), il quale viene sostituito dal CORVO (per l’effetto… essendo l’uccello del malaugurio per antonomasia).

Ma in che contesto NEVERMORE può comparire corroborando un significato che abbia come volto la malinconia? A questo tono va riunita la BELLEZZA, che è la chiave per l’eccitazione dell’anima… e beh, Poe a questo punto tocca uno dei punti intorno cui ruota l’immaginario che tanti incubi ci provoca. L’argomento scelto è la morte della donna amata, che per Poe è ciò che di più poetico vi è nel mondo (bizzarro…).

Le labbra dell’amante sono il mezzo attraverso il quale la bellezza, la tristezza e la poeticità possono farsi sostanza pulsante. EROS e THANATOS: i due poli intorno cui gravitano molte delle narrazioni di Poe. Il sentimentale viene dallo scrittore sempre associato alla morte, alla privazione e alla lontananza. Le donne amate sono sempre presentate come un qualcosa di incorporeo; tutte le volte che la fisicità incontra l’oggetto del desiderio… la passione muta in perversione: le parti del corpo divengono spettri materiali che vivono oltre la morte e urlano dalla tomba, come in Berenice. In Poe l’Amore si definisce e si manifesta nella MORTE; Eros e Thanatos sono inscindibili.

Continuando nell’autopsia della creatura poetica, Il CORVO va messo in relazione con l’amante, e l’animale deve contestualmente ripetere il refrain; la trovata dello scrittore è geniale e si risolve nella trasformazione del refrain in una risposta ossessiva, ad altrettanto ossessive domande pronunciate dall’amante.

Va ricordato che la ripetizione deve avere la possibilità di rinnovarsi nel significato. All’inizio l’amante pare affrontare il suo nero interlocutore con nonchalance… quasi divertendosi. Il corvo viene prima associato a epiteti come “goffo”, per poi diventare nel corso della narrazione “bieco” e “oscuro”. L’atteggiamento inizialmente incuriosito viene infestato dalla superstizione: le domande dal vago passano all’angoscioso… e poi tutto esplode nella DISPERAZIONE. A circa metà del poema possiamo scorgere il tipico masochismo dei personaggi di Poe: l’amante si tormenta, e il tormento è la creta da cui prende vita un gigante di dolore e delizie. La DISPERAZIONE diventa per Poe una opportunità per la mutazione di significato da praticare nei confronti del refrain: un CLIMAX ascendente avvia la sua corsa ma ciò avviene nella lettura e non nella composizione. Una volta scorta questa opportunità, lo scrittore parte, come preannunciato, dal picco. Dal massimo della disperazione nasce, davvero, la poesia nella sua materialità. Dal picco viene cesellato tutto il resto: il ritmo, il metro, il tono e l’impostazione complessiva, a ritroso.

Poe pone grande attenzione alla versificazione: partendo da forme classiche innesta soluzioni originali. L’originalità è uno dei cardini su cui si basa un’ottima composizione, così ci dice La filosofia.

L’originalità non viene, però, proposta come un prodotto dell’impulso: gli enigmi letterari di Poe si risolvono nel laborío. La combinazione dei versi (canonici), la rima e le allitterazioni tessono la tela dell’invischiante, meravigliosa, malinconia del CORVO.

Fino alle ultime due strofe, escluse, si ha una narrazione. Nel raccontare l’incontro tra l’amante e il nero volatile è necessario trovare un “pretesto”: Poe riesce nell’intento partendo dall’ambientazione. Lo scrittore pensa immediatamente a un luogo sublime come una foresta oscura; in realtà per enfatizzare l’effetto bisogna puntare alla sintesi, non solo riguardo alla lunghezza ma anche nell’immaginare uno spazio. Per mantenere concentrata l’attenzione viene scelto un luogo chiuso. La tempesta è la scusa plausibile per invogliare il corvo a entrare nell’appartamento. Lo sbattere delle ali che all’inizio fa pensare a un bussare alla porta, forse dello spettro della donna amata, è una delle meravigliose suggestioni che donano una iniziale nota di bizzarria al tutto. Il corvo alla fine entra… e dove si va a posare? Su un busto di Pallade.

Il busto è sì il luogo più comodo e sicuro che potrebbe attrarre un volatile disorientato… ma è anche il simbolo dell’estetica di Poe. Il nero del corvo e il bianco della statua diventano il simbolo dell’unione tra classico e romantico, tra razionale e irrazionale, tra vuoto e pieno. Pallade Atena viene generata dal cervello di Zeus, come il poema che è il prodotto del più attento ragionamento. Poe non manca di osservare quanto la sonorità dell’epiteto della dea sia in linea con la melodia da lui tanto ricercata.

La narrazione è improntata sul “fantastico”; l’ultima domanda dell’amante, però, mette fine alla narrazione. Si crea all’improvviso una sospensione allucinatoria che prende vita dal tormento estatico: Poe sottolinea come, a questo punto, sia necessario il fluire di una corrente sotterranea di un significato che si faccia suggestione. La corrente deve essere accennata, se fosse superficiale sarebbe più adatta alla prosa. Le ultime due strofe forniscono la suggestione di ali in grado di farla sorvolare sulla precedente narrazione che diventa, così, simbolo.

“TAKE THY BEAK FROM OUT MY HEART” (“Togli il becco dal mio cuore”), questa è la prima metafora del poema. La metafora e il refrain si enfatizzano a vicenda portando il lettore a pensare che vi sia una morale.

Il CORVO è il simbolo del doloroso e duraturo ricordo.


L’EDIZIONE ILLUSTRATA DA ME SCELTA IN QUESTA SEDE

La versione illustrata da me presa in esame è stata pubblicata dalla Easy Peasy Publishing, nell’Aprile del 2014. La grafica è elegante e non eccessiva. Il testo propone prima la lirica in italiano e nella sua completezza; in seguito i versi vengono riproposti spezzandoli sulla pagina di destra. La seconda apparizione della poesia è affiancata nella pagina di sinistra dalle illustrazioni. Queste ultime sono quelle realizzate da Gustave Doré, nel 1884.

Ph. Francesca Lucidi

Doré fu un noto pittore, incisore e litografo francese. Nacque nel 1832 e morì nel 1883. Il suo stile è romantico e fortemente simbolico; posso dire che esprime perfettamente l’enigma delle sottese suggestioni di Poe. Le immagini di Doré sono inquietanti e al contempo dolci; epiche e assolutamente dinamiche.

Nella mia lettura ho affiancato l’edizione della Feltrinelli del Corvo e altre poesie. Di questo volume ho apprezzato particolarmente l’introduzione e l’idea di far concludere la lettura con l’inserimento della Filosofia della composizione. La versione del Corvo curata dalla Feltrinelli è molto più comprensibile… appare quasi semplificata rispetto a quella della Easy Peasy. La superiorità del volume Feltrinelli sta nella scelta di affiancare il testo originale… come potremmo capire e percepire il cesellamento e la musicalità di Poe, altrimenti? Forse la Easy Peasy avrebbe dovuto pensare a una cosa del genere. Ciò che ho apprezzato del volume illustrato è la maggiore corrispondenza, solo in alcuni punti, con il testo originale: ad esempio Pallas viene tradotto con Pallade; la versione della Feltrinelli riporta un “Minerva”… che non ho amato particolarmente. Ma non avrei potuto fare il raffronto senza il testo inglese, non fornito dal volume illustrato.

Posso anche osservare che la qualità grafica delle immagini non è delle migliori; in ogni caso, quello della Easy Peasy, è un volumetto da avere perché gli ampi spazi bianchi si prestano a un nostro intervento diretto. Poi, l’esile formato è perfetto da portare sempre con sé.

 Che la prossima tempesta vi porti tante suggestioni e pochi tormenti.

 

  Per altre informazioni su Edgar Allan Poe, come promesso, potete seguire il link sottostante:

https://pennybloodblog.blogspot.com/search/label/SEZIONE%20DI%20STORIA%20E%20CULTURA.%20ARTICOLO%20num.6%20-%20Edgar%20Allan%20Poe%3A%20la%20personalit%C3%A0%20e%20il%20particolarissimo%20aspetto%20fisico%20del%20%22CORVO%22



[1] 1841

[2] Godwin fu un filosofo, politico e romanziere inglese; considerato il primo esponente moderno dell’anarchia. In Caleb Williams si rivolge contro il governo tirannico e l’abuso di potere. Sposò la “femminista” Mary Wollstonecraft, la quale morì di parto. La loro figlia Mary sarà nota con il nome di Mary Shelley.