giovedì 11 giugno 2020

I RAGAZZI DELLA VIA BOERI di Enrico Tommasi

 UN ROMANZO DI FORMAZIONE

TRA RISVOLTI FANTOZZIANI E PROFONDA UMANITÀ

Ph. Francesca Lucidi

I RAGAZZI DELLA VIA BOERI
di Enrico Tommasi

Edito da Primiceri Editore nel 2019

In foto la versione Ebook, visualizzata da Kindle Fire 7.

TRAMA

Il periodo storico da raggiungere, armati di maglioni fatti a mano e musicassette, è quel lasso di tempo che inizia nel 1980 e si estende per almeno quattro anni; direi per due vite… dato che l’autore, che è qui anche il narratore, afferma di essere nato a Salerno nel 1961 e a Milano nel settembre del 1980.

Il nodo emotivo e diegetico del romanzo si svolge a Milano nel pensionato Egidio Trezzi, struttura dell’Opera Cardinal Ferrari, sito in via Boeri numero 3.

Un gruppo di ragazzi, provenienti da tutte le parti d’Italia, lascia la tana “familiare” e si dirige al Trezzi. Tutti sono stati dichiarati “non idonei” a una più ambita collocazione… ma questo fortuito tiro della sorte li cambierà per sempre: da quel momento, tutti, diventeranno e resteranno dei “Trezzini”.

Il narratore ripercorre le tappe di quel periodo dall’abbandono della calda Campania, della madre protettiva e così “italiana” e del padre militare austero e pudico nelle manifestazioni sentimentali, fino ad accompagnarci nel percorso di questo umoristico e nostalgico romanzo di formazione.

Il Trezzi non accoglie solo studenti poco abbienti (anche se molti mostrano una certa spavalderia nell’ostentare un benessere economico che è solo il risultato di una mente fantasiosa e di una curiosa capacità di “adattamento”); il pensionato ospita anche lavoratori che si trovano a Milano per mantenere una famiglia lontana. Ciò che rende il Trezzi un posto molto “caro” è la presenza, appunto, dei CARISSIMI: la struttura si adopera anche per l’accoglienza e la nutrizione dei diseredati della società, di quelli che senza mezzi termini chiamiamo distrattamente BARBONI.

Il narratore incontra i “Carissimi” nelle prime battute di questa commedia milanese. Anche lui, come noi, aveva considerato superficialmente quelle creature invisibili; il Trezzi gli fa, però, il regalo di attirare la sua attenzione su tutte quelle cose della vita che fino a quel momento erano ottenebrate dalla sicurezza dei pasti materni e dei baci notturni paterni, ricevuti di nascosto fingendo di dormire.

Il Trezzi è un casermone quasi inquietante: è perennemente cinto da una nube di fumo di sigaretta, nebbia e olezzi provenienti da ogni parte. Questo strano microcosmo, in realtà non così lontano dal centro nevralgico della Milano adornata e luccicante, diventa però immediatamente la VERA CASA del protagonista. Questo ragazzo, essendo figlio di un militare, ha subito diversi trasferimenti… e si accorgerà, forse troppo tardi, dove si sono realmente fissate le sue radici emotive, inconsce e “umanitarie” (ma questo lo capiremo alla fine di questa strana e colorita cronaca).

Dopo il dettagliato racconto di partenza, sgomento e adattamento ecco che inizia la visita nel freak show trezzino. Il protagonista incontra una MAREA di personaggi che rappresenta tipi e sottotipi umani, maschere, superstizioni; idiomi e usanze…  particolarità gastronomiche e stili disparati. La lista dei nomi da ricordare è assai lunga. Il valore di questo affollato compendio umano è nelle generali categorie principali: la BANDA DEI SALENTINI, LE GUARDIE E I LADRI… I POLITICANTI… I CARISSIMI; nel mezzo il protagonista, forse un po’ insicuro e camaleontico nel suo educato adattarsi a tutto e a tutti (più o meno). Egli non spiccherà mai particolarmente, anche perché la magia sta proprio nel suo ANNULLARSI (e questo lo spiegherò presto nel successivo paragrafo).

Nella storia dei Trezzini si mostra la STORIA dell’Italia sotto ogni punto di vista: economia, disagi, scontri politici e tentativi; paure e sommosse pacifiche e meno pacifiche. Alla fine, tra scorribande e aule dell’Università Cattolica, viene raccontata un’evoluzione persone e universale: una piccola società di ragazzotti diventa il MANIFESTO di un’Italia in cambiamento dove le differenze tra le varie località è marcata ma, anche, dove l’incoscienza giovanile non ancora inquinata dai meccanismi del mondo è il mezzo per comprendere, unire e mondarsi. In realtà, lavarsi via gli odori del Trezzi non è cosa facile: è proprio questo che spinge l’autore a raccontare la storia a distanza di molti anni. Alla fine capiremo perché; alla fine capiremo tanti perché che magari non sono affari del protagonista ma affari nostri… noi in certe circostanze cosa avremmo fatto?

 

STILE (se così si può dire, al Trezzi)                   

L’autore e il narratore coincidono: questo è dichiarato in modo chiaro, fiero, FERMO. Il protagonista non credo possa identificarsi in un solo individuo, neanche nello stesso narratore: il Trezzi, poi, è solo un edificio… i Trezzini, invece, non sono le sole anime che parlano, o in silenzio raccontano. Credo fermamente che il vero protagonista del romanzo sia l’UMANITÀ: in senso stretto e nel più ampio significato.

Si potrebbe pensare a una focalizzazione fissa, a un unico punto di vista interno: in realtà lo sguardo del narratore sa attraversare ogni uscio e si alterna tra soggettività e onniscienza (quasi vojeuristica).

Il linguaggio è semplice e colloquiale, nutrito di dialoghi inframezzati da espressioni dialettali e saggezza fin troppo popolare, ma per questo esilarante.

Ogni cosa è paragonata a un’immagine: le similitudini e le metafore sono davvero molte, forse troppe. Non c’è da dimenticare che è un racconto a posteriori, e che è un adulto uomo affermato che racconta una gioventù che ai giovani d’oggi sembra una razza aliena. Molte di queste figure retoriche di paragone sono sviluppate da raffronti militari e storici… che senza una passatina su Wikipedia non sono, sempre, immediatamente intuibili. Anche il cinema, quello popolare, ha un ruolo nella creazione di questi specchi sovrapposti: BENVENUTI AL SUD, FANTOZZI… o L’ALLENATORE NEL PALLONE tra gli immaginari citati.

Segni e simboli sono qui di una nobile BASSEZZA. È necessario approcciare al romanzo senza pregiudizi: dopotutto è un maschio diciottenne che parla… di altri maschi e di cose assolutamente da VERI UOMINI.

Non vi è retorica ma tante sfigate partite di calcio e poco lusinghiere massime sul gentil sesso… ma è ovvio che prendere alla lettera tutto questo è un errore: il romanzo è una TESTIMONIANZA, magari non comprensibile a tutte le generazioni o a tutte le mentalità… ma è sincero e RUSPANTE.

A fare da cornice a questo caos rumoroso e poco elegante vi sono l’Introduzione e l’Epilogo.

L’introduzione è curata proprio da uno dei Trezzini. I nomi citati nel romanzo sono ovviamente inventati, i personaggi NO. Io sono stata una privilegiata nell’aver “saputo” a quale Trezzino imputare introduzione e abitudini che sono stata costretta a conoscere leggendo questa storia (la cosa mi ha fatto una certa impressione!). La chiusa è tessuta dall’autore che si ricongiunge così con il narratore diventando un UOMO TUTTO D’UN PEZZO: non nel senso abituale ma nella riunificazione di ricordi, esperienze di vita e consapevolezze.

In realtà, le parti che ho apprezzato di più sono state proprio l’inizio e la fine… probabilmente perché sono una donna nata nel 1983. Sono d’accordo con l’autore sul fatto che questo romanzo sia stato scritto in trance: a volte tutto corre molto velocemente e, per chi non è Trezzino, non è sempre facilissimo ricondurre nomi, caratteristiche e puntine da disegno piazzate sulla cartina dell’Italia.

L’umorismo è l’imbragatura di sicurezza che non abbandona mai il lettore: tutto è familiare, confortante anche quando le condizioni “climatiche” sono tragiche.

Immagine recente del "Trezzi". Fonte: http://www.viaggispirituali.it/strutture-turismo-religioso/lombardia/pensionato-egidio-trezzi-dell-opera-card-ferrari_1909/

 BREVE ANALISI

Lo sforzo da compiere per apprezzare questo romanzo è l’IMMEDESIMAZIONE. L’attivazione di una forte empatia è sicuramente dipendente da fattori anagrafici: chi è nato in un mondo ancora non affollato dalla tecnologia ricorda quei rapporti non caratterizzati da una eccessiva presenza manifestata attraverso i mezzi di comunicazione; ciò facilità la comprensione emotiva.

Anni fa, sembra strano pensarlo, si passavano mesi senza “sentire” gli amici geograficamente lontani… ma i rapporti erano cementati ad un suolo impastato dal legame profondo della condivisione reale del quotidiano. Tutto ciò è molto, molto bello… permettetemi di dirlo. Per chi ha vissuto quella realtà è un dolce ritorno; per i millennialsè l’occasione per una lezione di storia, autentica, e che forse non avrebbero altrimenti l’occasione di sperimentare.

Il romanzo è al contempo egoista e GENEROSO.

L’autore si monda di qualche piccola innocente colpa causata da quella frenesia di vita che annebbia i ricordi e i “debiti” con l’esistenza; questo porta a una presentazione della storia in modo molto personale.

La soggettività della scrittura è il terreno dove si gioca la partita con questo libro.

Tommasi è, però, al contempo GENEROSO: il Trezzi ci manifesta un altruismo a volte perduto, trascurato… durante la descrizione delle festività natalizie possiamo ritrovare quella critica sociale esperenziale da “Canto di Natale”. La retorica sicuramente non è il mezzo scelto; il LIRISMO di alcune parti è, però, ciò che mi ha coinvolta maggiormente e mi ha permesso di emozionarmi, anche quando mi sono trovata a leggere di comportamenti assolutamente lontani da me.


Cari universitari mi rivolgo a voi: penso che qualche brivido di commozione vi assalirebbe molto facilmente.

Cari genitori… anche voi ne potreste venir colpiti: lo capirete se vorrete armarvi di attrezzature di fortuna e partire per un viaggio che ha tra le pieghe la realtà che spesso i vostri figli nascondono, per puro AMORE.


Ecco una vecchia foto scattata all'intero dell'Opera Cardinal Ferrari. Si rimanda al sito ufficiale:


 

domenica 7 giugno 2020

Luigi Pirandello e UNO, NESSUNO E CENTOMILA

PIRANDELLO: IL "PROFETA DEL CAOS

Img. dal web

PIRANDELLO “FIGLIO DEL CAOS”

Luigi Pirandello nacque a Girgenti (l’odierna Agrigento) il 28 giugno del 1867, in campagna, nella località denominata CAOS. Pirandello ironizzò spesso sul suo luogo di nascita apostrofandosi come “figlio del Caos”.

I genitori, Stefano Pirandello e Caterina Ricci-Gramitto, ebbero un ruolo importante per la formazione del pensiero politico di Pirandello. La sua famiglia era apertamente ANTI-BORBONICA: i parenti della madre furono mandati in esilio a Malta, proprio per questo motivo, e il padre partecipò come garibaldino all’IMPRESA DEI MILLE.

La famiglia possedeva miniere di zolfo.

Pirandello scrisse a soli dodici anni una tragedia in cinque atti, rappresentata grazie all’aiuto delle sorelle e degli amici.

Nel 1880 il padre fu vittima di frode e a causa del dissesto economico la famiglia si trasferì a Palermo. Nel 1885 un nuovo trasferimento portò la famiglia a Porto Empedocle, mentre Pirandello restò a Palermo per continuare gli studi; in seguito raggiunse i suoi genitori e le sorelle. A Porto Empedocle prese consapevolezza della dura realtà delle solfatare… e si iscrisse a Legge e a Lettere all’Università di Palermo. Si trasferì poi a Roma per studiare Lettere: ospite a casa dello zio Rocco; lì scrisse opere teatrali andate però perdute. Precedentemente fu anche fidanzato con una sua cugina… ma il legame fu presto rotto.

Il periodo romano non fu facile a causa di alcuni contrasti con il preside di facoltà, il latinista Onorato Occioni; per questo motivo Pirandello si trasferì in Germania all’Università di Bonn.

A Bonn si laureò con successo nel 1891 in Filologia Romanza, con una tesi sul dialetto siciliano.

Esordì come poeta nel 1889 con la raccolta Mal giocondo; nel 1891 pubblicò, invece, la raccolta Pasqua di Gea.

 

PIRANDELLO A ROMA. PIRANDELLO DIVENTA UN “MARITO”

Nel 1892 Luigi Pirandello si trasferì a Roma e conobbe Luigi Capuana; quest’ultimo lo spinse verso la narrativa. Nel 1894 Pirandello pubblicò la prima raccolta di novelle: Amori senza amore. Del 1901 fu il primo romanzo: L’Esclusa.

Il 1894 fu un anno importante perché il 27 gennaio lo scrittore si unì in matrimonio, a Girgenti, con Maria Antonietta Portulano. Tra il 1895 e il 1899, a Roma, nacquero i tre figli della coppia: Stefano, Lietta e Fausto.

Nonostante Pirandello si fosse avvicinato definitivamente alla narrativa, pubblicò altre raccolte di poesie: Elegie Renane (1895), Zampogna (1901); e Fiori di chiave (1912), che fu l’ultima.

Nel 1902 uscì il romanzo Il Turno e Pirandello, nel frattempo, iniziò a collaborare con riviste e giornali. Nel 1897 iniziò a lavorare come insegnante presso l’Istituto Superiore di Magistero.

Nel 1898 stampò sulla rivista «Ariel» il PRIMO TESTO TEATRALE: L’epilogo, ribattezzato poi La morsa.

 

IL DRAMMA

Nel 1903 le miniere della famiglia di Pirandello si allagarono. L’evento fu un dramma non solo per la perdita di vite umane ma anche per il devastante impatto sugli interessi economici del padre e del suocero dell’artista. La dote della moglie, investita nelle miniere, andò in fumo. Maria Antonietta Portulano cadde così in un grave esaurimento nervoso che la accompagnò per tutta la vita. Lo stesso Pirandello ne uscì distrutto… e pensò al suicido.

Lo scrittore e drammaturgo dovette, però, utilizzare tutto il suo ingegno e la sua forza per reagire e far tornare in una “forma” stabile la vita sua e della famiglia.

Pirandello iniziò a dare lezioni private e intensificò le collaborazioni editoriali.

Nel 1904 IL FU MATTIA PASCAL, probabilmente il frutto del grave periodo appena vissuto, fu pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia». Il romanzo attirò molto l’attenzione… infatti l’editore TREVES decise di occuparsi della pubblicazione delle opere di Pirandello.

La PAZZIA e le MALATTIE NERVOSE… e Pirandello trasse, così, dalla vita… tutti i significati travolgenti e stravolgenti che caratterizzarono la sua profonda rivoluzione narrativa, sociale e “universale”.

 

Img. Pixabay. Edited

L’UMORISMO?

Per finalità concorsuali (voleva infatti ottenere una cattedra universitaria), nel 1908, Pirandello scrisse i saggi Arte e scienza e L’umorismo.

L’umorismo è assai importante per comprendere la “percezione” dell’autore. Pirandello, innanzitutto, distingue IL COMICO e L’UMORISMO.

IL COMICO è “l’avvertimento del contrario”, mentre L’UMORISMO è il “sentimento del contrario”. L’esempio presentato è quello di una vecchina agghindata come una giovane donna. Guardandola… all’inizio avvertiamo l’evidente contrasto tra l’età della donna e il suo atteggiarsi: primamente il “riso” è la reazione istintiva. In un secondo momento, se ci si ferma a riflettere sulle eventuali motivazioni del comportamento della donna… magari la voglia di conquistare un marito indifferente o uno slancio dai risvolti anche più assurdi e dolorosi… ecco che non ridiamo più. L’umorismo è amaro, sarcastico… non nero ma tinto di un grigiore sospeso tra l’interrogativo, l’inafferrabilità che diventa anche consapevolezza alla maniera pirandelliana. Nell’UMORISMO c’è del TRAGICO: il contrario e il confronto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere (poi per chi?) è la chiave per comprendere, poi, l’opposizione tra VITA e FORMA, tanto caratteristica dei personaggi rappresentati nelle opere che mostrano il vero marchio dell’autore. E parlare di marchio è bizzarro ma assolutamente evocativo quando si parla di uomini “non morti”, donne tornate in vita… e unità di un Io che si smembra fino a diventare NESSUNO.

Questo punto è molto importante anche per capire il testo qui scelto.

Sempre nel 1908, Pirandello, fu nominato come ordinario dell’Istituto Superiore di Magistero.

Nel 1910 pubblicò, sulla «Rassegna Contemporanea», I vecchi e i giovani. Il 9 dicembre 1910 furono rappresentati, al Teatro Metastasio di Roma, La morsa e Lumie di Sicilia.

Sempre nel 1910 venne alla luce la raccolta di novelle La vita nuda. Altre novelle, poi, furono pubblicate… tra cui La trappola, per Treves, nel 1915. In soli tre anni, Pirandello scrisse circa cinquanta novelle.

 

IL 1915

Nel 1915 venne pubblicato il romanzo Si gira, che divenne poi, nel 1925, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore.

Pirandello uscì sempre di più dalla pagina… per andare IN SCENA.

In quell’anno iniziò l’intensa attività teatrale.

Importanti furono gli incontri con i catanesi Nino Martoglio, autore, e Angelo Musco, attore.

Nel 1916, Musco portò al successo Pensaci, Giacomino! Spinto da questo esito, Pirandello scrisse altre opere teatrali: Il berretto a sonagli e Liolà, presentati anch’essi dal Musco. Dal teatro dialettale si passò, pian piano, all’”arte pirandelliana” e al metateatro.

Il 1915 fu, però, anche un anno di profonde tragedie per Pirandello: la madre morì e il figlio andò in guerra volontario e fu fatto prigioniero dagli austriaci; inutili i tentativi di farlo liberare… il giovane tornò a casa gravemente malato.

È da ricordare che l’autore era fortemente interventista: vanno a ciò ricondotti i sentimenti anti-borbonici della famiglia d’origine. Pirandello mal tollerava l’ingerenza straniera e sperava che la guerra portasse finalmente una risoluzione per i problemi del meridione.

 Nel frattempo, le condizioni di salute della moglie si fecero sempre più gravi; Pirandello continuò comunque il buon mestiere di marito e proseguì ad accudirla.

Nel 1919, Maria Antonietta Portulano fu, però,  internata… fino alla fine dei suoi giorni.

 

Lo SCOSSONE de I SEI PERSONAGGI

Il 9 Maggio del 1921, Sei personaggi in cerca d’autore fu messo in scena al Teatro Valle di Roma scatenando una fiumana di critiche… Pirandello, che assisteva alla rappresentazione, dovette andar via per sfuggire al linciaggio. La sua opera ottenne, poi, il successo meritato, a Milano.

Da quel momento cadde il sipario davanti al sipario.

L’ascesa di Pirandello non si arrestò: nel 1922 l’editore Bemporad pubblicò il primo volume delle Novelle per un anno.

 

LA DISCUSSA “ADESIONE “ AL FASCISMO

Nel 1924, dopo il tragico delitto Matteotti, Pirandello aderì al Fascismo dopo un accorato telegramma inviato a Mussolini. Le motivazioni non vanno viste con occhio “moderno”, con il “senno di poi”. Ricordiamo che Pirandello era profondamente critico verso la condizione italiana, specialmente del mezzogiorno: il suo va considerato come un “voto di protesta”, un tentativo verso un “nuovo” che si professava difensore del popolo.

In realtà non mancarono contrasti con il partito: Pirandello mantenne sempre un atteggiamento assolutamente ambivalente. A tratti si professava “apolitico”… e si racconta anche di una discussione dinanzi al Segretario Nazionale del Partito, davanti al quale Pirandello avrebbe stracciato la sua tessera (per questa informazione si rimanda all’introduzione delle Novelle per un anno della Utet, del 1956, e al racconto di Corrado Alvaro riportato da G. Giudice).

La rottura formale, però, non avvenne mai. A tutto questo vanno ricondotti anche interessi più pragmatici: Pirandello fondò la Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, la quale fu fortemente finanziata dal partito.

La Compagnia portò, per tre anni, l’arte pirandelliana in tutto il mondo: fino a Broadway. Nacque così un grande sodalizio sentimentale e artistico: il profondo rapporto con l’attrice Marta Abba.

Della Abba sono conservati diversi ritratti nella casa museo che diede i natali a Pirandello.

Si dice che il rapporto fosse strettamente platonico.

 

GLI ULTIMI ANNI E L’OPERA SIMBOLO DELLA VISIONE PIRANDELLIANA

Tra il 13 dicembre 1925 e il 13 giugno 1926 fu pubblicato, a puntate sulla rivista «La Fiera Letteraria», Uno, nessuno e centomila.

La concezione e le prime bozze risalirebbero, in realtà, agli anni del saggio sull’umorismo. L’opera può essere considerata un “romanzo-testamento”: la sintesi della concezione di Pirandello sull’esistenza e l’individuo viene mostrata senza filtro alcuno. Al momento, l’opera non attirò particolare attenzione, oggi è uno dei testi più tradotti e letti della letteratura italiana.

 

PUBBLICI RICONOSCIMENTI, “L’ORO PER LA PATRIA” e LE ATTENZIONI DELL’O.V.R.A.

Nel 1929, Pirandello diventò membro dell’Accademia Italiana: istituzione culturale fondata dal regime, che fu in attività tra il 1929 e il 1944. In realtà l’Accademia fu istituita con il Regio Decreto Legge del 1926; il ritardo nella messa in opera può ricondursi ai repentini cambiamenti interni al fascismo… da partito popolare e antiretorico si stava trasformando in una capillare rete di controllo che coinvolse progressivamente anche il regno della cultura.

Nel 1934 fu assegnato a Pirandello il premio Nobel, per “il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”. Il premio, è da sottolineare, venne guadagnato… appunto… per il teatro.

Nel frattempo il regime chiedeva il famigerato “ORO PER LA PATRIA”: Pirandello cedette volontariamente la medaglia ricevuta per il Nobel. Nonostante questo non si deve pensare all’autore come a un intellettuale “fascista”. Niente in Pirandello era in linea con il partito: l’uomo rappresentato era il fantoccio del vuoto dell’uomo borghese, la sicurezza e volontà di potenza non trovavano spazio fra tremolanti coscienze ridicole e senza un’identità. Per il regime Pirandello era un “disfattista”; alcune sue opere incontrarono l’opposizione di Mussolini stesso. Mentre l’autore donava la sua medaglia del Nobel… intanto… l’O.V.R.A. (la Polizia Segreta fascista) lo teneva d’occhio.

Pirandello iniziò a viaggiare moltissimo; e questo distacco non va visto solo come un fortuito caso portato dalla fama e dagli impegni artistici.

Mussolini non riuscì mai a “inquadrare” Pirandello, quest’ultimo non entrò mai nella piena consapevolezza di ciò che avrebbe significato il fascismo, oscurato da un sentimento malinconico di rivalsa verso le angherie straniere subite dal paese.

 

PIRANDELLO DALLA RESA AL CINEMA ALLA MORTE

Inizialmente Pirandello si mostrò critico verso il cinema: fino ad arrivare ad apostrofare ciò che vedeva sullo schermo come delle “larve evanescenti”. Successivamente, in una lettera a Marta Abba del 1930 scrisse: “ Bisogna orientarsi verso una nuova forma d’arte: il film parlato. Ero contrario. Mi sono ricreduto”. Ricordiamo che nel 1929 era avvenuta una delle più grandi rivoluzioni della storia culturale mondiale: l’avvento del cinema sonoro.

Pirandello iniziò così a lavorare alla trasposizione cinematografica de Il fu Mattia Pascal; durante le riprese a Cinecittà si ammalò di polmonite. Morì nella casa romana il 10 dicembre 1936.

 

UNO, NESSUNO E CENTOMILA

Ph. Francesca Lucidi. Ebook annotato edito da Giulio Verne Editore

LE “TRAME”

Vitangelo Moscarda vive un’esistenza piana, uguale a se stessa nell’immobilità di una condizione agiata e di un matrimonio contratto in giovane età. Il padre possedeva una banca e dopo la morte lascia al figlio un cospicuo patrimonio e la fama di “usuraio”. Vitangelo non ha la minima percezione della sua vita, del suo posto in società, di come la gente lo ritenga un usurario tanto uguale quanto diverso da suo padre. Gengè, perché è così che la moglie Dida lo chiama, porta a spasso la regal cagnolina borghese mentre la sua sposa lo coccola con buffetti verbali indirizzati a quel “suo Gengè” così sciocco, teneramente sciocco… almeno così pare a Dida. Tutto sembra filare più o meno liscio fino a che a Vitangelo viene fatto notare il suo naso storto, proprio da quella moglie che gli gira intorno con i suoi abiti chiari e svolazzanti e le sue parole smielate e vuote. Le parole che Dida dice questa volta, invece, pesano come un macigno sulla sopita coscienza di Vitangelo. Una discussione apparentemente vacua è l’inizio del romanzo e l’avvio del motore rombante di una potenza distruttiva che metterà a nudo gli scheletri delle male fondamenta di una umanità sciocca, vaga, evanescente.

Vitangelo inizia a non riconoscersi più per come si era visto: comincia a pensare che quel NASO è ciò che si pone davanti agli “altri”, finanche sovrastando l’immagine dei suoi pensieri o azioni. Qualunque cosa lui fa o pensa, ha quel naso… quei capelli… quella postura storta, quella gamba sgraziata. Dida ha fatto le ennesime sciocche considerazioni al suo sciocco Gengé; Gengé si mostra DAVVERO, PER LA PRIMA VOLTA, come altro rispetto a Vitangelo… che poi è anche un “Moscarda”, il che significa “usuraio”.

Il protagonista non ha mai preso una decisione nella sua vita: due fidatissimi amici e soci amministrano la banca e i suoi affari… la moglie gli dice come passare il tempo scandendo la giornate con le passeggiate della cagnolina Bibi… la gente conosce esattamente la famiglia “Moscarda” e vede Vitangelo come il prodotto perfetto di una nascita che il protagonista, come tutti noi, non ha scelto. I poveracci occupano diversi spazi degli immobili e delle terre di Richieri appartenenti a questo “usuraio” che non sa niente di numeri e contratti. Lui ha vissuto tutto come se non esistesse altro, anzi come se tutto fosse una sola realtà nota… dopo aver visto il suo naso storto, però, Vitangelo non si riconosce più.

La pazzia inizia a farsi strada in quella mente infantile e sciocca (come è sciocco questo Gengè!). Inizialmente Vitangelo si sente quasi un privilegiato: ha scoperto una verità che pare farlo sentire come il depositario dell’essenza dell’universo… questo, però, dura assai poco. Si passa subito all’ansia, al malessere e alla brama di cogliere nello specchio quell’Io autentico che a lui è sempre sfuggito. Vitangelo prova a vestirsi delle nuove consapevolezze andando in giro ad additare i “difetti” altrui, come a voler diffondere il VERBO. Nulla però calma la crescente FOLLIA di quest’uomo che adesso ha finalmente pensieri propri, ma proprio nel momento in cui si rende conto che ogni pensiero o immagine delle cose o di se stessi è solo una parcellizzazione della parcellizzazione infinita che occorre negli occhi degli altri: ognuno vede una realtà con i propri occhi pensando che quella sia la verità assoluta. Nasciamo in un contesto che non scegliamo e veniamo visti in modi che non possiamo vedere a nostra volta.

La PAZZIA di Vitangelo si fa RIVOLUZIONE… il protagonista inizia così a smantellare tutta la sua realtà, non tanto sua poi, e attira su di sé prima l’incredulità e poi l’ira di TUTTI.

La rivoluzione poi si fa violenza: Vitangelo non contiene più il flusso dei suoi ossessivi pensieri che si chiudono su se stessi in una girandola impazzita. La cagnolina Bibi subirà le battute finali di quella coscienza letteralmente esplosa.

Intorno a Vitangelo la vita si mostra e si ritrae, come anche l’identità. Alla fine cosa resta di un essere che non è Vitangelo, non è più Moscarda e neanche un Gengè? Pirandello una soluzione la mostra… che sia confortante o meno è da “vedere”.

 

 

PIRANDELLO: UN PROFETA CHE “SCRIVE MALE”

Luigi Pirandello mette in crisi i critici… ve lo posso assicurare… e paradossalmente viene imposto agli studenti italiani alle scuole superiori, anzi addirittura alle scuole medie. Lo stile dell’autore non è così digeribile o avvicinabile da qualsivoglia individuo “strutturato”, figuriamoci da giovani a cui vengono imposte letture che mettono in discussione i dettami delle antologie e dei manuali di narratologia.

Pirandello è un “classico”; al contempo è un antico luogo comune che l’autore scriva MALE.

Se pensiamo al canonico punto di vista, si può da qui partire per l’analisi destrutturante dell’ideologia e dei modi pirandelliani. L’autore è un relativista: non vi è una realtà univoca come non vi è un solo modo di vedere e un filo logico che riconduca “la storia” a una visione identificabile, da abbracciare per ottenere UNA verità.

Sicuramente Pirandello deve molto al verismo… ma è altrettanto certo che l’oggettività di una corrente che scandaglia e mostra gli eventi nella loro materialità e manifestazione, potremmo dire reale… è quanto di più lontano dal SOGGETTIVISMO ASSOLUTO dell’autore.

La mano dell’autore non è nascosta: i testi si mostrano fieramente come “costruiti”, come lo è la realtà presentata al lettore. Il verismo muove dalla certezza di eventi raccontati come sono, Pirandello impone la verità RELATIVA; il narratore non è attendibile, proprio questa è la VERITÀ che si può trarre leggendo i testi pirandelliani. I personaggi ragionano e ragionano. Non si può parlare di TRAMA ma di TRAME sviluppate e avviluppate nei gorghi dei monologhi.

La narrazione in prima persona è considerata limitante e difficile da intraprendere, quando si scrive un romanzo. La difficoltà a mantenere la narrazione sull’unico filo dell’Io narrante non è cosa facile… ma è ancor più difficile cedere a patti con il profetico multifocale raccontare di Pirandello.

Vitangelo parla per se stesso… che è un IO non univoco; riesce però anche a prevedere e a parlare secondo le molteplici realtà degli “altri”. I pensieri degli astanti in quella vita ridicola sono, alla fine, ben intesi dal protagonista che a volte ne viene sopraffatto ma altre volte ne anticipa i risvolti e le manifestazioni.

La focalizzazione pirandelliana è in continuo movimento: la vita, per l’autore, è un flusso in moto continuo… ci sfugge perché noi siamo invischiati nella FORMA.

L’ARTE è FINALIZZATA A SCOPRIRE LA CONDIZIONE UMANA; rispetto al verismo, però, la realtà non è una e si alterna tra l’occhio del comico a quello del cinico umorismo… della riflessione sul contrario (come abbiamo già spiegato parlando del saggio L’umorismo).

La DICOTOMIA VITA/FORMA è di primaria importanza.

La vita è un flusso, appunto, è anche istinto: è irrazionale perché è altro rispetto alla FORMA, alla prigione dove la vita “esterna” ti richiude.

L’uomo, per vivere con gli altri, e purtroppo negli altri, prende una FORMA. La parte razionale domina l’esistenza attraverso le MASCHERE che siamo costretti a portare per avere un posto, poco importa che quel posto non lo abbiamo scelto. L’uomo è destinato a NON VIVERE libero nella società; se però togli la maschera… la SOCIETA TI MARCHIA.

Il paradosso sta nel non vivere perché si è solo maschere e nel non essere più integrati nella società se quelle maschere scegliamo di togliercele.

Vitangelo Moscarda, in conclusione, NON HA UNA IDENTITÀ perché ne HA TROPPE. La sua ricerca dell’ipotetica verità diventa un uragano distruttore.

Chi sfugge le convenzioni viene MARCHIATO. Allo stesso modo, quando nasci hai comunque il marchio delle tue origini e la gente ti veste di convenzioni che divengono altre maschere: forse quelle più invisibili, e pesanti.

Chi sfugge alle convenzioni è un PAZZO. La pazzia è l’estrema costrizione, l’arma definitiva del razionale strazio dell’esistenza nel mondo.

Vitangelo cerca di non essere più un usuraio e diventa, così, un pazzo.

Il protagonista, alla fine, diviene profeta del suo nome: VITANGELO, l’ANGELO ANNUNCIATORE della vita.

Se la vita è costrizione e finzione… allora quale vita, o via, viene mostrata al lettore?

Innanzitutto va ribadito che non contano i FATTI ma la RIFLESSIONE SUI FATTI. La narrazione umoristica è il mezzo per smontare le convenzioni e far cadere “il sipario”. Il lettore è qui un testimone.

L’inconsistenza è la vera sostanza di questo romanzo, come di altri testi dell’autore. Lo straniamento è una catarsi assai dolorosa da provare. Nella storia ci sono molti temi novecenteschi come la messa in discussione della proprietà o il conflittuale rapporto con la FIGURA PATERNA; Pirandello mostra una visione negativa dell’immagine sacra della famiglia e del matrimonio… ma anche la fuga da quest’ultimo non fa che rientrare in altri cliché.

Dov’è un attimo di respiro? Dove si può trovare l’autenticità?

La NATURA, ecco che arriva e da una coperta verde fino ai ricordi di Vitangelo, si fa vedere per quello che è… non curante di come viene vista o costantemente “ricostruita” dall’uomo.  Il paesaggio, gli alberi e l’erba assumono CONNOTATI MITICI. Per entrare nell’unico autentico flusso del vivere di questa Natura idealizzata, però, si deve RINUNCIARE.

Follia, scontro, alienazione: la via per la VITA UNIVERSALE non è così facilmente metabolizzabile, per il lettore.

La volontà invischia l’uomo come le maschere. Zittire la volontà di vivere, L’ASSENZA… questi sono i mezzi che vengono proposti da un protagonista che non esiste più.

Il lettore, anche in quanto tale in senso stretto, legge nella sua identità: è quindi semplice captare o essere d’accordo con questo “NIRVANA” pirandelliano?

L’effetto finale è agghiacciante.

Tutto questo perché?

Perché è molto probabile che io che scrivo e voi che leggete… NON SIAMO CONSAPEVOLI.

 

IN CONCLUSIONE

Si è UNO perché tutti credono di essere unici con particolari caratteristiche che percepiamo come nostre e univoche.

Siamo CENTOMILA perché siamo tante personalità quante sono le MASCHERE… e di conseguenza ciò dipende anche da quante persone ci percepiscono (con le proprie esclusive verità date per buone, si intenda!).

Alla fine siamo, però, NESSUNO: tra tutte le personalità, alla fine, nulla resta.

BUONA CONSAPEVOLEZZA…

 Img. Pixabay. Edited.