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martedì 29 ottobre 2019

APPARIZIONI DI HALLOWEEN STRALCIO 2#



Strane apparizioni e storie che vogliono essere raccontate...
Ecco che allora a voi,
le facciamo arrivare!

SPECIALE DI HALLOWEEN 
di 
Francesca Lucidi

Una breve narrazione che rievoca fiabe antiche, leggende e superstizioni... con un disegnino vezzoso: infantile? Ogni paura sembra infantile... ma è il saggio retaggio della nostra storia. E poi ogni bambino nosconde in sé un grande saggio.

 ______

CATERINA E LO SPAVENTAPASSERI
di
Francesca Lucidi

Si racconta che la Terra dei Gobbi, un tempo, fosse la valle più fertile di tutta la zona nord di quel paese di collina, ora città… che ha dimenticato molte delle sue storie.
La natura a quei tempi era impietosa, oscura e imponente. In quell’angolo di mondo, maestosi pioppi, querce e faggi… proiettavano le loro ombre sulle genti piegate dalla fatica e dai freddi inverni. Da qualche anno imperversava una guerra sanguinosa, lontano da quel paese… ma nelle case di Fiume dei sassi quella guerra era assai vicina: tutti gli uomini erano stati mandati dal Conte verso il mare. Tutti erano saliti sui carri, i cavalli e i muli, e si erano recati verso le spade affilate dei biondi guerrieri della costa. Solo i bambini piccoli erano stati risparmiati… e qualche vecchio malandato, solo perché potessero svolgere altre funzioni…  Una parte dell’esercito del Conte era rimasto a Fiume dei sassi, per far sì che ogni desiderio del padrone potesse trovare sufficiente soddisfazione.
I campi erano noti per le patate grosse dalla buccia rosso fuoco… i finocchi muovevano gli orti con le loro chiome spostate dal vento. In autunno questo spettacolo esplodeva di profili e colori, grazie alla presenza inquietante di tante grasse zucche, che venivano piantate in fondo rispetto alle altre coltivazioni… e quando erano mature sembrava che il campo fosse protetto da strane presenze.
Al centro del grande appezzamento sotto la dimora del Conte… un grosso spaventapasseri osservava attento e immobile: qualche cornacchia gracchiava sulle sue lunghe braccia, e i topolini erano soliti solleticargli la testa di zucca. Sì sulla sommità dello spaventapasseri veniva sempre posta la zucca più spaventosa di tutto il raccolto,  dopo averci inciso una faccia poco accogliente; anche per i topolini che passavano, con timore e lentezza, da un occhio al naso della faccia intagliata.
Le donne erano costrette dal Conte a lavorare giorno e notte per sopperire alla mancanza di braccia maschili, ora impegnate in una sciocca battaglia di potere che il Conte si ostinava a protrarre, per cercare nuovi territori verso il mare…  ricchi di uliveti verdi e nodosi.
Anche le bambine erano impegnate nella cura di patate, finocchi e zucche… anche la piccola Caterina… ormai senza il padre, ma anche senza la mamma… la quale era stata rinchiusa dal Conte nella sua dimora… per spolverare gli scudi arrugginiti, e deliziare i suoi occhietti lascivi e le sue mani lunghe e demoniache.
Caterina veniva allevata dalla donne del paese;  tutte le donne cercavano di fare del loro meglio per i bimbi sfortunati e soli. Nelle serate autunnali, quelle donne poggiavano i piedi stanchi verso il fuoco, sbucciando le castagne arrostite, passate poi alle manine gelide dei bimbi tristi di Fiume dei sassi.
Caterina ogni giorno faceva il suo lavoro con dovizia. A ora di pranzo si sedeva sotto lo spaventapasseri e, mangiucchiando il suo tozzo di pane, parlava a quella figura inquietante con un’angelica vocina… rivolgendosi a quella testa-zucca immaginando che fosse la sua mamma. Il ghigno prepotente di quella testa sembrava ogni giorno addolcirsi alle calde parole di Caterina. Un giorno la bimba portò da casa un vecchio grembiule della madre, la bella Luisa, e lo avvolse intorno allo spaventapasseri; dopo averlo privato dei brutti stracci che lo ricoprivano. Iniziò ad adornare la zucca di fiori di edera… e gli sussurrava pensieri e dolori.

Caterina, nel giorno della Vigilia di Ognissanti, sembrò vedere la sagoma della mamma attraverso la finestra dell’alta torre del Conte. Caterina urlava e piangeva, calpestando le patate, la terra e i poveri lombrichi che dovevano scansarsi al suo passaggio. In un attimo una figura alta e curva tirò via Luisa dalla Finestra. Due guardie si precipitarono nel campo e si posero innanzi alla piccola Caterina. La bimba tremava, mentre il più basso dei due uomini gli tolse dalle mani il tozzo di pane del pranzo, e lo infilzò nella punta della spada dicendo: «Ma guarda guarda… qui abbiamo una piccola piantagrane. Il Conte non apprezza chi rovina le sue giornate e i suoi incontri amorosi. Guarda questo pezzo di pane, se non vuoi vedere la testa di tua madre fare la stessa fine… il Conte ti consiglia di dimenticarti di lei… e di riprendere il tuo lavoro. Il raccolto deve essere terminato per il giorno dei morti. Torna a lavoro!»
Con una mano la guardia afferrò la veste di Caterina e scaraventò la piccola ai piedi dello spaventapasseri. I due andarono via di corsa al rumore del tintinnare delle armature. La piccola iniziò a piangere, a disperarsi per ore. La notte sopraggiunse e Caterina singhiozzava senza più lacrime, addosso al grembiule fiorito che lo spaventapasseri indossava. A un tratto ecco che uno scricchiolio interruppe la disperazione di quella piccola bambina triste.
Crack… Crack… Crack…
Un’aria gelida accarezzò i rossi capelli di Caterina, e il grembiule iniziò a muoversi sfiorando il viso della bimba ormai intontita dal pianto. La piccola si toccò la faccia pensando di essere attraversata da qualche ragno di passaggio… ma i rumori aumentavano e Caterina alzò gli occhi e vide la testa-zucca chinarsi verso di lei. La bimba saltò all’indietro cadendo, lo spaventapasseri si sradicò dal terreno e tentò di afferrarla. Caterina restò impietrita e gelata, tremante e sbigottita. Le testa-zucca si muoveva sopra ai legni sudici e secchi che gli facevano da corpo; avanzò lenta e si trovò “faccia a faccia” con la piccola.
I topi sentivano il cuore battere all’impazzata, gli scarafaggi si stringevano tra di loro, le cornacchie si erano poggiate sui rami sovrastanti il campo… e non si muovevano.
«Piccola mia… come sei cresciuta… sei bellissima!»
Lo spaventapasseri parlò… passando le dita fatte di rami secchi di erica, sulle guance magre e pallide di Caterina, che disse: «Mamma?»
«Mio cuore dolcissimo sono qui. Oggi volevo fuggire, venire da te…  il Conte mi ha scoperta… mi ha afferrata e mi ha spinta giù dalle scale…»
«Sei morta??? È colpa mia… non dovevo urlare, mamma è colpa mia… quell’uomo malvagio… è solo colpa mia!»
«Tesoro io ti amo più di ogni altra cosa, e non è colpa questo… è merito. Ti ho amata dal primo momento che ti ho vista. I tuoi capelli rossi, i tuoi occhioni sinceri. Volevo tornare dalla mia bambina a tutti i costi. E sono tornata.»
«Ma, ora non ti riabbraccerò mai più… mamma oh mamma! Quell’uomo malvagio ci ha portato via papà… adesso ha preso anche te! Sono sola come farò!»
«Mia cara… IO, PRENDERÒ LUI!»
La testa-zucca riprese il suo ghigno originario e scavalcò il corpicino di Caterina dirigendosi ad ampie falcate verso la dimora del Conte. Il grembiule sgusciava tra i legni scricchiolanti di quella figura arrabbiata e altissima.

Il Conte dormiva sereno nel suo baldacchino di velluto dorato. Un freddo pungente lo fece svegliare. Tirò la coperta a sé e si guardò intorno: degli strani scricchiolii avevano attirato la sua attenzione. Spostò la tenda arabescata del baldacchino e fu atterrito da un ghigno enorme e adirato che lo fissava. Il corpo del Conte fu sollevato da una forza inumana e inconsistente: la sua veste da notte pendeva e s’impigliava nei rami e nelle ragnatele spesse dello spaventapasseri. La finestra si aprì in un attimo, da sola… anzi dal vento che sembrava aver risposto a un comando.
Il corpo sudato, e al contempo gelato, del Conte… volò giù dalla torre e si fermò, con un tonfo sordo, su un masso millenario del “Fiume dei sassi”: il corso d’acqua pieno di pietre, e povero di acqua, che aveva dato nome al paese di cui la storia racconto.
Il sangue sgorgava dalla camicia da notte lacerata dalle ossa rotte e fuoriuscite del Conte. Quel rosso fiume sembrava più copioso del corso che lo accoglieva. Due volpi saltellarono sui sassi e iniziarono a banchettare e straziare, a mangiare e guaire.
Caterina aveva visto il Conte volare dalla finestra, e due strani tondi lucenti fissarla dalla torre.
Le cornacchie si allontanarono… e il ragni iniziarono a camminare sulle mani di Caterina, che abbracciavano la terra con le dita. Una voce risuonò in aria: «Mio Cuore, ogni notte della Vigilia di Ognissanti, vieni in questo campo… e lo Spaventapasseri camminerà… io camminerò e ti stringerò a me. Per tutta la tua vita io ci sarò. Tu assicurati che lo Spaventapasseri abbia sempre la sua testa-zucca, saluta i ragni che vi abitano. Cura la terra e parla con ogni essere vivente. Non sei sola. Noi ti proteggeremo. La terra che tu tanto ami, che curi… si prenderà cura di te. Addio Amore mio… NON DIMENTICARE…
Ad ogni Vigilia di Ognissanti i morti passeggiano sulla terra… chi per Amore, chi per vendetta!»
Il giovane cugino del conte venne da lontano. Gli uomini tornarono a casa… anche il papà di Caterina.
La piccola divenne donna… e ogni anno, per la notte stabilita, cucinò una pagnotta di pane e cucì un grembiule nuovo… per uno Spaventapasseri assai speciale. 

 Illustrazione di Francesca Lucidi (Rose)






martedì 6 agosto 2019

Di Sara Marcaurelio STRALCIO 1#




Occhi Gialli




 Ill
Editing del testo Francesca Lucidi


Din don, din don.

Per undici volte suona il rintocco della campana.

Mi hanno detto che a mezzogiorno morirò e, come è pietoso, ridicolo riguardo al mio rango, mi hanno chiesto quale fosse il mio ultimo desiderio prima di essere cancellata definitivamente da questa terra.

E così ho chiesto un foglio per poter scrivere la mia storia: non è una confessione, nemmeno una giustificazione a ciò che è accaduto.

Lo faccio per aggrapparmi a quel lume di lucidità che ancora mi rimane, e comprendere se la colpa è della mia anima perduta o della mia mente malata, perché è nebuloso e sottile il confine che separa le due dimensioni.

Nell’ora suprema, in cui si riceve l’estremo dono dell’imparzialità e dell’oggettività, ripercorro i fatti che mi hanno condotta qui, a scrivere il mio racconto sul tavolo sgangherato, e logorato dalle tarme, di una povera e umida cella di una tetra e opprimente prigione.

Ero la figlia di un ricco nobile proprietario di una vasta contea. Ho vissuto una vita di lusso e agiatezza. Crescevo in grazia e splendore, avvolta dal manto della mia chioma corvina che strideva magnificamente con l’avorio della mia pelle.

Le mie giornate scorrevano tranquille e spensierate, nel cerchio celeste della fanciullezza. Finché il mio corpo non cambiò, finché le mie forme non divennero appetibili; finché la mia persona non divenne barattabile per il bene della famiglia.

Mio padre, il mio adorato padre, decise di darmi in sposa; ed io, da sempre abituata all’obbedienza e alla sottomissione imposta alla subordinazione del mio sciagurato genere sessuale, accettai di buon grado.

Così, il giorno stabilito per le mie nozze, venne nel mio palazzo un uomo facoltoso, e dal titolo altisonante, a reclamare pubblicamente la mia mano; e segretamente il mio corpo inviolato.

A ripensarci, appena lo vidi, ebbi un moto di disgusto indicibile. Era obeso, calvo, viscido e molto più vecchio di me; ma lo seguii ugualmente nel suo castello muta e sottomessa, così come mi era stato insegnato.

Arrivando notai subito all’ingresso un gatto nero dai grandi occhi gialli, che mi fissò attentamente. Io mi avvicinai a lui e lo accarezzai. Sentii in me una strana sensazione di pericolo e conforto... ma non ebbi il tempo di esaminare a fondo il mio stato d’animo che subito il felino se ne andò.

Intanto, inesorabile, venne la sera. La prima notte di nozze il mio legittimo consorte reclamò la sua piccola preda e mi prese con violenza, con cupidigia e furore selvaggio.

Piangevo e singhiozzavo, non avrei mai immaginavo che il matrimonio che io immaginavo, l’amore di cui avevo ascoltato le delizie dalle ballate dei menestrelli, l’unione sublime di due anime… potesse trasformarsi in un sordido e animalesco amplesso.

Mi guardavo intorno, per cercare un qualche aiuto nella stanza oscura e tenebrosa, quando incrociai un penetrante sguardo giallo.

Il gatto nero era lì, mi guardava, mi osservava con un cipiglio di cui non avrei mai ritenuto capace un animale: mi penetrava l’anima con i suoi grandi occhi zafferano.

Tutto finì, il mio stomachevole consorte sollevò la sua pingue e disgustosa carcassa dal mio esile corpo e, soddisfatto della sua squallida pantomima, si addormentò.

Ero sconvolta, ero sola, ero disperata.

Quando ripresi possesso del mio corpo, e della mia mente, mi alzai dal letto e mi rifugiai nella piccola stanza adiacente alla camera da letto. Mi appoggiai su un piccolo tavolo e sollevando la testa incontrai il mio volto in uno specchio. Quale fu la mia disperazione nel vedere i miei tratti gentili abbrutiti dallo sfregio che deturpava la mia anima...

Portavo i segni di quella profanazione sul mio volto.

Stavo per impazzire di dolore quando improvvisamente udii cigolare la porta, mi girai verso di essa e non vidi nulla se non tenebre rischiarate appena dalla fioca luce di una candela quasi consumata.

Stavo per volgere di nuovo la mia attenzione alla mia disperazione quando inciampai in due grandi occhi gialli. Il gatto si avvicinò al flebile chiarore del lume morente e, che Dio mi perdoni, lo vidi chiaramente ergersi in tutta la sua figura sulle zampe posteriori.

Con un disinvolto gesto della zampa attirò la mia attenzione e disse:

« Non piangere piccina, sono qui per aiutarti!»

A quel punto, allontanando inorridita l’ipotesi di aver perso il senno, mi persuasi che stessi dormendo e che avessi a che fare con un demone del sonno. Gli risposi quindi con naturalezza: « Come puoi tu, un gatto nero, aiutarmi?», «Ascolta bambina, voglio fare un patto con te… io sono il gatto che esaudisce i tuoi desideri: OGNI tuo desiderio. Sta attenta però perché una volta pronunciato, il tuo desiderio sarà esaudito e non si torna più indietro. Il gatto vince, il gatto perde. A te la mano...»

«Se vinco io cosa ottengo?», chiesi ingenuamente.

« Tutto ciò che avrai il coraggio di sopportare…»

«E se vinci tu?»

«Vinco l’anima che non ha avuto il coraggio di ricevere»

«Come posso non accettare un dono che bramo e che mi viene offerto?»

I grandi occhi gialli perentori mi risposero: «Attenta bambina, io non ti costringo a fare niente, ma se chiedi, sappi che ti sarà dato».

Non risposi, ma lui sembrava leggermi l’anima e accolse il mio silenzio come un consenso.

«Cosa desideri?» mi sussurrò suadente.

«Voglio tutto ciò che desidera il mio cuore!»

«Il tuo desiderio ha un prezzo bambina, sei disposta a pagarlo?»

Ero sconvolta, ero sola, ero disperata. Ero disposta a tutto.

«Accetto» mi sentii mormorare.

«Miao!» esultò il gatto mentre mi saltava in grembo e mi alitava sul viso.

Mi svegliai nel mio letto accanto al mio terribile consorte che russava oscenamente. Avevo memoria dei fatti della notte precedente ma ero convinta fosse solo un sogno.

Guardavo quel cumulo di carne e sangue che mi giaceva rumorosamente accanto, e desiderai con tutta me stessa che l’incontro con il sinistro felino fosse accaduto realmente.

Passai la giornata come in uno stato catatonico. Finché non arrivò il momento del penoso rito notturno.

Udii i passi ormai tristemente noti del mio grasso e lascivo sposo e nello stesso istante in cui lui tentò di possedermi... incontrai l’ormai familiare sguardo giallo.

E in quell’istante io, così fragile e debole, mi sentii penetrata da una forza sovrumana, demoniaca oserei dire. Mi prese un furore, un’esaltazione che mi fece “risolvere”… e fare ciò che ho fatto.

Lo bloccai. Dapprima lui mi guardò contrariato, ma io, con un sorriso seducente e carico di maliziose promesse, lo invitai a stendersi supino. Lui dovette credere che fossi ormai pronta a donargli piacere consensuale e mi lasciò fare.

Mi misi cavalcioni su di lui e cominciai a muovere le mie candide mani sul suo flaccido corpo già madido di libidinoso sudore. Poi, non sapendo bene cosa stessi facendo, presi un cuscino e glielo poggiai sull’abominevole faccione. Premevo con tutta la forza delle mie esili, e anemiche, braccia.

Mentre compivo il terribile gesto, guardai i merletti di quel guanciale: pensai che fosse davvero un peccato usare un tessuto tanto bello e prezioso per soffocare un essere così brutto e laido.

Non so come riuscii a farlo: io, un esserino così gracile, a sopraffare quella disgustosa massa disomogenea di grasso e turpitudine.

Quando smise di dimenarsi, e lo sentii completamente inerme, tolsi il cuscino e mi scostai dal suo corpo.

Lo osservai, osservai il suo grugno segnato dalla sofferenza, tirato in un ghigno di terrore.

Ebbi ribrezzo e piacere allo stesso tempo. Aveva la stessa espressione del mio viso riflesso allo specchio nella sera precedente.

Forse è così che appaiono i volti delle persone quando perdono l’anima o la vita.

Io avevo ucciso il suo corpo, lui aveva ucciso la mia mente; e ne portavamo i segni sulla pelle.

Nei giorni seguenti tutti credettero che il mio amorevole coniuge fosse soffocato nel sonno, e tutti confortavano e compativano la giovane vedova affranta dal dolore.

Era tutto mio: titoli, ricchezze e possedimenti. Finalmente ero libera, ma, mentre mi compiacevo della ritrovata serenità, continuavo a sentirmi addosso lo sguardo malevolo di quel gatto nero che mi trapassava l’anima… e ne scandagliava le colpe.

All’inizio cercai di convincermi che era stato tutto frutto della mia immaginazione sovreccitata dalle infelici e rovinose circostanze. Un gatto non poteva spingermi a uccidere mio marito. I gatti non parlano. I gatti non promettono. I gatti non esaudiscono.

Più passava il tempo più trovavo insopportabile la presenza di quel felino silenzioso e osservatore.

Come se quell’episodio non fosse mai accaduto, si comportava come un normalissimo gatto che mangiava, dormiva e faceva le fusa. Ma io non riuscivo più a sopportarlo. La semplice vista della sua figura instillava in me desideri sinistri, una rabbia feroce e irrefrenabile mi attanagliava non appena intravedevo la sua ombra.

Un giorno che lo vidi mangiare un topo persi completamente il controllo. Lo presi, lo gettai in mezzo alla strada e lo colpii ripetutamente con un sasso. Gli strappai con ferocia trionfante le interiora, e gli spezzai le ossa in preda ad un avido delirio.

Non ho immagini nitide di quell’episodio: mi ricordo soltanto che dopo essermi accanita su di lui, presi tra le mani i suoi poveri resti e confessai urlando il mio delitto, dando la colpa al deturpato e irriconoscibile gatto nero che tenevo sollevato come un trofeo sopra la testa.

Il gatto aveva avvertito.

Il gatto aveva esaudito.

Il gatto aveva vinto.

Din don din don

Per dodici volte suona il rintocco della campana. È mezzogiorno ed ecco che vedo dalle sbarre della mia cella lo sguardo funesto del felino fatale. Lo stavo aspettando, sapevo che sarebbe venuto.

Ora so.

Ora capisco.

Un carnefice è arrivato, l’altro sta per venire a prendermi.

E quindi adesso il boia non ucciderà che un involucro innocente, l’anima colpevole che un gatto nero dagli occhi gialli ha già portato via.